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25° dell’aggressione NATO --- IN SERBIA L’EUROPA SI SUICIDA --- Nasce la Sinistra Nato
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-Mondocane da Belgrado – Fulvio Grimaldi al Convegno Internazionale, 21-24 marzo 2024, nel 25° anniversario dell’aggressione Nato. In onda domenica 21.30. Repliche, salvo imprevisti, lunedì 09.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 09.00.
Quelle che vedete qui sopra sono le copertine di documentari che ho realizzato in Serbia nel corso dell’aggressione Nato del 1999 ed eventi successivi. Scusate se stavolta parto da una vicenda personale. Credo lo giustifichi il suo carattere emblematico per quanto riguarda il passaggio della stampa dall’informazione, nei paesi sedicenti democratici, alla propaganda di servizio all’Impero. Una transizione che ha coinvolto ciò che si dichiarava di sinistra, con conseguenze di cui stiamo vedendo gli esiti, tra il catastrofico e il criminale, nel tempo dello scatenamento bellico dell’Occidente politico.
Ci sono due eventi nella mia vita e professione che mi paiono investiti di valore paradigmatico, per quanto capitati a un semplicissimo cronista di strada.
Bloody Sunday, la Domenica di sangue di Derry, Irlanda del Nord, quando accadde che fossi l’unico giornalista internazionale in presenza a documentare la strage di 14 inermi manifestanti per mano dei parà britannici; e una riunione di redazione al TG3, la mattina del 25 marzo 1999, dopo la notte in cui la NATO aveva iniziato l’attacco alla Serbia che avrebbe visto 78 giorni di bombardamenti a tappeto, anche all’uranio impoverito. Genocidio non è un concetto che nasce a Gaza.
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Per il voto in Russia, Mosca ringrazia l’Occidente e i golpisti di Kiev
di Fabrizio Poggi
«Il potere è rimasto fermo e il popolo fedele», così che l’attacco non poteva che fallire. Diremo più avanti di chi fossero queste parole e a cosa si riferissero.
Intanto, constatiamo il risultato del 87,28% dei voti per Vladimir Putin alle presidenziali russe del 15-17 marzo e l’affluenza record alle urne del 77,44% degli aventi diritto, pari a oltre 87 milioni, sui 112 milioni di elettori certificati lo scorso febbraio dalla Commissione elettorale russa.
Di fronte a queste cifre, è più comprensibile lo stupore dei liberal-reazionari euroatlantici, avvezzi a sproloquiare sul cielo plumbeo, all’indomani di ogni tornata elettorale di casa propria, pur di non spiegare il perché del fatto che la maggior parte delle accozzaglie elettoralistiche in giacca e cravatta riesca a mietere un successo dopo l’altro nella corsa a far allontanare le persone dai seggi.
Ancora più ”naturali” le reazioni degli intellettualoni clerico-liberali, dediti a sponsorizzare “dissidenti” (par di sentire i due canali RAI dell’epoca dei “martiri della fede” Sinjavskij e Daniel) antiputiniani e gli “oppositori democratici” in esilio volontario, tutti riuniti (cioè: quella mezza dozzina di soci d’affari) nel fantomatico “Mezzogiorno contro Putin”: gli uni e gli altri, cioè sponsor quartapellian-picierniani, e sponsorizzati della “opposizione a Putin”, impettiti a mugolare sulle «elezioni ingiuste e non libere».
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In tempi di AI, ogni contenuto informativo è re
di Carola Frediani
Qualche giorno fa, commentando l’esplosione dell’intelligenza artificiale generativa (in particolare l’arrivo di Sora, il modello text-to-video di OpenAI) e riportando alcune riflessioni di ricercatori e giornalisti che lavorano con internet e le fonti aperte su come affrontare l’ondata di testi, foto, video sintetici, avevo proposto di rovesciare il paradigma. Invece di preoccuparci solo e tanto di tracciare la filiera dell’AI, pensare semmai di tracciare quella delle informazioni autentiche / verificate / contestualizzate.
Costituire una filiera dell’informazione
“Bisogna investire nel verificare e contestualizzare tutto quello che viene immesso in circolo dai media o da chiunque voglia fare informazione”, scrivevo nella newsletter Guerre di Rete. “Ricostruire e mettere a disposizione tutta la filiera non solo dell’AI, ma dei contenuti autentici. Permettere a tutti di risalire la corrente del flusso informativo a ritroso. I lettori come salmoni, esatto. Ogni artefatto informativo per quanto minuscolo non dovrebbe essere una monade slegata dal resto, ma dovrebbe avere una serie di connessioni che permettano di capire da dove arriva, che percorso ha fatto, assieme a chi o cosa altro stava, come è mutato, come è stato tagliato o modificato”.
