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Il posto del padre e la deriva post–moderna
di Gerardo Lisco
Su Il manifesto del 9 marzo, due pagine dedicate all’8 marzo festa della donna, titolo a carattere cubitale “Sciopero e cortei eco–trans femministi da Milano a Napoli. Manifestazioni in 38 città italiane indette dalla rete <<Non una di meno>>. Contro il “sistema patriarcale e il capitale”. Partendo dall’ultima affermazione ho provato ad analizzare la relazione esistente tra “patriarcato e capitalismo” soffermandomi sul posto del padre rispetto all’attuale deriva post–modernista. In un passaggio dell’articolo, a firma Giulia D’Aleo, leggo: <<Già dalla mattina, molte città avevano dato un’anticipazione dei cortei pomeridiani, con manifestazioni tematiche portatrici di una visione nuova della società, libera da un sistema patriarcale e capitalista basata sullo sfruttamento dei corpi, dell’ambiente, del sistema scolastico e di quello sanitario (…) oltre diecimila attiviste e attivisti hanno poi preso parte al ricordo delle vittime del naufragio di Cutro e assistito al flashmob finale, autodeterminazione della donna e la liberazione dallo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo>>. A mio parere, tutto ciò non è altro che un pout–porri senza né capo, né coda. Mi ha particolarmente colpito il riferimento critico al sistema patriarcale che, evinco dall’articolo, è per gli organizzatori delle numerose manifestazioni il principio di tutti i mali.
Insomma, Patria, Dio e famiglia sono stati sostituiti dai sinonimi: Patriarcato, Capitalismo, Maschio bianco eterosessuale.
Partendo dall’articolo, ho provato a ragionare sulla base del significato etimologico di “Padre”. Ai fini dell’economia del ragionamento che mi appresto a sviluppare, ritengo fondamentale prendere l’abbrivio dal significato etimologico del termine padre.
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Biden d’Arabia e la fine del mondo unipolare
di Domenico De Simone
La straordinaria giornalista Laura Ruggeri segnala e trasmette su Telegram uno spezzone di questo programma televisivo, una serie di gag sullo stato di salute mentale del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden che da mesi impazza sulla televisione di Stato Saudita. Una esterrefatta imitatrice di Kamala Harris cerca di accompagnare e supportare il Presidente ma non riesce ad evitarne le figuracce da rincretinito totale che ormai dispensa urbi et orbi sin dal tempo della sua rielezione. Naturalmente questa trasmissione è stata realizzata e mandata in onda con il pieno consenso del principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa’ud, capo del governo ed erede designato del trono saudita, ed è particolarmente indicativa dell’orientamento dei Sauditi nei confronti del grande alleato americano, con cui re Faysal aveva stretto un patto ferreo preferendoli agli inglesi sia per la ricerca e l’estrazione del petrolio sia per la protezione militare.
Questa alleanza, molto stretta e forte nonostante i numerosi contrasti, dichiarati e non, sia rispetto ad Israele che sul prezzo del petrolio, ha comunque retto fino a qualche anno fa, quando i rapporti si incrinarono decisamente per la conclusione dell’indagine della CIA che accusava il principe Mohammad di essere il mandante dell’assassinio del giornalista saudita dissidente Khashoggi, entrato nel Consolato saudita a Istanbul e lì scomparso. Khashoggi era editorialista del Washington Post e una voce molto seguita negli Usa. Il governo Biden in un primo momento, ha sostenuto con forza le accuse a Mohammad, ma poi Biden si è reso conto che stava perdendo un alleato fondamentale nello scacchiere mediorientale e non solo, e quindi nel luglio scorso si è recato a Riyadh per cercare di riallacciare i rapporti.
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Prefazione a Ontologia dell’essere sociale
di Alberto Scarponi
L’Ontologia è l’ultimo lavoro e l’ultima grande opera sistematica di György Lukács, morto a Budapest il 4 giugno 1971. Le circostanze della sua composizione, il fatto che l’autore avesse annunciato più volte negli ultimi anni di essere al lavoro su questo argomento, le anticipazioni di qualche suo contenuto che se ne sono avute Lukács vivente1, il modo frammentario in cui finora è stato pubblicato lo stesso testo originale tedesco per le difficoltà incontrate dai curatori nella redazione del manoscritto2, l’uso in campo marxista del termine di «ontologia», con il connesso sospetto di intrusioni metafisiche e cadute idealistiche, hanno fatto sì che intorno a quest’opera si coagulasse un’intensa atmosfera di attesa variamente intonata. E non sono mancati i giudizi definitivi in base a quanto già apparso in pubblico.
Il lettore italiano, avendo intanto a disposizione questa prima parte, potrà ora giudicare per via diretta la validità, la portata e anche il senso di quest’ultimo impegno del filosofo ungherese scomparso.
E non a caso viene di usare la parola «impegno», con tutte le sue assonanze. Perché, quali che saranno le riflessioni critiche suscitate dalla lettura del testo, comunque si articoleranno le eventuali obiezioni di merito rispetto al discorso che vi è contenuto, quest’Ontologia crediamo debba essere considerata un lavoro ancora una volta militante, di un uomo legato alla vita del movimento operaio e profondamente impegnato a intervenire, a dare il proprio contributo di pensatore alla lotta per il socialismo.
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Dominio e ricatto del capitalismo finanziario
Antonio Minaldi intervista Andrea Fumagalli
Dominio e sfruttamento nel capitalismo del XXI° secolo è un volume pubblicato da poco di cui consigliamo la lettura. Curato da Antonio Minaldi e Toni Casano (Ed. Multimage, 2023), il testo raccoglie i contributi di studiosi e militanti politici ad un ciclo di dibattiti su cinque grandi questioni: antropocene e capitalocene; il capitalismo della sorveglianza; il capitalismo della produzione immateriale; dominio e ricatto del capitalismo finanziario; imperi, guerra e destini del mondo. Pubblichiamo di seguito l’importante intervista sul capitalismo finanziario che Antonio Minaldi ha condotto con Andrea Fumagalli.
