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Il Meccanismo Europeo di Stabilità e la miopia della sinistra
di Guido Ortona
Stando alle ultime notizie (scrivo il 23 dicembre) Meloni pensa di firmare il trattato sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità, ma con la ferma intenzione di non farvi ricorso. A mio avviso (ma come vedremo non solo mio – anzi!) questa posizione è profondamente errata, per due motivi. Primo. Una volta che il trattato sia entrato in vigore non spetterà più all’Italia decidere se farvi ricorso. Obbedire alle sue clausole sarà una precondizione per eventuali interventi a sostegno delle banche italiane e del debito pubblico italiano; e sarà il direttorio del MES a stabilire se e quando tali interventi saranno necessari, e le condizioni cui l’Italia dovrà sottostare. Queste condizioni saranno facilmente vessatorie, come vedremo. E dal momento che la politica europea è egemonizzata dalla Germania, e che la Germania ha forti conflitti di interesse con l’Italia, è bene che il MES non entri in vigore anche per evitare il rischio di pesanti interventi a danno delle banche italiane e della gestione del nostro debito pubblico. Grecia docet. Secondo. Ma soprattutto questa è forse l’ultima occasione per arrivare a ciò che è necessario: rimettere totalmente in discussione il MES puntando alla sua abolizione. Come è noto, infatti, l’approvazione di un trattato europeo richiede l’unanimità.
Le motivazioni di quanto sopra sono esposte in modo sintetico ma chiaro e convincente nel testo dell’appello che un blog di economisti (più qualcun altro), quasi tutti accademici, ha messo in circolazione in questi giorni (https://www.micromega.net/lunica-riforma-necessaria-per-il-mes/). Ne riporto qui il testo.
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Scuola, lavoro e Costituzione
di Saverio Catalano
Perché investire nella scuola (nel modo appropriato) significa investire in maggior democrazia
Senza la scuola, intesa come «comunità fatta di partecipazione, di reciprocità, di consapevolezza condivisa, semplicemente non esiste la società e non può esistere la democrazia». La scuola, come disse Piero Calamandrei, è un organo vitale della democrazia, in quanto è il complemento necessario del suffragio universale(1).
La democrazia, infatti, non si esaurisce nel riconoscere semplicemente il diritto di voto a tutti; se fosse così dovremmo riconoscere che tale sistema rischia di essere una democrazia apparente, in cui la strumentalizzazione dell’élite di un paese è altamente probabile; non sarebbe una democrazia effettiva ma «un caso di autocrazia e oligarchia in cui i protagonisti possono muovere la folla come un’arma»(2), in cui la mediocrità della gran parte è la strada per l’interesse e il potere di pochi, una democrazia dogmatica.
In una democrazia non apparente ma progressiva e critica «il computo dei voti non è l’espressione del dominio della mediocrità, ma la manifestazione terminale di un lungo processo di formazione delle opinioni collettive in cui tutti hanno la possibilità di esercitare la loro influenza, massimamente coloro che hanno maggiori e migliori energie da destinare alla cura delle cose pubbliche»(3).
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Concetti hegeliani e materialismo storico. Il contributo di Alessandro Mazzone
di Roberto Fineschi
Introduzione a Alessandro Mazzone, Per una teoria del conflitto. Concetti hegeliani e materialismo storico, La Città del Sole, 2022
In occasione del decennale della morte di Alessandro Mazzone, tra alcuni ex-studenti (i “mazzoniani” di un tempo) è nata l’idea di ricordarne la figura e l’importante contributo teorico. Con l’adesione delle figlie è stata fondata un’associazione culturale dal nome “Laboratorio critico” con sede a Siena, città in cui Mazzone ha insegnato per molti anni concludendovi la propria carriera accademica; essa ha tra i suoi obiettivi la valorizzazione del suo lascito teorico e librario.
L’associazione, come suo primo atto concreto, ha deciso di promuovere la pubblicazione di una raccolta di scritti che abbracciano l’ultimo periodo del suo impegno teorico (1999-2012). È stata questa sicuramente una fase delicata della sua vita, segnata da problemi di salute, dalla fine dell’attività universitaria, quindi potenzialmente complessa anche intellettualmente.
Pur tra varie difficoltà egli è riuscito a delineare una serie di nodi problematici che, in qualche modo, davano una dimensione teorico-politica più accessibile alla sua sofisticata teoresi degli anni precedenti. Questa dimensione più “popolare” – nel senso più nobile del termine – rimane ancora di grande attualità e offre importanti strumenti per comprendere la realtà contemporanea.
Un contatto importante di questa fase fu quello instaurato con la Rete dei Comunisti, alla quale Mazzone non ha mai aderito formalmente ma con la quale ha a lungo dialogato partecipando a conferenze e pubblicazioni da essa promosse; è dunque sembrato giusto coinvolgere questa organizzazione nel progetto editoriale. L’auspicio è che questi scritti possano contribuire alla ripresa di un dibattito teorico-politico di più alto livello, con possibili ricadute pratiche.
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“Diamo a Marx quel che è di Marx”, ma davvero
di Redazione Contropiano - Carmelo Ferlito
Una recensione “ultraliberista” di un testo dichiaratamente marxista consente, non paradossalmente, di chiarire meglio il concetto di “legge scientifica” e perché, pur essendoci chiare differenza tra la fisica e la critica dell’economia politica, si possa parlare di “legge” in entrambi i casi.
Scrive infatti Carmelo Ferlito – in riferimento a La guerra capitalista di Brancaccio, Giammeti e Lucarelli – “La parte sul conflitto imperialista appare come la più debole all’interno di un volume altrimenti molto interessante e sorgente di numerosi spunti per un dibattito serio sulla dinamica del capitalismo contemporaneo. Infatti, gli autori non riescono ad ingabbiare il legame tra concentrazione e guerra nella stessa logica convincente che invece caratterizza la prima parte sul legame tra concorrenza e concentrazione.”