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Siamo pronti!
di Davide Miccione
Siamo pronti per l’Intelligenza Artificiale. Senza alcun dubbio.
Sì, c’è qualche dibattito, ma è solo per dare la sensazione di non precipitarsi dietro le novità. C’è qualche protesta ma di categorie che non hanno mai contato granché (gli sceneggiatori ad esempio). C’è qualche lamentela ma di potentati in declino come le case editrici o i giornali che fanno leva sul diritto d’autore per riempire un po’ la scodella prima di tramontare definitivamente. La politica, intanto, ha assunto una posa pensosa, chiede proroghe non troppo convinta per capire dove soffia il vento e si domanda se questa roba li rafforzerà o li indebolirà nelle loro simulazioni di potere. Gli accademici-intellettuali fanno mostra di dover riunire qualche comitato etico (se ne trova sempre qualcuno) in modo da piegarsi al progresso (che leggono da decenni come Necessità) però dando l’impressione di averci pensato e che non sia un mero automatismo (come in effetti è).
Ma nell’essenziale siamo pronti. In quello che conta siamo pronti. Basta volerlo vedere. Vedere come sono docili i ragazzi; come cercano griglie, spiegazioni, applicazioni, ricette e fuggono dal pensiero autonomo, dalla cultura, dalla libera ricerca.
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Mosca brucia, abbiamo perso la pace
di fuoricollana
Alla fine della prima guerra mondiale pochi, lungimiranti, inascoltati uomini della parte vittoriosa dissero: “abbiamo vinto la guerra, ma abbiamo perso la pace”. Keynes, tra gli altri, intuì che la “pace cartaginese” imposta alla Germania, profondamente umiliata dalle clausole dei Trattati di Versailles, avrebbe preparato una nuova e immane tragedia per l’umanità.
Nessun “profeta” potrebbe oggi dire altrettanto. Nessuno dei contendenti dell’odierna “guerra mondiale a pezzi” potrebbe dire abbiamo vinto la guerra. Dopo il massacro avvenuto in un teatro di Mosca, quali che siano i responsabili ed esecutori materiali, l’unica cosa chiara è che il destino del mondo è sempre più fuori controllo. Nessuno potrà mai vincere la “prima guerra mondiale del ventunesimo secolo”, anche perché si combatterebbe fatalmente con armi in grado di annientare l’intero pianeta. Stiamo solo perdendo definitivamente la pace.
Solo gli ineffabili capi di Stato e di governo dell’Unione europea sembrano non vedere, fingono di non sapere. Dopo aver messo da parte, da lungo tempo, le autentiche ragioni fondative del processo di integrazione europea, discettano delle magnifiche e progressive sorti per i popoli europei dell’economia di guerra: «è giunto il momento – scriveva Charles Michel poche ore prima che un teatro di Mosca bruciasse – di un autentico cambiamento di paradigma in relazione alla nostra sicurezza e difesa. Sono decenni che l’Europa non investe a sufficienza nella propria sicurezza e difesa […]. Dobbiamo essere pronti a difenderci e mettere l’economia dell’Ue sul piede di guerra».
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Mosca, un attentato per accelerare l’escalation
di Dante Barontini
Il problema è semplice, la soluzione devastante. L’attentato terroristico di ieri sera a Mosca è trasparente nei mandanti, nelle intenzioni, negli obiettivi. E nessuno, stavolta, può nasconderli sotto la solita coltre di voci e non detti incontrollabili.
Tanto meno sotto il messaggio targato “Isis”, di cui appare ormai non identificabile la “ragione sociale” e il campo d’azione. Un calderone fumoso in cui è possibile pescare “manodopera” da usare per altri scopi ma contro “nemici comuni” (la Russia, in questo caso).
Al momento di scrivere vengono contati almeno 93 morti [saliti intanto a 115] e 140 feriti, ma il fatto che molti spettatori del teatro Crocus City Hall si fossero rifugiati sui tetti lascia purtroppo immaginare che le vittime finali possano essere molte di più.
Quattro o cinque uomini in mimetica hanno assalto una sala concerti al centro di Mosca, senza neanche nascondere il proprio volto. Tecnicamente – come si dice in Sicilia – sono “carne morta”, o kamikaze in giapponese; insomma, attentatori suicidi per cui non è stata prevista nessuna via di fuga.
Il che significa anche che sapremo presto, a distanza di ore o giorni, l’identità dei killer: e dunque dei mandanti.