* * * *
Abbiamo il piacere di ospitare il professor Andrea Fumagalli. Con lui parleremo di economia. Tema ostico per molti, ma di cui dobbiamo necessariamente occuparci, perché da questioni come finanza, inflazione, debito pubblico dipende in gran parte la nostra vita. Il primo punto di cui ci occuperemo è quasi obbligato, e riguarda la guerra. Chiederei al prof. Fumagalli, anzi direi al compagno Andrea, di spiegarci che cos’è che sta cambiando, e cosa cambierà nel medio lungo periodo, con la guerra in Ucraina e col passaggio da un mondo unipolare a un mondo bipolare o più probabilmente multipolare. Ricordiamo che globalizzazione, crisi dello Stato nazione e libera circolazione delle merci e dei capitali per noi sono stati, in questi anni, cose quasi scontate. Ma forse non è più così!
Iniziamo con una doverosa premessa. Il capitalismo attuale è caratterizzato dal susseguirsi di crisi sistemiche, sia che si tratti di crisi indotte dall’instabilità finanziaria oppure da tensioni geopolitiche o da eventi sindemici.
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Un paese che si solleva
di Frédéric Lordon
Per fare dell’insurrezione francese un mezzo e non un fine, dice Frédéric Lordon, occorre formulare un desiderio politico positivo in cui la forza del numero possa riconoscersi
Lunedì 20 marzo, le prime pagine della stampa francese sono tutte dedicate all’eccitazione per una mozione di sfiducia, a contare i deputati che potrebbero votarla, a soppesare le possibilità, a prevedere gli assetti futuri, a fare la parte degli informati – che delizia il giornalismo politico: un passaporto per l’inanità politica.
Nel frattempo, insorta con tutta la sua forza, la politica si è impadronita del paese. Uno sciame di iniziative spontanee si dirama da tutte le parti – scioperi senza preavviso, blocchi stradali, tumulti o semplici manifs sauvages, assemblee studentesche ovunque, l’energia dei giovani a Place de la Concorde, per strada. Tutti si sentono sui carboni ardenti, le loro gambe sono impazienti – impazienti, certo, ma non delle sciocchezze che appassionano i ristretti circoli dell’intellighenzia parigina. I circoli, paradossalmente, sono simili ai vertici. Come i giornalisti, che restano incollati a Macron e a Élisabeth Borne, hanno una cosa in comune: gli uni come gli altri ignorano ciò che sta realmente accadendo, vale a dire l’ebollizione del paese.
È bello quello che succede quando l’ordine costituito comincia a deragliare. Piccolezze inaudite, che rompono l’isolamento rassegnato e l’atomizzazione su cui i potenti fondano il loro potere. Ed ecco che i contadini portano ceste di verdure ai ferrovieri in sciopero; un ristoratore libanese distribuisce falafel ai manifestanti sequestrati dalle «nasses» poliziesche [l’accerchiamento dei manifestanti, Ndt]; studenti e studentesse che si uniscono ai picchetti; e presto vedremo anche i cittadini aprire le loro porte per proteggere i manifestanti dalla polizia.
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Il ritorno del re
di Wolfgang Streeck
Se mai ci fosse stata una domanda su chi comanda in Europa, la NATO o l’Unione Europea, la guerra in Ucraina l’ha risolta, almeno per il prossimo futuro. Una volta, Henry Kissinger si lamentava che non c’era un numero di telefono unico a cui chiamare l’Europa, troppe chiamate da fare per ottenere qualcosa, una catena di comando troppo scomoda e bisognosa di semplificazione. Poi, dopo la fine di Franco e Salazar, è arrivata l’estensione a sud dell’UE, con l’ingresso della Spagna nella NATO nel 1982 (il Portogallo ne faceva parte dal 1949), rassicurando Kissinger e gli Stati Uniti sia contro l’eurocomunismo sia contro una presa di potere militare non da parte della NATO. Più tardi, nell’emergente Nuovo Ordine Mondiale dopo il 1990, l’UE avrebbe dovuto assorbire la maggior parte degli Stati membri del defunto Patto di Varsavia, in quanto questi erano in rapida successione per l’adesione alla NATO. Stabilizzando economicamente e politicamente i nuovi arrivati nel blocco capitalista e guidando la loro costruzione nazionale e la formazione dello Stato, il compito dell’UE, accettato più o meno con entusiasmo, sarebbe stato quello di consentire loro di diventare parte dell'”Occidente”, guidato dagli Stati Uniti in un mondo ormai unipolare.
Negli anni successivi il numero di Paesi dell’Europa orientale in attesa di essere ammessi nell’UE aumentò, con gli Stati Uniti che facevano pressioni per la loro ammissione. Con il tempo, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia hanno ottenuto lo status di candidati ufficiali, mentre Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Moldavia sono ancora in attesa. Nel frattempo, l’entusiasmo degli Stati membri dell’UE per l’allargamento è diminuito, soprattutto in Francia, che ha preferito e preferisce l'”approfondimento” all'”allargamento”.
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La politica economica tra inflazione e stabilità finanziaria
di Marcello Spanò
Il fallimento di Silicon Valley Bank – la sedicesima più grande banca degli Stati Uniti – e le altre scosse telluriche del sistema finanziario a cui abbiamo assistito in questi giorni riportano all’attenzione il tema dell’instabilità finanziaria. Ancora non sappiamo se questi siano i primi anelli di una lunga catena o se il contagio verrà in qualche modo arginato. Ciò che possiamo constatare è che, ancora una volta, l’economia capitalistica ad alta intensità finanziaria in cui ci tocca in sorte vivere si conferma fragile e soggetta a rischi sistemici. Al posto di azzardare previsioni, pratica su cui gli economisti si esercitano ostinatamente e la maggior parte delle volte inutilmente, preferisco qui avanzare alcune considerazioni sugli elementi di novità che emergono da questi (primi?) fallimenti e sulle linee guida di politica economica che dovrebbero esserne tratte.