In estrema sintesi, mentre il legame scientifico tra concorrenza e concentrazione del capitale appare logicamente e scientificamente comprovato, nel libro dei tre studiosi, quello tra crisi e guerra sarebbe ai suoi occhi una “forzatura ideologica”, un tributo quasi fideistico ad una concezione del mondo non scientifica.
A noi, e a tutta l’umanità, crediamo, risulta abbastanza chiaro che molte crisi economiche, specie se di dimensione sistemica, si sono “risolte” con la guerra e la relativa distruzione del “capitale in eccesso” (industrie, infrastrutture, esseri umani, ecc). Dunque un legame tra i due processi (crisi e guerra) ci deve essere. La dimostrazione scientifica non è altrettanto semplice, se la si vuole svolta alla maniera della fisica o della biologia.
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Al capezzale del Capitale
di Tomasz Konicz
Parte prima. La politica monetaria è sull'orlo della bancarotta?
**Una sintesi delle contraddizioni della politica di crisi borghese, vista nell'attuale fase di stagflazione (Prima parte di una serie sull'attuale scoppio della crisi)
Possiamo dire di avere ancora dei soldi? Ovvero, detto in altri termini: Riuscirà finalmente la politica a tenere sotto controllo l'inflazione? All'inizio di novembre, dopo molti mesi di inflazione in costante aumento, il New York Times aveva percepito un barlume di speranza per la politica monetaria [*1]. Secondo gli ultimi dati, l'inflazione negli Stati Uniti si è ora leggermente moderata, il che è «una notizia gradita tanto alla Federal Reserve quanto alla Casa Bianca». Secondo i dati, l'inflazione ha rallentato, dall'8,2% di settembre al 7,7% dello scorso ottobre; le previsioni parlavano del 7,9%. Anche l'«inflazione di base», che esclude gli aumenti dei prezzi dell'energia e dei generi alimentari, ha subito un rallentamento, passando in quello stesso periodo dal 6,6 al 6,3%. Aumentare i tassi di interesse da parte della Federal Reserve statunitense, che quest'anno ha portato il tasso di riferimento dallo 0,25% al 4%, sembra perciò avere avuto un effetto [*2]. E in termini monetari, il punto finale non è stato ovviamente ancora raggiunto. I banchieri centrali della Fed, hanno dichiarato che i tassi di riferimento dovranno essere portati a un livello compreso tra il 4,75 e il 5,25%, per poter riportare finalmente l'inflazione sotto controllo [*3] Nel rapido aumento dei tassi - il più rapido dalla lotta contro la stagflazione nei primi anni '80 [*4] - non è prevista alcuna «pausa», hanno dichiarato i funzionari della Fed ai media statunitensi [*5].
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Miti e misfatti dell’attuale crisi energetica
di Giorgio Ferrari
Con la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (avvenuta lo scorso 26 settembre), L’Europa ha tagliato i ponti dietro se stessa. Quale nazione, tra quelle aderenti alla Nato, l’abbia materialmente portata a termine -giunti a questo punto del conflitto in corso – potrebbe risultare secondario, visto che nessun paese europeo se l’è sentita di smentire la versione mass-mediatica che ne è stata fornita: quella di un auto sabotaggio russo. Che sia stato impossibile per i russi sabotare i propri gasdotti (a parte l’evidente mancanza di tornaconto), lo dimostrano – oltre ogni ragionevole dubbio – le mappe numero 1 e 2 sopra riportate, facenti parte della valutazione di impatto ambientale sul gasdotto Nord Stream 2, commissionata nel 2018 dalla Agenzia Danese per l’energia.1 Nella Mappa n. 1 sono evidenziati i punti delle esplosioni che ricadono in un’area classificata dal Governo danese come “zona di tiro” per esercitazioni militari (tratteggiata in rosso nella Mappa n. 2), peraltro confinante con una vasta zona (tratteggiata in nero) riservata alle manovre dei sottomarini, zone in cui lo scorso luglio si svolse una esercitazione navale della Nato.2
Oskar La Fontaine, in una recente intervista, ha lasciato intendere chiaramente che l’attentato – di cui a Berlino si sa tutto – non può essere avvenuto senza il consenso di Washington e che si tratta di un atto di guerra contro la Germania. La Fontaine ha militato nella sinistra ma, da buon tedesco, mette al primo posto le sorti della Germania invece che quelle della popolazione civile europea che, come scrissi a suo tempo3, è la vittima reale di questi attentati i cui effetti si stanno delineando assai più gravi di quanto si lasci intendere all’opinione pubblica.
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Anticipazione/ I russi, i russi gli americani
di Antonio Cantaro
Chi ha spento le luci della pace è il vecchio mondo di oggi, la Russia e gli Stati Uniti. L’Europa complice e vittima, allo stesso tempo. In esclusiva, per i lettori del nostro “laboratorio politico”, i passaggi essenziali dell’introduzione ad un volume di prossima pubblicazione nei primi mesi dell'anno che verrà
La pace è finita, recita il titolo di un pamphlet pubblicato sul finire del 2022. Ma chi ha spento le luci? I russi, i russi gli americani, sussurrava Lucio Dalla nel 1980 in una celebre canzone, piena di fiducia e di speranza, Futura, pensata e scritta di getto. In meno di mezz’ora, seduto su una panchina, una sigaretta accesa e un’agenda, nei pressi del Checkpoint Charlie, da dove allora si poteva passare dalla parte Ovest alla parte Est di Berlino. In Europa, nel cuore dell’Europa per tanti giovani di tante nazionalità che oggi numerosi lì lavorano, vivono, sognano, si innamorano.