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Gaza: Israele usa l’arma della fame per completare il genocidio
Il piano di aiuti alimentari dal mare è solo un diversivo
Riprendiamo e traduciamo dal magazine +972 un articolo di Samer Badawi che mette in luce come il piano statunitense di aiuti alimentari via mare non sia altro che un’arma di distrazione di massa, nei fatti una vera e propria copertura della decisione dello stato sionista di usare l’arma della fame per ampliare al massimo la portata dell’operazione genocida in corso a Gaza. Infatti, se davvero si volesse impedire l’affamamento della popolazione di Gaza, bisognerebbe imporre l’immediato cessate il fuoco, la totale ritirata dell’esercito di occupazione e l’altrettanto immediata apertura di tutti i valichi di accesso al territorio di Gaza dal Nord e dal Sud. Ma le democrazie “umanitarie” impegnate (si fa per dire) negli “aiuti alimentari” via cielo e via mare, non muovono un solo dito in questo senso, totalmente complici della politica dello stato sionista. Che, peraltro, non è successiva al 7 ottobre, dal momento che l'”insicurezza alimentare” della popolazione di Gaza data da quasi due decenni, dal momento in cui è iniziato “l’assedio più lungo della storia” deliberato con lo scopo di punire la popolazione di Gaza per aver votato maggioritariamente per Hamas nelle prime elezioni democratiche della loro storia (e non per al-Fatah, come ordinato dalle potenze occidentali).
Dopo il 7 ottobre tale politica di assassinio di massa ha conosciuto un salto di quantità e di qualità, ed in questo articolo (e in altri) se ne forniscono alcuni “dettagli”. Uno dei principali è la criminalizzazione e la distruzione sistematica delle strutture dell’UNRWA con l’uccisione del suo personale – l’agenzia dell’ONU finora incaricata degli aiuti alimentari alle popolazioni palestinesi di Gaza e del vicino Oriente, a cui anche l’infame governo Meloni ha deciso di tagliare i fondi.
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Alla ricerca di Federico Caffè
di Pierfranco Pellizzetti
"Dove la luce" (La Nave di Teseo, 2024) di Carmen Pellegrino è un intreccio, a tratti autobiografico a tratti di fantasia, caratterizzato dalla delusione esistenziale a ridosso di due epoche: quella dei "trenta gloriosi", del welfare state e dei diritti sul lavoro, e quella degrado dello Stato sociale dato dal neoliberismo. L’autrice elabora un dialogo ipotetico con un anziano Federico Caffè, apostolo del pensiero keynesiano in Italia, sulle promesse mancate della crescita economica degli anni d’oro del capitalismo e sull’amarezza della decrescita causata da uno Stato sconfitto dalle forze predatorie del mercato.
«La disperazione è una forma superiore di critica.
Da oggi noi la chiameremo: felicità»
Leo Ferré
«Solitaire, solidaire».
Albert Camus
Una civiltà possibile, ormai cancellata
Più che un romanzo – quello di Carmen Pellegrino – è un crocevia, dove si incontrano e intrecciano biografie e autobiografia. In qualche misura creazioni letterarie? Invenzioni – come si premura di suggerire l’autrice al termine della sua narrazione?
Di certo non è un personaggio di fantasia Federico Caffè, il celebre economista che percepisce come una ferita la sua crescente inattualità, mentre non solo l’Italia ma l’intero Occidente – come si diceva – “industrialmente avanzato” prende tutt’altra direzione rispetto agli assetti democratici e inclusivi del secondo dopoguerra. Gli anni che i francesi definirono Les Trente Glorieux e lo storico inglese Eric Hobsbawm “l’Età dell’oro”. Il periodo in cui l’ortodossia in materia di governance politico-economica trovava il proprio riferimento intellettuale primario nella lezione profetica di John Maynard Keynes; i destinatari del cui messaggio erano le moltitudini degli ‘ultimi’, quelli che bussavano a porte che potevano schiudergli l’accesso a migliori condizioni di vita.
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Dall'Ucraina a Gaza: la crisi definitiva dell'imperialismo USA
di Alfred McCoy - TomDispatch
Gli imperi non crollano semplicemente come alberi abbattuti. Invece, si indeboliscono lentamente man mano che una serie di crisi ne prosciuga la forza e la fiducia, fino a quando non iniziano improvvisamente a disintegrarsi. È stato così per gli imperi britannico, francese e sovietico; così è ora per l'America imperiale.
La Gran Bretagna affrontò gravi crisi coloniali in India, Iran e Palestina prima di precipitare a capofitto nel Canale di Suez e nel collasso imperiale del 1956. Negli ultimi anni della Guerra Fredda, l'Unione Sovietica affrontò le sue sfide in Cecoslovacchia, Egitto ed Etiopia prima di schiantarsi contro un muro invalicabile nella guerra in Afghanistan.