1. I safe assets non sono safe
La prima considerazione che mi sembra opportuno sottolineare è un paradosso: i titoli del debito pubblico, normalmente considerati un rifugio per il loro basso grado di rischiosità (safe assets) sono stati proprio quelli che hanno portato la SVB al fallimento.
Una quindicina d’anni fa, quando l’intero mondo della finanza franava a causa del crollo dei titoli derivati il cui profilo di rischio era del tutto opaco e la cui valutazione tecnicamente contorta era affidata ad esperti che di economia sapevano poco o nulla, gli investitori finanziari spostarono somme enormi di ricchezza sui titoli di Stato, considerati appunto un buon rifugio di fronte al panico e all’incertezza del momento.
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Chi siamo e che vogliamo?
di Alessandra Ciattini
Prima di impegnarci in alleanze più elettorali che politiche, sarebbe opportuno chiederci chi siamo e che vogliamo
Se siamo convinti che esiste un’unica strada per uscire dal capitalismo e dalla sua disumanità, dato che esso appare sempre più irriformabile e avvitato in una spirale devastante, dato che le terze vie sono tutte fallite, occorre riconquistare la nostra identità sbriciolatasi in numerose e debolissime varianti, che si fanno genericamente paladine del popolo, degli sfruttati, degli umili. Nonostante il marxismo abbia una storia complessa e contraddittoria, che bisognerebbe apprendere a fondo, il suo nucleo centrale sembra costituire ancora oggi, in un orizzonte alquanto diverso da quello ottocentesco, un’adeguata chiave interpretativa della società contemporanea: il concetto di classe e il suo derivato la lotta di classe. Basti un esempio. Numerosi marxisti hanno interpretato la fase neoliberale come il tentativo riuscito di una restaurazione di classe dinanzi alla crisi dell’accumulazione, che non poteva più tollerare il compromesso keynesiano tra capitale e lavoro del dopoguerra. E hanno anche collegato tale impresa socio-economica all’imposizione di ideologie elogiative dell’individualismo identitario, miranti alla frammentazione dei lavoratori, del resto già divisi e separati da barriere quali il sesso, l’appartenenza etnica, religiosa ecc. Ideologie che purtroppo hanno profondamente colonizzato la cosiddetta nuova sinistra, che le ha fatte proprie soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il ripudio dello stalinismo, facendosi affascinare dal culturalismo contrapposto in maniera binaria e semplicistica al volgare economicismo.
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La Cina e la formazione di un fronte del sud globale incrinano l'egemonia USA
di Domenico Moro
La guerra in Ucraina, per quanto sia importante, è solo un aspetto del confronto a livello globale tra la Russia e l’Occidente, cioè gli Usa e i loro alleati più stretti dell’Europa occidentale e del Giappone. All’interno di questo confronto acquista, inoltre, un ruolo sempre più importante la Cina, che si sta ritagliando una posizione di mediatore internazionale. La competizione si gioca su diversi ambiti: la de-dollarizzazione, cioè la sostituzione del dollaro come moneta di scambio globale, la conquista delle materie prime, e, a livello geostrategico, la costruzione di un fronte del Sud globale, che si sta sottraendo all’influenza statunitense e occidentale e sta stabilendo rapporti sempre più stretti con Cina e Russia. Quest’ultimo aspetto è di primaria importanza, perché la costruzione di un unico fronte, il Sud globale, disallineato se non contrapposto all’Occidente, sancisce una modifica, epocale e dalle conseguenze inedite, dei rapporti di forza e degli equilibri mondiali. Ovviamente tutti i cambiamenti storici hanno una incubazione di lungo periodo, ma subiscono accelerazioni improvvise che li rendono evidenti. Così è stato per la guerra in Ucraina che sta diventando il banco di prova della costruzione di un fronte globale che può mettere in crisi l’egemonia mondiale statunitense, che dura ininterrottamente dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La formazione di un fronte del Sud globale appare visibile in sede Onu in occasione delle votazioni sulle risoluzioni di condanna della Russia per quanto sta accadendo in Ucraina. Già il 2 marzo del 2022, poco dopo l’inizio delle ostilità, 35 paesi si erano astenuti.
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La guerra in Ucraina, un anno dopo
di Giorgio Paolucci
Ché quer covo d’assassini
che c’insaguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quattrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le borse
(Trilussa)[1]
È trascorso ormai più di un anno da quando è scoppiata la guerra fra la Russia e l’Ucraina e tutto lascia presagire che sia destinata a durare ancora per molto tempo.
La pace, per quanto tutti la invochino, in realtà non la vuole e non può permettersela nessuno.
Innanzitutto gli Stati Uniti. Per loro era particolarmente importante impedire che si consolidasse una area economico-finanziaria da consentire ai suoi membri di poter fare a meno dell’impiego del dollaro come valuta di riserva internazionale e mezzo di pagamento per regolare il loro interscambio commerciale. Vale a dire, da un punto di vista geopolitico: di impedire che l’asse Berlino (Ue)/Mosca/Pechino si consolidasse fino a divenire irreversibile. Cosa che sarebbe accaduta qualora fosse entrato in esercizio il North stream 2.
Però dopo un anno di guerra ed aver ottenuto:
- la messa fuori uso, attaccandoli militarmente - come ha denunciato il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh 2]- sia del North Stream 1 che del 2.