Guerra in Europa, contro l’Europa
Che la guerra in Ucraina della quale “celebriamo” il primo “anniversario”, sia una guerra che si svolge nel territorio del Vecchio continente e che i suoi popoli siano quelli chiamati a pagarne il prezzo più pesante e duraturo è constatazione largamente condivisa.
Le immagini e le narrazioni dalle quali siamo stati ancora in questi mesi quotidianamente ‘bombardati’ si sono prevalentemente occupate degli ucraini, le popolazioni primariamente e indiscutibilmente vittime della guerra. E dei suoi esecutori materiali, in primo luogo l’esercito di Putin. Ma oltre le vittime e gli esecutori materiali ci sono dei ‘mandanti’ e dei ‘complici’.
A che punto è la notte?
Ad un anno dall’inizio dell’operazione militare speciale in pochi si sono occupati dei “mandanti” e dei loro “complici”. Avendo provato a farlo sin dalle prime settimane che ci separano dal quel 25 febbraio 2022, ho pensato fosse di una qualche utilità offrire al lettore l’insieme dei pensieri e degli scritti nei quali mi sono cimentato con le origini antiche e prossime della guerra ucraina.
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Intervista ad Alberto Asor Rosa
a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana
In ricordo di Alberto Asor Rosa, scomparso il 21 dicembre 2022, pubblichiamo l'intervista a lui dedicata, contentuta nel libro L'operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana (DeriveApprodi, 2008).
* * * *
Vorrei chiederti di cominciare dai tuoi anni universitari, tra il ‘52 e il ‘56 credo, quando inizia la tua militanza politica, con l’adesione alla sezione Partito comunista. Vorrei capire se questa scelta aveva radici remote, o se è riferibile a circostanze, persone, relazioni specificamente intervenute in quel periodo.
Le radici erano nella tradizione antifascista della famiglia: padre socialista, partecipazione alla Resistenza qui a Roma con la ricostruzione del Sindacato Ferrovieri e del Partito socialista tra il personale ferroviario. Il passaggio forse è rappresentato dalla crescita di un interesse per il comunismo e il Partito comunista rispetto a una matrice che in realtà non lo era. In questo senso fondamentali sono stati i rapporti con questo gruppo della sezione universitaria Partito comunista, giovani che invece erano già comunisti da tempo, sia per tradizioni familiari che per scelte individuali. Mi riferisco a quella componente con cui io ho avuto rapporti, sia studenteschi sia politici, rappresentata dagli studenti di Lettere e Filosofia di quegli anni, in modo particolare Mario Tronti, Umberto Coldagelli e Gaspare De Caro. Quando io mi sono iscritto alla cellula di Lettere di questa sezione, il segretario era… Enzo Siciliano (!); dopo un po’ di tempo segretario della sezione è diventato Mario Tronti, che era un segretario straordinario, di gran lunga superiore intellettualmente e culturalmente a qualsiasi altro di noi.
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Il ritorno della "Dialettica della Natura": la lotta per la libertà come necessità
di John Bellamy Foster
È una premessa fondamentale del marxismo quella per cui, quando cambiano le condizioni materiali, cambiano pure le nostre idee sul mondo in cui viviamo.
Ai nostri giorni assistiamo a una vasta trasformazione nel rapporto tra la società umana e il mondo fisico-naturale cui essa appartiene; il che è evidente nella comparsa di quella che nella storia geologica è oggi indicata come epoca antropocenica, durante la quale l’umanità è divenuta la principale forza nella trasformazione del Sistema-Terra. Una «frattura antropogenica» nei cicli biogeochimici terrestri – frattura che deriva dal sistema capitalistico – minaccia ora di distruggere la Terra in quanto casa sicura per l’umanità e per le innumerevoli specie che ci vivono, in un arco di tempo non di secoli, ma di decenni.[1] Tutto questo richiede per forza di cose una concezione più dialettica del rapporto tra l’umanità e quello che Karl Marx chiamava «metabolismo universale della natura».[2] Oggi il punto non è soltanto capire il mondo, ma cambiarlo prima che sia troppo tardi.
Dal momento che, fin dalla sua concezione alla metà del diciannovesimo secolo, il marxismo è stato la base primaria della critica alla società capitalistica, ci si aspetterebbe che fosse all'avanguardia nella critica ecologica al capitalismo. Ma se si può dire che i materialisti storici e i socialisti più in generale abbiano svolto un ruolo preminente e formativo nello sviluppo della critica ecologica – specialmente in seno alle scienze –, i contributi fondamentali dell’ecologia socialista, soprattutto in Gran Bretagna, hanno preso piede al di fuori delle principali tendenze che avrebbero definito il marxismo del ventesimo secolo nel suo insieme.
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I misteri del Cremlino
di Nestor Halak
Durante la guerra fredda nei servizi segreti occidentali, tra i commentatori politici e persino tra i giornalisti c’erano esperti che venivano definiti “cremlinologi” per la loro supposta abilità nel decifrare i segnali provenienti dalle sempre più o meno misteriose stanze del Cremlino. Tempo prima, Churchill aveva addirittura definito la Russia come un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma: frase non proprio elegante, ma che rende il suo pensiero. Certo la mania russa per il segreto ha molto contribuito al sorgere di questa fama ed anche oggi, a più di trent’anni dalla caduta dell’Unione Sovietica, le intenzioni, le mosse e i ragionamenti della dirigenza russa continuano ad essere di difficile interpretazione.