Il giro di vittoria dell'America post-Guerra Fredda ha subito la sua crisi all'inizio di questo secolo con le disastrose invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. Ora, all'orizzonte della storia si profilano altre tre crisi imperiali a Gaza, Taiwan e Ucraina, che potrebbero trasformare cumulativamente una lenta recessione imperiale in un declino troppo rapido, se non in un collasso.
Per cominciare, mettiamo in prospettiva l'idea stessa di crisi imperiale. La storia di ogni impero, antico o moderno, ha sempre comportato una successione di crisi - di solito superate con abilità nei primi anni dell'impero, per poi essere gestite in modo sempre più disastroso nell'era del declino. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti divennero l'impero più potente della storia, i leader di Washington gestirono con abilità crisi del genere in Grecia, Berlino, Italia e Francia, e in modo meno abile ma non disastroso nella guerra di Corea che non finì mai ufficialmente.
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Bavaglio social, perché nessuno muove un dito? (e cosa si potrebbe fare, invece)
di Laurent Ferrante
È passato oltre un mese dal comunicato di Meta che annuncia la messa al bando dei contenuti politici dalle sue piattaforme ma nessuno sembra intenzionato a fare nulla. Eppure, l’impatto sulla distribuzione e la circolazione delle informazioni sarà gigantesco.
Se per gli utenti è certamente complicato organizzare un’azione di difesa coordinata per tutelare la propria libertà di parola dagli abusi delle big tech, lo stesso non può dirsi dei grandi attori dell’informazione e della politica, che dispongono di strutture e risorse economiche più che sufficienti ad avviare una qualche iniziativa. Se non per un astratto senso di giustizia universale, quantomeno per tutelare i propri interessi. E invece nulla. Una manciata di articoli di cronaca e poco più. Non una diffida, non un comunicato di categoria, non un’interrogazione parlamentare.
Viene il dubbio che questi attori non abbiano ben compreso la sorte che Meta ha riservato loro. Ma soprattutto, fatto sconcertante, viene il dubbio che giornali e politici – pur avendone scritto, i primi, e pur avendone votato il testo, i secondi – non abbiano studiato il https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32022R2065" target="_blank" rel="noopener">Digital Services Act (DSA), approvato ormai due anni fa dall’Unione Europea.
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Mattarella, gli studenti e l’inganno del ‘doppio legame’
di Vincenzo Morvillo
Stando a quanto affermano Mattarella e la sinistra, liberal o radical poco importa – leggere in proposito le parole di Nicola Fratoianni è istruttivo, mentre Acerbo e Santoro tacciono furbescamente – i ragazzi che hanno contestato alla Federico II di Napoli l’intervento di Maurizio Molinari, direttore con l’elmetto del quotidiano Repubblichino (schierato con le più ignobili ragioni della guerra in Ucraina e con le feroci logiche del genocidio in atto sulla Striscia di Gaza) quei ragazzi sarebbero “intolleranti e violenti”.
Perché la libertà di espressione non si conculca!
Perfetto. Siamo d’accordo.
Ora però ci sorge un dubbio. Qualche giorno fa quegli stessi “autorevoli” esponenti istituzionali si erano indignati per le manganellate della polizia contro i ragazzi di una scuola di Pisa, che protestavano liberamente per la stessa ragione: il genocidio in atto in Palestina, “dal fiume al mare”.
Il Presidente e la sinistra allo spritz parlarono, anche in quell’occasione, di violenza repressiva, di fallimento e di necessità di garantire la libera circolazione delle idee.
Mi domando dunque quale sia il perimetro concettuale entro il quale quel libero esercizio di espressione venga garantito.
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Clima, una risposta pubblica, varie ed eventuali
di Il Chimico Scettico
Magari quelcuno riconosce l'immagine, già comparsa qua sopra. Quel post ha provocato un commento pubblico di Ugo Bardi. Dopo diversi giorni, ho pensato che forse una mia risposta pubblica sarebbe stata opportuna.
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La clinica dopo Basaglia
di Pietro Barbetta
L’istituzione negata è un libro del 1968, anno che ognuno ricorda come svolta nel panorama del secondo dopoguerra; il libro esce di nuovo oggi, per la collana La nave di Teseo, di Baldini+Castoldi, a cinquantasei anni di distanza dalla prima e a cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia, che lo ha curato e che è, nel mondo, il protagonista di un cambiamento epocale. Dopo Basaglia, la clinica nel campo della mente non è più la stessa.
Basaglia non è stato un medico qualunque, era politicamente schierato, aveva un’enorme sensibilità umana e una grande preparazione filosofica. Tra i suoi autori ci sono Edmund Husserl, Max Scheler, Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre. Franca Ongaro, che lo aveva sposato nel 1953, non ne era solo la moglie, era una scrittrice, aveva una formazione politica, è stata Senatrice della Repubblica e ha scritto – con Basaglia e da sé – opere di grande valore. Ricordo di lei un bellissimo saggio – in un numero di Panorama mese del 1983 – su come la psicoanalisi in Messico avesse convertito un gruppo di padri benedettini in psicoanalisti: “Così parlò Edipo a Cuernavaca”.