- di costringere così la Germania e mezza Unione europea ad acquistare il loro gas benché di gran lunga più inquinante e più costoso di quello russo;
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Fare come in Francia?
di Sandro Moiso
Ai confini orientali la guerra in Ucraina, con i suoi possibili sbocchi mondiali che già spaventano alcune élite europee e le spingono a correre a Pechino a chiedere che il presidente Xi Jinping si affretti a impostare una reale proposta di tregua (in barba al diniego esibito nei confronti di tale ipotesi dal presidente Biden e dagli imperialisti pezzenti del Regno Unito).
Nel cuore del continente la crisi bancaria, che è sbarcata dagli Stati Uniti coinvolgendo due delle più importanti banche europee, Credit Suisse, morta in un battibaleno e sostanzialmente assorbita da UBS per un valore impensabile fino a qualche settimana fa, e Deutsche Bank che, ancora una volta, traballa sulla sua “pancia” piena di titoli spazzatura, subprime e derivati, ma “povera” di liquidità.
Nella parte occidentale e atlantica la rivolta sociale francese che si allarga sempre più, di cui la riforma autoritaria delle pensioni è stato soltanto il fattore scatenante di una crisi economica e sociale che covava sotto le ceneri, imposte dai due anni di provvedimenti liberticidi sventolati come necessari per la salvaguardia della salute pubblica, fin dai tempi dei gilets jaunes e, ancor prima, delle rivolte delle banlieue.
Un’autentica tempesta perfetta che testimonia come lo stato di salute del capitalismo occidentale e del suo modus vivendi sia tutt’altro che buono, così come quello dell’ambiente che ha colonizzato senza pietà e senza riguardo per il futuro della specie, proprio a partire del continente europeo.
Come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, la crisi economica, la guerra, la crisi ambientale e l’impoverimento di ampi settori sociali, un tempo magari rientranti nelle fila della classe media, indicano che il modo di produzione basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e del capitale sull’ambiente sta volgendo al termine nel più drammatico dei modi.
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Litvinenko, Skripal e tutti i buchi nell'acqua nel criminalizzare Putin
di Francesco Santoianni
Uno stinco di santo certamente non è visto che per anni ha diretto l’efferato FSB (ex KGB). Ma da questo ad inventarsi una serie pressoché infinita di fake news contro di lui ce ne corre. Ci riferiamo a Vladimir Putin in questi giorni incriminato come criminale di guerra dopo una “inchiesta” che non si regge in piedi (nonostante il vergognoso articolo de “il manifesto”) ma che, come tante altre contro di lui, servirà a cementare nell’opinione pubblica la leggenda di un mostro del quale sbarazzarsi al più presto.
Come l’essere il mandante dell’omicidio (7 ottobre 2006) di Anna Politkovskaja, una tra i tanti giornalisti uccisi in Russia in quegli anni, autrice di innumerevoli denunce, soprattutto contro gli oligarchi imperanti in Russia, ma che, solo per aver scritto qualche articolo anche sulla guerra in Cecenia, oggi viene universalmente ricordata come una “vittima di Putin.” Ma su cosa si basano le tante accuse contro Putin? Per quanto riguarda la Politkovskaja molte inchieste giornalistiche condotte in questi anni e lo stesso processo contro i suoi presunti killer non sono approdati a nulla. Certo. Le indagini giudiziarie sono state svolte dall’apparato investigativo della Federazione Russa; ma quali prove sarebbero emerse per altri crimini addebitati a Putin verificatisi in Occidente? Limitiamoci ad esaminarne due: il presunto avvelenamento, tramite Polonio, del “dissidente russo” Litvinenko e quello degli Skripal, avvenuto tramite il fantomatico Novichock.
Il 23 novembre 2006 muore in una clinica di Londra Aleksandr Litvinenko, ufficialmente per aver ingerito Polonio 210; la stessa sostanza che sarebbe stata usata per l’omicidio del leader palestinese Yasser Arafat.
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Sulla guerra in Ucraina
Giulietta Iannone intervista Gaetano Colonna
Gaetano Colonna: Ucraina tra Russia e Occidente. Un'identità contesa, Unilibri, 2022
Come indispensabile terapia per disintossicarsi dalla martellante propaganda occidentale sulla guerra in Ucraina, proponiamo ai nostri lettori l’intervista, curata da Giulietta Iannone, rilasciata ieri da Gaetano Colonna al blog Liberi di Scrivere.
Più che un aggiornamento sull’andamento del conflitto, oggi sostanzialmente in una fase di stallo, nonostante i cospicui supporti militari e di intelligence forniti a Zelensky dagli stati occidentali, Colonna preferisce proporre una riflessione più ampia, in prospettiva storica, sul significato di questo conflitto, anche in relazione all’aspetto sicuramente più grave della guerra, le sue conseguenze per l’Europa.
* * * *
Dopo la lettura del suo interessante libro Ucraina tra Russia e Occidente – Un’identità contesa (seconda edizione), che mi riprometto di analizzare a breve su queste pagine, vorrei farle alcune domande partendo se vogliamo dalle sue conclusioni: dunque secondo le sue impressioni parte tutto dallo “spirito di Versailles” quel germe che ha minato le basi del nascente spirito comunitario che avrebbe dovuto affratellare i popoli europei e occidentali in un’ottica di pacifica convivenza. Può esplicitarci meglio questo concetto?
Con l’espressione “spirito di Versailles” intendo semplicemente la singolare combinazione ideologica che le potenze anglosassoni vincitrici alla fine della Prima Guerra Mondiale hanno saputo imporre all’Europa: da una parte, l’attribuzione della “colpa della guerra”, e da allora di tutte le guerre, ad un solo attore (la Germania, in quel caso); dall’altra, l’utilizzo della nazionalità come principio in base al quale frammentare i grandi imperi ottocenteschi, creando ovunque mosaici di nazioni i cui confini sono stati astrattamente definiti in maniera da includere e/o escludere minoranze etnico-religiose: in tal modo creano strutture politiche fragili e facilmente controllabili, innescando così anche una serie di conflitti dei quali quello russo-ucraino non è che l’ultima derivazione.