Eppure, paradossalmente, il presidente Putin e gli altri personaggi ai vertici dello stato russo si esprimono con una franchezza sconosciuta ai potentati occidentali, tuttavia il disegno complessivo della loro politica continua ad essere sfuggente. Forse dipende dal fatto che i media ci hanno abituato alla prevedibile ipocrisia dei nostri dirigenti, forse per una leggera discrepanza tra il mondo russo e quello europeo che non ce lo fa sentire estraneo, come per esempio quello arabo o cinese, ma la cui stessa vicinanza diventa un ostacolo per cogliere le differenze.
Di fatto, se si prendono in considerazione le azioni russe a partire, diciamo, dal colpo di stato americano a Kiev, viene da chiedersi se abbiano un senso complessivo coerente.
Proviamo a riassumere la situazione per sommi capi. L’ucraina è sempre stata di vitale importanza per la Russia, l’errore di fondo è stato quello di permettere che lo stato sovietico si frantumasse lungo le linee amministrative delle repubbliche che spesso avevano un senso solo all’interno di uno stato unitario.
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La Germania tra Europa, Stati Uniti, Cina
di Vincenzo Comito
La Germania, guidata dal Cancelliere Olaf Scholz, non condivide la politica statunitense, seguita anche da Bruxelles contro l'interesse del Vecchio continente, del decoupling dalla Cina e persegue, al contrario, una sempre crescente autonomia strategica. Mentre l'Italia e la Francia appaiono inerti
“Siamo nella giungla e ci sono due grossi elefanti sempre più nervosi se si fanno la guerra sarà un grosso problema per il resto della giungla” (Emmanuel Macron)
“il mondo sta affrontando una svolta epocale…nuove potenze sono emerse, inclusa una Cina economicamente forte e politicamente determinata” (Olaf Scholz).
Da parecchio tempo appare chiaro che l’Europa, che continua ad essere disunita, ha grandi difficoltà a restare dietro agli Stati Uniti e alla Cina sul piano tecnologico e che i tentativi di rimediare a tale gap appaiono deboli, in particolare sul piano finanziario, nonché tardivi. Il problema è tale da mettere in difficoltà le prospettive di crescita economica del continente. Con la guerra in Ucraina, si è aggiunta una questione altrettanto grave, quella del forte aumento dei prezzi dell’energia (oltre che della sua difficile reperibilità) che, in particolare in alcuni settori industriali, appare insostenibile, mentre Cina e Stati Uniti per il momento non ne risentono. Si aggiunge la forte crescita dell’inflazione, questione che questa volta l’Europa ha in comune con gli Stati Uniti, mentre in Cina le ultime rilevazioni registrano un aumento dei prezzi al consumo del 2,1%. Molti mal di testa pone anche al nostro continente la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina, con Biden in particolare che vuole impedire che il paese asiatico li raggiunga e li superi sul piano tecnologico, economico, militare, compito peraltro immane per gli Usa, rispetto al quale egli cerca in ogni caso di coinvolgere gli alleati con pressioni di ogni genere. Così i paesi europei sono divisi tra fedeltà politica e interessi economici.
L’inflation Reduction Plan: un colpo di grazia per l’Europa?
Più recentemente si è aggiunto ai problemi menzionati quello che potrebbe essere il colpo di grazia per l’industria del nostro continente.
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Iran e Vicino Oriente: rompicapo regionale e grandi potenze
di Alberto Bradanini
L’adesione al principio di complessità consiglia cautela davanti agli sforzi di comprendere gli eventi che si dipanano nel cosiddetto Grande Medio Oriente (GMO) termine con cui s’intende convenzionalmente un’area che parte dall’Iran, attraversa le nazioni mediorientali propriamente dette e giunge a includere alcuni paesi nordafricani che si affacciano sul Mare Nostrum.
Come altrove, anche qui i fattori identitari sono costituiti dalla lingua, l’etnia, il colore della pelle, la religione – o meglio le religioni, a loro volta divise da steccati dottrinali e interessi di potere in sottofamiglie spesso nemiche l’una all’altra. Tali fattori interagiscono tra loro in forma e intensità diverse a seconda di tempi e luoghi. La religione, messaggera di orizzonti messianici, occupa un posto centrale nelle identità di quei popoli, vittima e insieme protagonista di settarismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, cui si aggiunge un’endemica instabilità politica che impedisce l’affermarsi di priorità centrate sullo sviluppo umano, il controllo pubblico delle risorse e la giustizia sociale. A quanto sopra non sono estranee le interferenze del cosiddetto Occidente, che soffiano sul fuoco delle diversità storiche, etniche e religiose di quei popoli, per depredarne le risorse attraverso politiche neocoloniali con la complicità delle oligarchie locali, civili o religiose fa poca differenza.
Quali fattori strutturali, l’iniqua distribuzione della ricchezza e la scarsa consapevolezza della natura sociale del conflitto tra dominati e dominanti, ideologicamente oscurato dalla narrazione pubblica – un analfabetismo qualitativamente non diverso da quello che fiorisce in Europa – rappresentano insieme la fonte e il prodotto di ritardo culturale, povertà e instabilità, con poche differenze tra paese e paese.
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Il capitalismo si infiltra nelle nostre vite quotidiane
Daniel Denvir intervista Nancy Fraser
L'analisi della produzione limitata al posto di lavoro è utile ma non sufficiente: in questa lunga intervista Nancy Fraser spiega come lo sfruttamento si estenda all'intero spettro delle relazioni sociali e ambientali
Molte generazioni di marxisti hanno versato fiumi di inchiostro per approfondire le basi teoriche poste da Marx nella sua potente critica sociale. Le femministe in particolare si sono concentrate sull’analisi del lavoro domestico, scolastico e sanitario, che nella maggior parte dei casi stenta a essere riconosciuto come tale. Ma senza il lavoro necessario per crescere, educare e guarire le persone – che le marxiste femministe hanno chiamato «lavoro di cura» – i lavoratori e le lavoratrici non possono sopravvivere, e dunque nemmeno il capitalismo stesso. Questa teoria cancella il tradizionale confine tra casa e posto di lavoro e svela l’esigenza di un esame più dettagliato sulla pervasività del capitalismo, che va oltre il piano economico in senso stretto.