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Cattivi maestri e maestri del dove tira il vento
Considerazioni inattuali per un caso attuale (di cui non parlo)*
di Gaspare Nevola
C’è un abisso tra un amante deluso e chi è incapace di amare
(Koestler)
S’alza il sipario
Prof.ssa Tizia: Le sue parole mi suscitano sconcerto…
Prof. Caio: Mi scusi, ma è mio mestiere e dovere è cercare di capire le cose e offrire spiegazioni, come lei ben sa. Mi sconcerta il suo sconcerto, cara collega…
(Frammento di un confronto mancato. L’ennesimo nel discorso pubblico dei nostri tempi. Ah… Ma su cosa? La risposta al lettore, o nel vento…).
1. Del mito, o delle “grandi narrazioni”
Per una collettività e la sua cultura politica, il mito (mythos) è una “narrazione”: classicamente, una “grande narrazione”[1] che esprime una “visione del mondo” (nel senso weberiano), o anche un’”ideologia” (nel senso di Karl Mannheim, più che di Marx). Il mito è uno strumento culturale, cognitivo e valoriale che opera per conferire, come è antropologicamente necessario, un “senso” al mondo, alla vita collettiva di una comunità e dei suoi membri. Il mito non è solo “racconto” ma anche “costruzione del racconto” o dei racconti, “processo del raccontare”: vale a dire, un meccanismo antropologico-culturale che forgia narrazioni, e per loro tramite delinea significati, identità e valori collettivi. Il mito, insomma, è anche mytho-moteur[2], intrinsecamente mitopoietico. In quanto tale, il mito produce “sue verità”, verità che sfuggono al paradigma “vero/falso”[3]. Il mito, inoltre, attinge al passato, “attualizza” il passato, lo porta nel presente e orienta il futuro, indicando direzioni per l’azione umana collettiva[4].
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Il caso del caso Moro. Parte 3: La trattativa
di Davide Carrozza
Sulla scia dei miei due articoli precedenti (qui e qui) sul “caso del caso Moro”, ripresi da Sinistra in Rete e Minuti di Storia, volevo tornare su un argomento poco dibattuto e appena sfiorato dagli stessi: Moro, poteva essere salvato? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Dal momento che tutti i commenti agli stessi articoli (non gli articoli stessi) lascerebbero intravedere una mia presa di posizione lapidaria sui misteri della vicenda Moro, chiarisco che essere anti complottista non significa di per sè credere che sul rapimento, prigionia e omicidio dell’On. Moro sia tutto un libro aperto e niente debba essere più risolto.
Se c’è un aspetto infatti poco dibattuto sia dalla storiografia, che dalle commissioni parlamentari, che dai numerosi procedimenti giudiziari riguarda quella trattativa sotto traccia, che attraverso numerosi canali riuscì a mettere in comunicazione neppure tanto indiretta, ma segretissima, le Brigate rosse e lo stato durante i 55 giorni. Anziché elucubrare su quello che fu e sarebbe potuto essere proverò a ricostruire quella trattativa con una cronistoria il più possibile precisa, proverò quindi a dipanare gli eventi senza aggiungere commenti od opinioni di parte per provare a rispondere a domande che, a 47 anni di distanza, a mio avviso hanno ancora tutto il senso del mondo: C’è mai stata la speranza di salvare Moro in quei giorni maledetti? Se si, quanto concreta? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Chi avremmo dovuto ringraziare? Domande metafisiche da sliding doors potrebbero sorgere: cosa sarebbe accaduto poi alla storia del nostro paese? Avrebbe preso un altro corso? Proviamo a riordinare le idee e a ricostruire tutto a bocce ferme, per poi tirare le somme alla fine.
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La "campagna mediterranea" della Meloni
di Pasquale Cicalese*
Continua la "campagna mediterranea" della Meloni. Dopo Tunisia, Libia, Algeria, è ora la volta dell'Egitto. Sfrutta il marchio Ue, portandosi la von der Leyen e mettendo in pasto all'opinione pubblica la faccenda dei migranti, ma il suo scopo è un altro.
L'Italia ha perso il Mediterraneo nel 2011, con la scomparsa di Gheddafi, voluta da Obama, Sarkozy e Napolitano, con Berlusconi, minacciato, costretto a mandare i caccia. Morì quel che definì "un suo amico".