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La Francia al bivio?
Considerazioni inattuali sulla riforma delle pensioni
di Il Lato Cattivo
In questo testo cercheremo di rispondere alla domanda: «dove va la Francia?», con particolare riferimento al progetto di riforma del sistema pensionistico (adottato lo scorso giovedì 16 marzo facendo ricorso all'articolo 49.3), e al movimento sociale che vi si oppone. Ci preme in particolare dire ciò che le analisi correnti che emanano direttamente dal movimento o dai suoi sostenitori non dicono, proponendo una visione a più ampio raggio. Per questo, prima di entrare nel merito, riteniamo opportuno fornire alcuni elementi di contesto generalmente poco conosciuti e poco discussi, che permettono a nostro avviso una migliore valutazione del significato e della posta in gioco nel conflitto, che vanno ben oltre la semplice questione dell'età pensionabile.
Partendo dalla grande crisi economica e finanziaria del 2008, e dal suo prolungamento europeo del 2010-2012, si suppone spesso che la risposta capitalistica nelle aree centrali dell'accumulazione sia stata ovunque più o meno la stessa. Restare a questo livello di generalità non conduce, nel migliore dei casi, che a enunciare mezze verità e luoghi comuni. In primo luogo, la considerazione che precede può valere al massimo per la politica economica praticata a livello statuale in seno all'eurozona, soprattutto a ridosso della cosiddetta crisi dei debiti sovrani (l'austerity etc.), e non senza importanti gradazioni a seconda dei paesi. In secondo luogo, non si può minimizzare l'importanza delle discontinuità introdotte su questo piano dal quantitative easing europeo nei suoi episodi principali (dalla presidenza Draghi alla BCE fino al Covid), che non ha evidentemente soppresso la coazione all'austerity ma l'ha innegabilmente alleggerita.
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La fine di internet
Il collasso sarà la nostra liberazione o la nostra rovina?
Alessandro Sbordoni intervista Geert Lovink
In questa intervista, ho parlato con Geert Lovink del suo ultimo saggio Extinction Internet, l’hauntologia di Mark Fisher, il ricordo di Bernard Stiegler, il movimento Extinction Rebellion e i fantasmi dell’accelerazionismo
Alessandro Sbordoni: Oggi il realismo digitale ci fa sentire come se un altro Internet non fosse più possibile. In un tuo saggio intitolato Extinction Internet affermi che Internet sta volgendo al termine e che è tempo per teorici, artisti, attivisti, designer e sviluppatori di immaginare cosa resta dopo la fine di Internet per come l’abbiamo conosciuto. Che cosa possiamo fare come utenti di Internet?
Geert Lovink: In una situazione come la nostra, descritta da forme culturali ed economiche di stagnazione e recessione, la rivoluzione delle generazioni più giovani non è molto verosimile. Oggi, la sottocultura non può svilupparsi in opposizione alla cultura dominante. Questa è la ragione fondamentale per cui ci troviamo in questa situazione. Per quanto riguarda Internet, abbiamo visto la concentrazione del potere, la centralizzazione e la monopolizzazione che proviene sia dallo Stato che dalle aziende. Eppure, così come per il cambiamento climatico, tutti gli allarmi sono caduti nel vuoto. Internet è oggi caratterizzato da una strana sintesi di dipendenza digitale e sorveglianza statale. Tutto questo crea la sensazione che non ci sia via d’uscita; non sappiamo dove andare. Nel frattempo, siamo ancora impantanati nelle paludi della piattaforma.
La verità è che la capacità dell’individuo di impersonare il cambiamento è scomparsa. Mentre le forme avanzate della stagnazione si sono dimostrate molto pericolose.
AS: Mi ritorna alla mente ciò che diceva Mark Fisher riguardo la scomparsa di quei presupposti che hanno reso possibile il modernismo nel XX secolo.
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Il "cover-up"
di Seymour Hersh
Seymour Hersh sostiene che l’amministrazione Biden continua a nascondere la sua reale responsabilità nel sabotaggio dei gasdotti Nordstream e che gli articoli del New York Times e Die Zeit (in cui si suggerisce il coinvolgimento di un non meglio identificato gruppo filo-ucraino) è solo un goffo tentativo di depistaggio ispirato dalla CIA. En passant, Hersh aggiunge che il governo Scholz ha contribuito alla copertura dell’operazione americana, anche se per il momento non fornisce ulteriori dettagli.
Sono passate sei settimane da quando ho pubblicato un articolo, basato su fonti anonime, che definisce il presidente Joe Biden come il funzionario che ha ordinato la misteriosa distruzione lo scorso settembre del Nord Stream 2, un nuovo gasdotto da 11 miliardi di dollari che avrebbe dovuto raddoppiare il volume di gas naturale consegnato dalla Russia alla Germania. La storia ha preso piede in Germania e nell’Europa occidentale, ma è stata soggetta a un quasi blackout dei media negli Stati Uniti. Due settimane fa, dopo una visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz a Washington, le agenzie di intelligence statunitensi e tedesche hanno tentato di aggravare il blackout fornendo al New York Times e al settimanale tedesco Die Zeit false storie di copertura per contrastare il rapporto secondo cui Biden e agenti statunitensi sarebbero responsabili della distruzione degli oleodotti.