Nancy Fraser, critica teorica marxista, è nota per i suoi interventi marxisti e femministi sulla riproduzione sociale. Il libro di Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi (Meltemi, 2019), estende l’analisi originale della riproduzione sociale agli altri punti critici del capitalismo. Fraser dimostra come sia necessario, per esaminare il capitalismo nella sua totalità, che il marxismo superi la propria visione strettamente economica. La sua posizione rifiuta le divisioni nette, non solo tra casa e lavoro ma anche tra economia, politica e ambiente, e tra il regime liberale del lavoro e l’espropriazione violenta nelle periferie neocoloniali.
Nancy Fraser è stata intervistata da Daniel Denvir – conduttore del podcast di Jacobin The Dig – per parlare del libro che ha scritto con Jaeggi, della crisi della riproduzione sociale del capitalismo e della responsabilità socialista nell’offrire un’alternativa.
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Cina, la terra rara: “officina” e “miniera” del Mondo
di Flavia Manetti
Dagli anni ’70, la Cina ha accettato di divenire, per l’Occidente, la fabbrica del mondo. Dalle iniziali zone a regime speciale di Shenzhen alle sterminate fabbriche di Zhengzhou. Giganteschi insediamenti industriali che hanno prodotto e ancora producono su commissione dei capitali occidentali. La proletarizzazione ed urbanizzazione di milioni e milioni di contadini è stata possibile anche grazie al diritto, garantito dallo Stato, di mantenere il possesso dei terreni agricoli dei villaggi di provenienza. Un diritto che anche la borghesia cinese (oltre che – in primis - il capitalismo occidentale) vorrebbe limitare per disporre da una parte di più “api operaie” da spremere come limoni e dall’altro di un “esercito industriale di riserva” metropolitano che non se ne torni nei villaggi di appartenenza (come successo con il lockdown alla Foxconn1) ma sia costretto, se necessario, a rimpiazzare protestatari e rivoltosi con operai più docili e ricattabili.
Le Terre Rare : da efedrina delle nuove transizioni economiche del capitalismo a “materie prime critiche” per l’imperialismo
Ma la Cina è anche la “miniera del mondo” di terre rare. Cosa sono le terre rare? In inglese : Rare Earth Metals, e’ un gruppo di 17 elementi chimici (Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio). Rare non già per la loro scarsa presenza quanto per la loro difficile identificazione, estrazione e lavorazione e che hanno, inoltre, un devastante impatto ambientale.
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Le cause economiche della guerra
di Riccardo Zolea
Riccardo Zolea ragiona sulle cause economiche della guerra in Ucraina, prendendo spunto da un recente libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli. Zolea focalizza l’attenzione sulla concentrazione dei capitali ed il conseguente conflitto tra capitali nazionali dei Paesi debitori (USA) e creditori (Cina e Russia) e rileva che il contrasto tra capitalismi nazionali ricorda il periodo precedente la Prima Guerra Mondiale. Studiare le cause economiche profonde di quel conflitto può essere utile per la costruzione della pace
«Voi uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!»
In molte facoltà di economia a marzo 2022, con l’inizio dei corsi del secondo semestre, è stato probabilmente domandato ai docenti quali sarebbero state le conseguenze economiche dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Forse qualche studente ha chiesto anche quali fossero le cause del conflitto. Infatti, come insegna, tra gli altri, Keynes, le guerre scoppiano spesso per motivi economici (si pensi al celebre Le conseguenze economiche della pace, del 1919). Le risposte a questa domanda non sono facili e, soprattutto, il dibattito pubblico e anche accademico non ha fornito spiegazioni articolate e convincenti – e magari anche semplici quanto occorre per risultare comprensibili a studenti dei primi anni di economia – delle ragioni di fondo per le quali è esplosa questa guerra.
Un passo avanti in questa direzione si può fare grazie a un libro di recente pubblicazione: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista di E. Brancaccio, R. Giammetti e S: Lucarelli S. (2022). Il libro, infatti, pur toccando temi complessi in maniera rigorosa, è di facile assimilazione e può essere comprensibile anche per coloro che s’interessano alle questioni economiche senza lunghi e complessi studi pregressi.
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Globale è bello? Su “Capitale Mondo” di Robert Kurz
di Samuele Cerea
Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.
A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi un tantino surreali. Nel frattempo le élite occidentali elogiano entusiasticamente la logica dei blocchi, auspicano con ansia la fine della dipendenza energetica, mettono in guardia sollecitamente contro il “pericolo giallo”, gli Stati-canaglia vecchi e nuovi e le torme dei falliti globali che si preparano ad assediare la “fortezza Occidente” (o il “giardino meraviglioso” nella poetica lezione di Josep Borrell).
Mentre Big Brother e Goldstein vivono ormai da tempo con noi e anche Oceania sembra a portata di mano vale ancora la pena leggere un libro pubblicato in Germania nei primi anni Duemila, quando le medesime élite politiche ed economiche urlavano dai tetti la buona novella della globalizzazione, trattando con un misto di sufficienza, di fastidio e di apprensione coloro che, ed allora erano davvero tanti, contestavano con ragioni più o meno condivisibili, l’utopia-distopia del mondo unificato?