Poi ci fu il golpe di Monti e i governi piddini o gialloverdi, tutti incentrati verso il centronord dell'Europa. Intanto la Cina, come scrissi in Piano contro mercato, delocalizzava nel sud del Mediterraneo il 15% della propria produzione industriale a basso valore aggiunto, specializzandosi, in una corsa frenetica con gli Usa e con Taiwan, nell'high tech. Creava porti, zone franche, ricostruiva quartieri, costruiva autostrade, moschee e quant'altro. Stessa cosa nell'Africa nera.
Qualche anno dopo fu la Russia a seguire il percorso della Cina, in un ottica politico-militare. La Francia fu cacciata fuori.
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Il suicidio d’Europa con vista sul Dnepr
di Jack Orlando
Benedetta Sabene, Ucraina. Controstoria del conflitto oltre i miti occidentali, Meltemi, Milano 2023, pp.284 18€
Il giorno che il presidente Zelensky dichiarò a una giornalista italiana che in Europa c’era troppo filo-putinismo e che i suoi servizi di intelligence erano intenti a preparare delle liste di persone “da mettere a tacere” (più o meno testuale)1, l’inviata non trovò nulla da eccepire.
Né hanno avuto da ridire altri capi di stato rispetto al fatto che dei servizi di intelligence di un paese terzo stessero stilando delle liste di proscrizione, con quali criteri poi non è dato sapere, sui propri cittadini.
Qualcuno, guarda caso in Italia, non sapendo parlare né star zitto l’ha perfino trovata una buona idea e ci ha tenuto a dirlo a tutti;2 e d’altronde era proprio un giornale italiano che all’indomani del febbraio ’22 ci aveva tenuto a pubblicare per primo la sua lista nera.3
Ora, potremmo anche dar per buona l’ipotesi che sia un gigionesco guizzo creativo del presidente ucraino, reminescenza della sua precedente vita da comico poco divertente, o un altro dei suoi eccessi rasenti la mitomania.
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I fatti di Napoli e la falsa coscienza di Repubblica
di Paolo Desogus*
Le reazioni scomposte e piagnucolose di Repubblica, dopo le contestazioni di Napoli al direttore Molinari, descrivono in modo chiaro e inequivocabile la discesa negativa del giornale, da tempo ridotto a fogliaccio di propaganda, a rubrica di invettive e schiamazzi (come quelli quotidiani di Cappellini e oggi persino di Augias) contro chi si azzarda ad avere un pensiero differente, soprattutto sulla guerra in Ucraina e su quella in Palestina.
La regressione di Repubblica descrive però anche il tracollo morale e culturale di quella borghesia "illuminata e progressiva" che è cresciuta insieme a questo quotidiano. Mi riferisco a quella parte di paese scolarizzata e cosmopolita che occupa posizioni nel mondo della scuola, dell'università o che comunque svolge mestieri intellettuali e che per molto tempo si è posta come modello della buona sinistra. Questa parte di paese ha vissuto il suo momento più fortunato negli anni del berlusconismo, ovvero negli anni in cui si è proposta come rifugio dalle volgarità dell'italietta che rifletteva se stessa nei programmi televisivi di Canale5.
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Le tentazioni guerrafondaie dei leader europei. Contro la Russia, ma con o senza gli Stati Uniti?
di Sergio Cararo
Scrive un editoriale di Le Monde: “In verità, la possibilità di una guerra tra Europa e Russia tormenta le menti delle persone. La Svezia, il Regno Unito, la Finlandia, la Polonia e gli Stati baltici stanno discutendo di questa prospettiva. Non senza una buona ragione. Perché la Francia dovrebbe ignorarlo? Perché aver paura delle parole e non dare per scontata l’alleanza con l’Ucraina? Volens nolens, siamo in conflitto con la Russia da due anni ormai”.
“Siamo vicini e fermi al fianco dell’Ucraina”, ha dichiarato il cancelliere tedesco Scholz nel vertice di ieri a Berlino del cosiddetto “Triangolo di Weimar” insieme con il presidente francese Macron e il primo ministro polacco Donald Tusk.
“Faremo di tutto affinché la Russia non vinca la guerra“, ha detto Macron mentre Tusk ha respinto le “voci” di disaccordo, dicendo che hanno parlato con una sola voce.
“Di recente erano sorte tensioni, soprattutto con la Francia. Macron ha suscitato rabbia a Berlino quando non ha escluso il dispiegamento di truppe di terra occidentali in Ucraina e ha insultato altri paesi definendoli “codardi”. Ma anche la Polonia sta aumentando la pressione, ad esempio perché sta sostenendo una maggiore spesa per la difesa nel quadro della Nato” scrive oggi il quotidiano tedesco Handesblatt.