Gli assistenti stampa della Casa Bianca e della Central Intelligence Agency hanno costantemente negato che l’America fosse responsabile dell’esplosione dei gasdotti e quelle smentite pro forma sono state più che sufficienti per il corpo della stampa della Casa Bianca. Non ci sono prove che un giornalista assegnato lì abbia ancora chiesto all’addetto stampa della Casa Bianca se Biden abbia fatto ciò che qualsiasi leader serio avrebbe fatto al suo posto: “incaricare” formalmente la comunità dell’intelligence americana di condurre un’indagine approfondita, con tutte le sue risorse, e scoprire solo chi aveva compiuto l’atto nel Mar Baltico.
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Democrazia rivoluzionaria
di Giacomo Croci
Il pensiero di Cornelius Castoriadis e il rapporto tra individuo, società e storia
Non credo e non voglio che i giochi siano fatti.” Questa frase, che ritroviamo nel volume La rivoluzione democratica, racchiude il pensiero di Cornelius Castoriadis. Per giochi si intende l’attività politica, cioè l’attività collettiva e individuale di organizzazione e riorganizzazione della realtà sociale e materiale. Per Castoriadis, essere un individuo socializzato, cioè qualcuno che può agire in un mondo sociale e materiale, presuppone che questo mondo, per quanto regolato, possa sempre essere cambiato. Cioè: non posso che credere e volere che i giochi non siano fatti, altrimenti non c’è niente da credere e da volere.
C’è un profondo ottimismo in questo pensiero, quello che forse Ernst Bloch chiamerebbe “ottimismo militante.” Ottimismo che non riposa però sugli allori dell’ingenuità, ma su quello che, secondo Castoriadis, viene praticato dagli esseri umani sotto il nome di democrazia – pratica che sarebbe essenzialmente rivoluzionaria. Castoriadis sostiene che una pratica e un pensiero che si muovono al di qua o al di là della soglia rivoluzionaria non sono democratici, e che le istituzioni democratiche si lasciano valutare solo dal punto di vista della rivoluzione. La tesi è accattivante e controversa. Andiamo per gradi.
La carriera di Castoriadis è piuttosto eterodossa: non solo filosofo, ma anche economista per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e psicoanalista, prima nella scuola fondata da Jacques Lacan e poi più critico rispetto all’impostazione lacaniana. I tre elementi ricorrono nei suoi scritti, come emerge chiaramente in La rivoluzione democratica.
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Crisi energetica, facciamo il punto
di Leonardo Mazzei
È bene fare il punto sui costi dell’energia, in particolare su quelli del gas e dell’elettricità. Sul tema circola infatti un’ingannevole narrazione, quella secondo cui tutto starebbe andando ormai per il meglio. Ma è davvero così? Assolutamente no.
Siamo in guerra, dunque la propaganda non deve stupirci, ma in questo campo (quello di chi la spara più grossa) l’Occidente batte la Russia dieci a uno. Moreno Pasquinelli si è già occupato del comico trionfalismo di un russofobo come Federico Rampini, che tre giorni prima dell’inizio di una grave crisi bancaria (vedi il crac di due banche americane e le enormi difficoltà di un colosso come Credit Suisse), scriveva che “l’apocalisse della crisi economica era un’allucinazione”. Un tempismo davvero fantastico! Cosa non farebbero certo scribacchini pur di dimostrare quanto sono servi!
Ma quello del bretellato Rampini è solo un caso tra tanti. Il succo del messaggio che si vorrebbe far passare è che tutto va bene, l’Occidente è forte e la guerra fa male solo all’economia russa. È all’interno di questo refrain che assume una grande importanza il discorso sull’energia. Sul tema, la propaganda dei media occidentali è martellante. I prezzi del gas stanno scendendo – essi dicono – dunque la strategia Ue-Nato sta funzionando, possiamo fare a meno della Russia e vivremo felici e contenti.
Ovviamente, la realtà è assai diversa. Vediamolo in tre punti, cercando di ristabilire altrettante verità.
- Il calo dei prezzi e il crollo dei consumi: è davvero una buona notizia?
La prima verità che va ristabilita è quella sul prezzo all’ingrosso del metano, da cui dipende in larga parte lo stesso costo dell’energia elettrica.
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Sui pericoli dei pappagalli stocastici: i modelli linguistici possono essere troppo grandi?
di Bender, Gebru, McMillan-Major, Shmitchell*
L’intelligenza artificiale è intelligente? L’analisi tecnica del funzionamento dei modelli linguistici svela cosa abbiamo davanti: nulla più di pappagalli stocastici. Uno studio dall’interno della Silicon Valley
Lanciato a novembre 2022, la chatbot ChatGPT ha acceso il dibattito sulle capacità raggiunte dall’intelligenza artificiale e sulle relative implicazioni sociali e politiche. ChatGPT è di fatto un modello linguistico (LM) di grandi dimensioni, addestrato su set di dati raccolti nel web. Un aspetto ormai noto è la dinamica con cui la IA riproduce pregiudizi, stereotipi e narrazioni dominanti, meno diffusa è la consapevolezza di che cosa siano i modelli linguistici e se, e con quale significato, possano dirsi ‘intelligenti’. È una questione fondamentale per comprendere cosa abbiamo davanti.
Lo studio di cui pubblichiamo qui un estratto esce nel marzo 2021 a firma, tra le altre, di Melanie Mitchell - accademica, si occupa di sistemi complessi, intelligenza artificiale e scienze cognitive (qui con lo pseudonimo Shmargaret Shmitchell), ha guidato il team di Google sull’etica nella IA, e la pubblicazione di questo paper le è valso il licenziamento -; lo studio ricostruisce tecnicamente i meccanismi per cui un LM può produrre un testo apparentemente fluido e coerente, ma la macchina che lo genera non ha alcun grado di comprensione: “La nostra percezione del testo in linguaggio naturale, indipendentemente da come è stato generato, è mediata dalla nostra competenza linguistica, e dalla nostra predisposizione a interpretare gli atti comunicativi come veicolanti un significato e un intento coerenti, indipendentemente dal fatto che tali atti lo abbiano. Il problema è che se un lato della comunicazione non ha significato, allora la comprensione del significato implicito è una illusione derivante dalla nostra singolare umana comprensione del linguaggio. Contrariamente a quanto può sembrare quando osserviamo il suo output, un modello linguistico è un sistema per riassemblare insieme in modo casuale sequenze di forme linguistiche che ha osservato nei suoi vasti dati di addestramento, in base a informazioni probabilistiche su come si combinano, ma senza alcun riferimento al significato: un pappagallo stocastico”.