Il saggio in questione ha per titolo “Il Capitale-mondo” (“Das Weltkapital”, 2004). L’autore, il tedesco Robert Kurz, ha finora goduto di scarsa fortuna e notorietà in Italia anche se taluni rivoli del suo pensiero affiorano talvolta nelle opere di qualche autore nostrano come fiumiciattoli carsici.
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Guerra “igiene” del capitale. Il conflitto in Ucraina nell’attuale fase imperialista
di Carla Filosa, Enzo Gamba, Francesco Schettino
Nazione, classe, democrazia
La necessità di affrontare il fattore guerra, non solo nei suoi passaggi cronologici, ma soprattutto nel suo significato di fase imperialistica mondiale, non può disattendere una riflessione ulteriore almeno sui concetti di nazione, classe e democrazia, il cui senso risulta prevalentemente confuso o proprio ormai sconosciuto.
Nell’accezione moderna di nazione (F. Chabod, 1943-44)[1] si affermava un principio romantico di unità dell’individualità storica, dalle caratteristiche di tradizione e di pensiero non solo etniche e linguistiche, di un particolare quindi, di contro a tendenze livellatrici, cosmopolitiche, universalizzanti, quali quelle ereditate dall’Illuminismo, mentre la direzione specificamente politica era lasciata allo stato. Pertanto, non solo elementi naturalistici (clima-terreno), ma tendenze politiche e religiose nei costumi e usanze, anima, spirito, libertà che nulla avevano a che fare con il successivo sviluppo nazionalistico connotato dal razzismo, come comunità di sangue, del suolo, congiuntamente a una preminenza aggressiva in antitesi all’unitaria idea di Europa. A tale concezione liberale, che non facciamo fatica a riconoscere oggi quale involontaria base della destra nostrale e non solo, si contrapponeva un’altra visione nazionale, sorta sempre in Europa, non già idilliaca ma interna alla consapevolezza della conflittualità della realtà materiale e storica.
Che la “fratellanza delle nazioni” di cui scriveva Engels nel 1845[2] si sia dispersa - proprio ad opera dell’ipocrita “cosmopolitismo egoistico-privato della libertà di commercio” allora così definito - sembra oggi un’ovvietà o addirittura una condizione mai esistita. Quella prospettiva di “fratellanza”, successiva alla Rivoluzione francese e predisposta dal progressivo avanzare del socialismo europeo ottocentesco, aveva lasciato intravedere, allora, che: “la democrazia, al giorno d’oggi, è il comunismo”.
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XX Congresso del Partito Comunista Cinese
di Fosco Giannini
Socialismo con caratteri cinesi e ruolo della Cina nel quadro internazionale. Sintesi dell'intervento conclusivo di Fosco Giannini al Convegno di sabato 26 novembre 2022 (tenutosi presso la Sala della Cooperativa Editrice Aurora in via Spallanzani, a Milano e organizzato da "Cumpanis" e "Gramsci Oggi") sul XX Congresso del PC Cinese
Si è svolto a Pechino, dal 16 al 22 ottobre 2022, il XX Congresso del Partito Comunista Cinese, un Congresso “di grande importanza sia per la Cina e il suo popolo che per la stessa dinamica internazionale”, come ha tenuto ad affermare in modo “understatement” ma con nettezza politica, lo stesso compagno Zou Janjun, Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, in un proficuo incontro tenutosi lo scorso 18 novembre con una delegazione di “Cumpanis”.
La Risoluzione finale del XX Congresso, approvata il 22 ottobre, mette a fuoco i 5 punti fondamentali scaturiti dai lavori congressuali:
– il rilancio del “socialismo dai caratteri cinesi”, della “Belt and Road” e dell’impegno e della lotta, da parte del governo cinese e del Partito Comunista Cinese, per la pace attraverso la cooperazione e la solidarietà internazionale, ciò in un tutt’uno dialettico e armonico, in cui tutte le parti si tengono l’una con l’altra;
– la presa d’atto, peraltro, della nuova tensione internazionale prodotta dall’aggressività imperialista a guida USA e NATO scatenata sull’intero fronte mondiale e dalla conseguente e oggettiva esigenza di rafforzare l’intera struttura militare cinese, in un quadro generale che vede le continue provocazioni USA sulla “questione Taiwan” (Taiwan che il XX Congresso del PC Cinese ribadisce essere parte storica e inalienabile della Cina) come un segno, tra gli altri, della pulsione di guerra degli USA;
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Maurizio Lazzarato: Guerra o rivoluzione. Tertium non datur?
di Mimmo Sersante
Pubblichiamo nella sezione reflex la recensione di Mimmo Sersante al libro di Maurizio Lazzarato Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un'alternativa, pubblicato da DeriveApprodi lo scorso autunno. La recensione è apparsa originariamente su «Pulp Libri»
«A questo punto, signori principi e uomini di Stato, voi nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E se non vi rimane altro che cominciare l’ultima grande danza di guerra, per noi va bene. Può darsi che la guerra momentaneamente ci spinga indietro, che ci strappi qualche posizione già conquistata. Ma se voi avete scatenato quelle forze che non siete più capaci di incatenare di nuovo, sia pure così: alla fine della tragedia, rovinati sarete voi, e la vittoria del proletariato sarà già raggiunta o, comunque, inevitabile», F. Engels [1].
Lo stesso ottimismo che Maurizio Lazzarato profonde nel suo ultimo saggio, Guerra o rivoluzione, edito da DeriveApprodi. Titolo tranchant che pone un’alternativa secca al lettore. Se poi per caso gli venisse in mente una pace possibile tra i due corni del dilemma, c’è il sottotitolo – Perché la pace non è un’alternativa – a chiarirgli che tertium non datur. Anche per Lazzarato, come a suo tempo per Engels e ancor prima per Hegel [2], la storia dell’Europa (e del mondo) non contempla la pace.