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Elezioni europee. Non ricadere, ancora una volta, nella trappola dell’elettoralismo
a cura della segreteria nazionale MpRC
La confusione politica di aggregati elettorali estemporanei e l’arroccamento identitario sono le due opposte sfaccettature di una sinistra frammentata e in grave difficoltà, che perde contatto con i luoghi del conflitto di classe e investe le sue energie in un elettoralismo che diventa un circolo vizioso di insuccessi e perdita di credibilità.
Si avvicina la data delle elezioni europee, il passaggio è importante perché l’Unione europea (Ue), da molti anni in qua, ha un ruolo sempre più preponderante e sempre più impositivo su buona parte delle politiche nazionali.
Intendiamoci, non è vero che gli Stati nazionali non possono più avere voce in capitolo; abbiamo visto che, su alcuni passaggi, Stati con un minore peso sul piano economico e di popolazione hanno bloccato decisioni importanti e non ne hanno avuto conseguenze poi così gravi.
Certamente l’Ue ha tutto il potere che appare perché le classi dominanti e i loro rappresentanti politici accettano, o meglio condividono, le scelte che, sui vari terreni, economico, sociale, militare ecc. la Commissione (cioè il “governo” della Ue) e la Bce assumono, anche se a volte queste scelte favoriscono di più alcuni Stati rispetto ad altri – ovviamente si parla di Francia e Germania –, ma complessivamente le scelte che assume l’Ue tutelano e garantiscono le classi dominanti di tutti i paesi europei a danno dei lavoratori e dei ceti popolari (e anche dei ceti medi).
Riguardo allo spazio di autonomia che gli Stati possono avere, se vogliono, nell’Ue citiamo un esempio significativo: il governo Sanchez ha fatto delle leggi sul mercato del lavoro che vanno in senso opposto alla liberalizzazione selvaggia che, su questo tema, l’Ue ha promosso praticamente da sempre, a cominciare dalla Bolkestein.
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La "forza della debolezza" e il piano inclinato di Israele
di Giacomo Gabellini
A dispetto delle previsioni secondo cui l’imminenza del Ramadan incrementava le possibilità che rappresentanti israeliani e leader di Hamas concordassero quantomeno una tregua, i combattimenti nella Striscia di Gaza proseguono regolarmente. Simultaneamente, il tentativo dell’amministrazione Biden di indebolire la posizione di Netanyahu attraverso l’“incoronazione” di Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore dell’Israeli Defense Force e membro d’opposizione del gabinetto di guerra israeliano, si è risolto in un colossale fallimento. Individuato da Washington come una figura “moderata” da appoggiare per scalzare l’attuale primo ministro israeliano dal suo ruolo, Ganz si è rivelato perfettamente allineato a Netanyahu riguardo alla linea d’azione da portare avanti nella Striscia di Gaza.
Segno che Israele intende proseguire per la sua strada, nonostante il prezzo sempre più elevato che il Paese è chiamato a sostenere. Le inchieste condotte dai quotidiani «Haaretz», «Yedioth Ahronoth» e «The Times of Israel» hanno messo in luce l’entità assai ragguardevole – di molto superiore a quella ricavabile dai dati forniti dal governo – delle perdite, in termini di morti e feriti gravi, riportate dall’Israeli Defense Force. Di converso, stando a quanto riportato dall’analista Yitzhak Brik sulla base di informazioni ricevute da soldati e ufficiali di Tsahal impegnati nei combattimenti nella Striscia di Gaza, «il numero effettivo di miliziani di Hamas eliminati dalle nostre forze sul campo di battaglia è di molto inferiore rispetto ai dati ufficiali comunicati dal governo […]. L’Israeli Defense Force non dispone attualmente di soluzioni rapide per condurre una lotta efficace contro Hamas […]. La distruzione dei tunnel richiederà molti anni e un prezzo molto elevato in termini di vite israeliane».
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Sul fascismo e le sue metamorfosi
di Alberto Burgio
Vorrei dar seguito ai miei due interventi di «scatola nera» che hanno suscitato reazioni diverse, tutte feconde di ulteriori riflessioni. Credo che la sede opportuna di questa nuova riflessione sia «spigoli» perché vorrei a questo punto ragionare prendendo maggior distanza dagli accadimenti di questi mesi e anche di questi ultimissimi decenni.
Oggi vorrei tornare sulla questione del fascismo – del suo connotato essenziale, quindi dei suoi rapporti con la modernità, il capitalismo, il dominio borghese, lo Stato di diritto, la democrazia. Non mi dispiacerebbe concentrarmi in un successivo intervento sul problema del razzismo, riservando particolare attenzione alla tragedia specificamente moderna e specificamente europea dell’antisemitismo, riemersa con tragica attualità in connessione con il nuovo capitolo dell’infinita guerra israelo-palestinese (A.B.).