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Democrazia, parola fatata. In festa tra Presa della Bastiglia e Crollo del Muro
Polittico, con stella e convitato di pietra
di Gaspare Nevola
«Non pensate quello che io so che state pensando… Io lo so che state pensando…
Se vi ho adunato qua, c’è una ragione..
Eh… la democrazia… La democrazia…
Questa parola, questa parola fatata…
Questa parola di luce… questa parola alluminta…
Questo lampadario di parola
Che il mondo dice…
Uomini con tanto di barba che parlano di questa democrazia…
Cos’è? Eh… Cos’è questa democrazia?
Questa democrazia, dice…
No… non è vero… Sì… dice…
Eh, io capisco… voi adesso dite, adesso tu perché sei… e noi siamo… sai
Eh no, cari amici»
(Peppino de Filippo, I casi sono due. Scena: “La democrazia”. Autore: Armando Curcio. Portata in teatro da Peppino de Filippo dal 1945. Edizione televisiva del 1959)
PANNELLO I
Il 1989 e il “crollo” del Muro di Berlino sono simboli del nostro tempo. Simboli di una trasformazione del mondo e di una modernità politica incerta e disorientata. Il 1989 e il “crollo del Muro” sono eventi che, invero, si inscrivono in un lungo processo storico e nei suoi effetti, i quali hanno disegnato il mondo in cui viviamo. Sebbene la cultura politica dominante fatichi tutt’ora a coglierne significato e portata politica, con le debite proporzioni il 1989 richiama un’altra data simbolica che solitamente ci viene alla mente quando pensiamo alla politica nelle società moderne-contemporanee: una data giusto di due secoli più vecchia, il 1789 della Rivoluzione francese e della travagliata nascita della “democrazia dei moderni” –-quella rivoluzione alla luce della quale (nel bene e nel male) definiamo le democrazie contemporanee come “liberal-democrazie costituzionali rappresentative di massa”.
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MATERIALISMO STORICO E MATERIALISMO DIALETTICO
di Alessandro Pascale
Il testo che segue è la relazione tenuta dal sottoscritto Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del Partito Comunista, nell’ambito della scuola popolare di formazione politica Antonio Gramsci. La presentazione è stata fatta a Milano il 3 marzo 2023 presso i locali della cooperativa La Liberazione di Milano. È disponibile la registrazione video caricata sulla pagina youtube del Partito Comunista Milano (@pcmilano).1
La lotta di classe non si gioca su ricette prestabilite, né su sentieri tracciati una volta e per sempre. Bisogna però sapere, per dirla con le parole del filosofo Georges Politzer, che la lotta di classe comprende:
«a) una lotta economica; b) una lotta politica; c) una lotta ideologica.
Occorre quindi che il problema sia posto simultaneamente in questi tre campi. […] Sarà quindi colui che riuscirà a lottare su tutti questi terreni che fornirà la guida migliore al movimento. È così che un marxista comprende il problema della lotta di classe».
Tutti i grandi maestri del socialismo sono stati anche filosofi. Non stupisce insomma che tuttora gli Stati borghesi non la lascino insegnare solo nei licei, in ossequio al modello gentiliano per cui la filosofia debba essere studiata solo dai futuri gruppi dirigenti borghesi, mentre invece alle classi lavoratrici basta una spolverata di teologia. Alla borghesia serve un popolo di analfabeti disfunzionali, non certo un esercito di lavoratori coscienti dei propri diritti e della propria condizione di lavoratori salariati soggetti ad un ordine padronale. Nel controllo ideologico delle masse sta una delle armi più potenti dell’egemonia culturale dell’imperialismo, che passa dalla conquista degli intellettuali. Di qui la necessità di tornare a studiare la filosofia.
LA NECESSITÀ DI TORNARE A STUDIARE LA FILOSOFIA
«Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali […]. L’emancipazione pratica […] non è possibile se non nell’ambito di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo.
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Sul fallimento delle banche: altro che fine della storia!
di Noi non abbiamo patria
La moneta non figlia valore
Rosa Luxemburg
Sono tempi complicati per chi si sforza di sostenere l’eternità del modo di produzione capitalistico, descritto come il migliore dei mondi possibili. Soprattutto per l’Occidente che, ci piaccia o no, è stato il fulcro del movimento storico e unitario dell’accumulazione mondiale combinato, seppure diseguale.
Dalla California alla Svizzera importanti e solidi istituti bancari falliscono, oppure con i conti in rosso si tenta disperatamente di salvare.
Si dice che i due eventi tra loro non hanno nulla in comune, che le vicende della Silicon Valley Bank, Silvergate Bank e di fondi di investimento californiani a questi collegati e la crisi della Credit Suisse (che non è solo il secondo istituto bancario Svizzero, ma anche uno dei più importanti centri di deposito finanziari per gli investimenti di capitale in Europa) abbiano in comune solo la coincidenza dei tempi.