E infatti alla guerra noi siamo abituati da tempo perché è da trent’anni e passa che il mondo che abitiamo è in stato di guerra permanente e averla oggi a quattro passi da casa ce l’ha resa ancor più familiare. Evidentemente non ci erano bastate le guerre di successione jugoslave all’indomani dell’unificazione della Germania. Questa volta – e forse più di allora – sentiamo che ci riguarda da vicino, che ci stiamo impegolando in una situazione maledettamente complicata e più grossa di noi. Vorremmo starne fuori temendo il peggio. Magari tornando a sognare una Pax Europea, di fatto impossibile dopo la lunga tregua della guerra fredda. E allora?
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Come la Cina si protegge dalle incursioni dei capitali speculativi dell’economia-mondo
di Giordano Sivini
Riceviamo e pubblichiamo
Da una ricerca storica sulla Repubblica Popolare Cinese del ‘900 è emersa l’ipotesi, esplicitata fin dal titolo “La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata” (Asterios, 2022), che all’incessante sviluppo cinese nel nuovo millennio abbiano contribuito gli investimenti diretti dall’estero e il concomitante divieto agli investimenti di portafoglio di entrare nell’area di accumulazione cinese. Il divieto era stato deciso alla fine degli anni ’90. La Cina stava preparandosi ad entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e adeguava il sistema istituzionale ed economico alle forme del capitalismo globale. Nel 1996 aveva promesso al Fondo Monetario Internazionale che la ‘moneta del popolo’, il renminbi, sarebbe stata resa gradualmente convertibile, ma il sopravvenire della crisi finanziaria asiatica fece bloccare il processo. Mentre nell’economia globalizzata i capitali produttivi stavano diventando tributari di quelli finanziari (Sivini, 2018), in Cina venne presa la decisione di vietare l’ingresso a quei capitali esteri che non avessero obiettivi immediatamente produttivi.
L’ipotesi che l’elemento distintivo del capitalismo cinese fosse legato a questa decisione è ripresa in esame in questo articolo alla luce delle autorizzazioni date dalla Cina nel nuovo millennio ad investitori stranieri ad operare in borsa e a grandi istituti finanziari esteri di realizzarvi investimenti di portafoglio. Il fine principale di queste aperture è stato di rendere il mercato finanziario cinese più competitivo, capace di produrre innovazioni nel sistema finanziario, orientato a sostenere le attività produttive ma ritenuto scarsamente efficiente.
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Al cospetto dell’angelo. Tre libri su Benjamin
di Ludovico Cantisani
Nato nel 1892 a Berlino e morto nel 1941 lungo la frontiera spagnola, Walter Benjamin è un pensatore unico, e per parecchi motivi diversi: uno fra i tanti, la straordinaria molteplicità dei suoi scritti, al tempo stesso kafkianamente inconclusi e frammentariamente densissimi. Addentrandosi nella costellazione Benjamin non si tarda ad avvertire la sensazione che i passaggi più fertili, i movimenti più folgoranti del suo pensiero, si trovano soprattutto nelle note a piè di pagina, negli appunti mai ordinati, nelle intuizioni lasciate a latere della sua corrispondenza privata. Il suo carteggio con Gershom Scholem, pubblicato in Italia da Adelphi sotto il titolo di Archivio e camera oscura, ha le carte in regola per essere uno dei più begli epistolari del secolo scorso, certo il più rappresentativo dello stato della cultura ebraica nell’imminenza del nazismo.
Non può essere una coincidenza se, nell’ultimo periodo, Walter Benjamin è tornato “di moda”, con un profluvio di nuove pubblicazioni e trattazioni come non se ne vedevano da anni. A differenza che per Carl Schmitt, questa congiuntura si può spiegare solo in parte con l’avvento del Coronavirus: vero è che una delle più profonde intuizioni di Benjamin sancisce così, “che tutto vada avanti come prima è la vera catastrofe”, e giustamente la si è rievocata nei primi mesi di lockdown; ma se il fantasma di Schmitt è stato esplicitamente e surrettiziamente ripreso anche per contrastare le dinamiche da “stato di eccezione” rese necessarie della pandemia, il mormorio di Benjamin, su Benjamin è meno retorico, più laterale, liminare, ben più fecondo delle polemiche televisive dell’intellettuale contestatario di turno. Per non farci mancare nulla, ai primi di novembre al Teatro India di Roma è andato in scena anche uno spettacolo ispirato a Benjamin, L’angelo della storia di Sotterraneo, piacevolmente frammentario, monadistico.
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Il “sottobosco” del Potere
Paolo Becchi, Fabio Conditi ed un articolo che ci lascia perplessi!
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
Cosa sia il “Potere” che gestisce le nostre vite ormai lo sappiamo bene, visto che oltre a portarne i segni sulla nostra pelle, lo analizziamo ogni giorno fino dentro le sue più nascoste sfumature. Invece, quello di cui ancora parliamo poco e del quale sarebbe invece propedeutico prenderne coscienza al più presto, è tutto quel “sottobosco” di informazione più o meno indipendente, che coscientemente o non, rappresenta “l’humus” vitale di cui il Potere stesso si nutre per portare avanti il proprio progetto di dominio sui popoli.
Sto parlando di tutti coloro che in buona fede o meno o per mancanza di conoscenza, presentano a chi li ascolta, i malefici e mortali funghi “amanita phalloides” come pregiati ovoli.
Se vi ricordate, pochi giorni fa, in un mio articolo, ho posto la vostra attenzione su quanto fosse distorto e fuori dalla realtà il messaggio che il ministro Giancarlo Giorgetti, faceva passare in merito al fatto che gli italiani non investissero i loro risparmi nei titoli del nostro debito pubblico, mostrando per questo tutto il suo disappunto, che all’evidenza dei fatti non trova la ben che minima giustificazione.