* * *
Due questioni
Nell’ultimo articolo pubblicato in «scatola nera» ho scritto che, dopo i 30-40 anni di reazione alle conquiste realizzate dal movimento operaio nel trentennio post-bellico, siamo in una fase di «neo-fascistizzazione» di buona parte dei paesi occidentali; e ho suggerito che la fase attuale è probabilmente la «verità» della precedente: non un semplice, transitorio, incidente di percorso. In questo senso la regressione verso regimi autoritari, «populistici» (pongo tra virgolette per l’ambiguità del termine), sostanzialmente post- o neo-fascisti in parte dell’Europa non dev’essere ottimisticamente intesa come un inciampo più o meno accidentale ed episodico, ma come un compimento, come l’istituirsi di un assetto stabile destinato a consolidarsi nel prossimo futuro.
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Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti. Carlo Formenti
di Marco Pondrelli
L’opera di Carlo Formenti cominciata con il primo volume ‘guerra e rivoluzione. Le macerie dell’Impero‘ si conclude con questo secondo libro, che unisce alla pars destruens che caratterizzava il precedente testo la pars costruens. Il sottotitolo ‘elogio dei socialismi imperfetti’ è significativo della posizione dell’Autore, che si discosta dalle narrazioni che gettano alle ortiche tutto quello che il movimento comunista è riuscito a costruire dal Novecento.
Il socialismo con caratteristiche cinesi è quindi centrale, Formenti riprende le lucide analisi di Arrighi, che non vedeva nel capitalismo l’unica possibilità di sviluppo. La crescita cinese non può essere slegata dalla sua storia e dalla sua tradizione, scrive l’Autore ‘la Cina può essere compresa solo considerando la sua storia attuale in continuità con la sua storia millenaria, e il tipo di socialismo che tale storia ha generato è una chiara dimostrazione del fatto che il capitalismo descritto da Marx non è il destino che tutti i Paesi del mondo devono subire prima di incamminarsi verso altre forme di civiltà’ [pag. 60]. Usando una metafora non molto elegante si può dire che Formenti ‘metta i piedi nel piatto’ quando affronta di petto la questione se la Cina sia un Paese socialista o capitalista.
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Italia atlantosionfascista in piena demenza senile armata
di Fulvio Grimaldi
In onda domenica ore 21.30. Repliche lunedì 9.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, gioovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 09.00.
Byoblu-Italia armata, “Che idea ti sei fatto”, Miriam Gualandi intervista Davide Colantoni e Fulvio Grimaldi
Stavolta vi sparo dal lanciarazzi multiplo, tipo batteria Katiusha. Tanta roba, visto che tante cose succedono che uno deve fare salti mortali con doppio avvitamento per starci dietro. Così ecco, insieme alla nuova puntata di Mondocane un programma curato da Miriam Gualandi e che ci pone davanti all’orrore di cosa stiamo inventando tra un Crosetto, lobbista degli armieri e, dunque, ministro dell’Offesa e del primato nazionale, europeo e mondiale dei conflitti d’interesse, e una Meloni che, lingua in bocca con l’altro Arlecchino ucraino, gli promette giovani italiani da far dissanguare in Ucraina contro i russi. Sullo sfondo gli armamenti e l’Italia della demenza senile armata che continua a contribuire all’unico vero olocausto del nostro tempo, quello di Gaza, con riverberi in Cisgiordania. Dove Jack lo squartatore, munito delle 7 braccia della Menorah, colpisce indignato chi, specialmente bimbetto ingordo, o mamma risparmiosa sul latte, non si acconcia a morire di fame.
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Ucraina: la discarica dei residuati bellici d'Occidente
di Piccole Note
Come "buttare" equipaggiamenti obsoleti e costringere le nazioni europee a spendere - per lo più negli Usa - per acquistarne di nuovi. Il tutto sulla pelle dell'Ucraina
“Uno dei miti più ricorrenti nella stampa occidentale e [nei discorsi dei] leader della NATO è che l’equipaggiamento che stanno inviando all’Ucraina li aiuterà a proseguire la guerra contro la Russia. In realtà, la maggior parte delle attrezzature fornite all’Ucraina sono poco più che spazzatura”. Così Brandon Weichert sul National Interest.
L’analisi di Weichert è impietosa, a iniziare dai carri armati di fattura sovietica forniti all’inizio delle ostilità dai Paesi dell’Est, sui quali i russi hanno imperversato facilmente.
I carri armati Nato
Quindi, veniamo ai cosiddetti carri armati francesi, in realtà veicoli blindati dalla corazzatura leggera. Così Weichert : “L’AMC-10RC. L’AMC-10RC sono una rimanenza dei primi anni ’80. L’ultimo importante aggiornamento di questo carro è stato fatto nel 2000.
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