Intanto, scrive il Sole 24 Ore che “la serenità non si compra. Tantomeno la fiducia. Così non bastano i 300 miliardi di dollari iniettati dalla Federal Reserve nelle banche statunitensi, sommati ai 200 miliardi di liquidità arrivati sull’economia a stelle e strisce dal Conto di disponibilità del Tesoro Usa, sommati ai 50 miliardi di franchi iniettati dalla Banca centrale svizzera al Credit Suisse per ripristinare la fiducia sui mercati. Non bastano. E neppure le parole rassicuranti del presidente Biden…“. [https://www.ilsole24ore.com/art/i-tre-motivi-cui-300-miliardi-fed-non-bastano-calmare-borse-AEk0cE6C]
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Per fermare le speculazioni, le banche in crisi vanno nazionalizzate
di Enrico Grazzini
Le continue crisi bancarie e finanziarie occidentali sono causate della privatizzazione del sistema bancario e della sua tendenza alla speculazione e al profitto. Le banche dovrebbero essere nazionalizzate in caso di crisi
Perché il crollo delle banche? Le banche fanno finanza e speculano con i soldi dei risparmiatori. Per superare la crisi occorre nazionalizzare le banche in crisi e separare nettamente il credito dalla finanza.
Di fronte alla semplice ma fondamentale domanda sul perché in Occidente scoppiano continue gravi crisi bancarie e finanziarie che mettono in pericolo tutto il sistema economico capitalista, la risposta è una sola: perché il sistema bancario è ormai del tutto privatizzato e punta solo al profitto e alla speculazione. Nei cosiddetti trenta Gloriosi, dal 1945 al 1975, il sistema bancario europeo e italiano era sostanzialmente pubblico e a direzione pubblica, e le crisi bancarie si contavano sulle dita di una mano ed erano limitate e circoscritte. Non scoppiavano continue e sempre più gravi crisi sistemiche. Le banche facevano credito alle industrie nazionali. Il risparmio nazionale serviva allo sviluppo del Paese e la fuga dei capitali speculativi era proibita. Anche nei paesi anglosassoni con sistema bancario completamente privato le banche erano regolamentate come servizio pubblico: era loro impedito di entrare nel mercato finanziario. In Europa il credito – in gran parte pubblico – ha reso possibile la ricostruzione post-bellica e il miracolo economico italiano e tedesco. Lo sviluppo economico europea di allora cresceva con tassi di aumento pari a quelli cinesi. In Italia le principali banche nazionali – Comit, Credito Italiano e Banca di Roma – erano pubbliche e facevano capo all’IRI. Il credito nei Trenta Gloriosi del dopoguerra, con tutti i suoi difetti e gli scandali, era orientato allo sviluppo della produzione nazionale nell’interesse nazionale. E con la produzione cresceva l’occupazione e il benessere.
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Nuova guerra fredda e futuro delle relazioni internazionali
Intervista all'analista Andrew Korbyko
Andrew Korybko è un analista geopolitico tra i più prolifici e seguiti per chi cerca di approfondire il nuovo mondo multipolare e le sue complesse diramazioni. Le sue analisi, spesso tradotte su l'AntiDiplomatico, sono un punto di partenza essenziale per comprendere i movimenti tellurici in atto a livello di relazioni internazionali.
Korybko collabora con diverse testate internazionali e riviste scientifiche. E' autore di due importanti saggi sulle guerre ibride: "Hybrid Wars: The Indirect Adaptive Approach to Regime Change" e "The Law of Hybrid War: Eastern Hemisphere".
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L’operazione speciale russa in Ucraina, come annunciato nelle prime fasi dal ministro degli esteri russo Lavrov, sancisce l’inizio di una nuova era nelle relazioni internazionali. Se dovesse scegliere una definizione, Lei quale sceglierebbe per descrivere questa nuova fase?
La transizione sistemica globale verso quello che definisco il multipolarismo complesso ("multiplexity") precede di gran lunga l'inizio dell'operazione speciale della Russia lo scorso anno, ma questo evento ha dato un’accelerata senza precedenti. Nei 13 mesi trascorsi dal suo inizio, è ormai chiaro che le relazioni internazionali sono sull'orlo di una tripartizione: l'Occidente guidato dagli Stati Uniti, l'Intesa sino-russa e il Sud del mondo de facto guidato dall'India. Il primo vuole mantenere l'unipolarità, il secondo la multipolarità, mentre il terzo mira ad avere un ruolo di equilibrio.
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La piega interna della democrazia
Il caso Assange*
di Antonio Martone
Introduzione
È del tutto ovvio ribadire che, in democrazia, uno dei diritti principali dei cittadini sia la libertà di espressione. Tale diritto, peraltro, è sancito dalle costituzioni e dunque sembrerebbe inutile discuterne. È altrettanto ovvio che, nella libertà di espressione, rientri a pieno titolo il diritto di pubblicare notizie di interesse comune. Quando accade che, come nel caso delle inchieste e dei processi che si sono accaniti contro il giornalista australiano Julian Assange, tutto ciò è patentemente violato, non c’è dubbio che vada denunciato senza indugio.
La contraddizione espressa dai sistemi politici euro-americani quanto al caso Assange, tuttavia, non si può liquidare facilmente come una violazione, pur clamorosa, delle regole libertarie di cui questi stessi sistemi si fanno sostenitori. In realtà, occorre analizzare a fondo le disavventure capitate ad Assange e ai giornalisti di WikiLeaks, di cui peraltro non abbiamo ancora visto l’epilogo, analizzandole dal punto di vista filosofico-politico. In altre parole, credo sia estremamente importante, ed anche urgente, interrogare questa triste vicenda, chiedendoci anzitutto come mai sia potuto accadere un “caso Assange” nel cuore delle liberal-democrazie contemporanee. Insomma, quali sono i motivi per i quali sistemi di potere che si autodefiniscono “democratici”, e che garantiscono la libertà di espressione a partire già dalle carte costituzionali, si ostinano nel perseguitare un giornalista che ha pubblicato notizie capaci di far luce – con documenti inoppugnabili, verificati e mai smentiti - non sull’attività di privati ma sull’azione di uno Stato o quelle di persone che incarnano le Istituzioni.
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