La maggioranza dei cittadini e delle famiglie italiane, non investe nei Btp, non per snobismo o mancanza di attrattiva, ma per il semplice motivo che non dispongono più di quel risparmio essenziale per farlo. Ed i dati lo dimostrano chiaramente, visto che la percentuale di coloro che lo fanno è ormai consolidata, da oltre due decadi, sul 5% o poco più.
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L’offensiva d'inverno
di Enrico Tomaselli
Nella straordinaria dissociazione che caratterizza la narrazione della NATO, da un lato ci si ostina a vaticinare un’impossibile vittoria ucraina, mentre dall’altro si discute di una offensiva russa data ormai per imminente. Tutti sembrano aspettarsi un attacco contro la capitale ucraina, a partire dalla Bielorussia. Eppure, ad un’attenta analisi, quest’ipotesi appare quanto meno improbabile. Proviamo a capire perché.
Checché se ne dica, fare previsioni sul corso di una guerra è cosa estremamente difficile, soprattutto quando si prova a scendere ad un livello di dettaglio che vada oltre la macro dimensione strategica. Per un analista militare è un po’ come per gli economisti, è assai più facile spiegare quel che è accaduto che capire quel che accadrà. Ciò nonostante, il tentativo va fatto sempre comunque, per quanto difficile possa essere. E nel caso della guerra in Ucraina il compito è complicato dalla impenetrabilità del comando russo, cosa che lascia davvero un ampio margine d’errore a qualunque previsione.
Questa apparente excusatio non petita non vuole mettere al riparo da critiche la presente analisi, nel caso che le conclusioni risultassero errate, ma vale piuttosto come avviso al lettore: ciò che segue è un’analisi basata sui dati conosciuti (che sono certamente solo una piccola parte di quelli noti ai comandi militari coinvolti), che si prova ad interpretare, per trarne qualche indicazione.
Attacco a Kyev?
La maggior parte dei commentatori, anche autorevoli (1), sembra dare per scontata una imminente offensiva russa verso la capitale ucraina.
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Corruzione nei palazzi di Bruxelles e nell’establishment di sinistra
Questione di legalità e questione morale
di Gaspare Nevola
1. Né Spinelli, né Berlinguer. Non c’è santo per i ceri dei devoti ipocriti
«Centomila euro per le vacanze di Natale? ‘Troppi, non possiamo fare come l’anno scorso’, si lamenta al telefono con il marito la signora Panzeri» (Libero). Già solo questa frase dice molto sulla corruzione “ai piani alti” di Bruxelles. Ma anche su come ragionano e si comportano in tema di corruzione coloro che sono stati colpiti dallo scandalo venuto alla luce in questi giorni: calcolano e giocano a nascondere il loro malaffare dietro un uso scaltro e spregiudicato della legalità.
Da giorni i quotidiani italiani, chi più chi meno, aprono con titoli a caratteri cubitali sulla corruzione scoperta dai magistrati belgi in seno al Parlamento europeo e nel gruppo socialista. Gli accenti e commenti delle varie testate sono anche differenti, ma la sostanza sullo scandalo è la stessa e condivisa. È utile documentarli con una breve rassegna. Prendiamo a campione le parole del 12 novembre: “Soldi, favori: choc in Europa. Il caso Qatar, sacchi di banconote a casa del vice presidente del Parlamento Ue. Vacanze da 100 mila euro e intrallazzi: le accuse ai Panzieri”” (Corriere della Sera); “Eurocorruzione. Nella casa di Panzeri 600 mila euro. L’accusa: la rete dell’ex deputato Pd ha distribuito per anni le mazzette dell’Emirato. La presidente del parlamento Ue sospende la sua vice. S’indaga pure sui soldi dal Marocco” (la Repubblica); “La tangentopoli in Europa. Così il Qatar pagava i politici. Articolo 1 sospende l’ex deputato, indagato anche un assistente di un eurodeputato Pd” (La Stampa); “Qataritangenti.
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Sulla mutazione del desiderio
Ipersemiotizzazione → desessualizzazione → ansia → †
di Franco «Bifo» Berardi
Ho iniziato a leggere Felix Guattari nel 1974. Ero in una caserma del sud italiano, quando il servizio militare era obbligatorio per i giovani sani di mente e di corpo, ma servire la patria mi scocciò rapidamente, e stavo cercando una via d’uscita quando un amico mi suggerì di leggere quel filosofo francese che raccomandava la follia come una via di fuga.
Lessi allora Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e trasversalità edito da Bertani, e ne trassi ispirazione per un’azione di follia. Il colonnello della clinica psichiatrica mi riconobbe pazzo e così me ne tornai a casa.
Da quel momento ho preso a considerare Felix Guattari come un amico i cui suggerimenti possono aiutare a fuggire da qualsiasi tipo di caserma.
Nel 1975 pubblicai il primo numero di una rivista chiamata A/traverso, che traduceva concetti schizoanalitici nel linguaggio del movimento degli studenti e dei giovani lavoratori chiamato Autonomia.
Nel 1976, con un gruppo di amici, comincio a trasmettere nella prima radio italiana libera, Radio Alice. La polizia interviene a chiudere la radio durante i tre giorni di rivolta degli studenti di Bologna, dopo l’assassinio di Francesco Lorusso.
Il movimento bolognese del 1977 usava l’espressione “autonomia desiderante”, e il piccolo gruppo dei redattori della radio e della rivista si definivano “trasversalisti”.
Il riferimento al poststrutturalismo era esplicito nelle dichiarazioni pubbliche, nei volantini, nelle parole d’ordine della primavera ’77.
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