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La metafisica, la civiltà della tecnica, il nichilismo e le radici della violenza
di Francesco Sirleto
Rileggere Téchne di Emanuele Severino, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione
“Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente. Esso rivela un corso così profondamente sotterraneo, che il suo sviluppo non potrà determinare che catastrofi mondiali. Il nichilismo è il movimento storico universale dei popoli della terra, nella sfera di potenza del Mondo Moderno … Il dominio in cui sono possibili così l’essenza come l’esistenza del nichilismo è la metafisica stessa, purché noi vediamo in essa non una dottrina, o addirittura una particolare disciplina filosofica, ma quell’ordinamento dell’ente nel suo insieme in virtù del quale esso viene suddiviso in mondo sensibile e ultrasensibile, facendo dipendere quello da questo” (M. Heidegger, da La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti).
La lunga citazione tratta da un’opera ben nota di M. Heidegger (Sentieri interrotti, pubblicata nel 1950, come raccolta di vari saggi e conferenze risalenti per lo più agli anni Trenta), assume un particolare significato se ci soffermiamo sull’oggetto di queste brevi considerazioni scaturite dalla “rilettura”, dopo moltissimi anni, di un’opera fondamentale (Téchne, le radici della violenza) di Emanuele Severino, scomparso il 17 gennaio scorso alla venerabile età di più di 90 anni. In questo libro, la cui prima edizione è del 1979, è contenuto l’essenziale di tutto il pensiero elaborato, nella sua lunghissima carriera di filosofo praticante, dall’illustre professore emerito dell’Università veneziana Ca’ Foscari, nella quale fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e di Filosofia. Nella citazione posta in epigrafe appaiono, infatti, alcuni dei concetti che hanno costituto il principale oggetto di riflessione da parte del pensatore bresciano: nichilismo, Occidente, metafisica, ordinamento dell’ente.
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50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo
di Claudio Conti
Con un intervento in calce di Guido Salerno Aletta
La sensazione insiste da tempo. Lo stallo generale in cui siamo immersi – incrinato parzialmente ora dalla “paura globale” per un virus di limitata pericolosità – dura da anni. Uno scivolamento lento verso una condizione peggiore ma non ancora intollerabile, o forse tollerato solo perché lento e graduale. Una evidente incapacità-impossibilità per le classi dirigenti globali di trovare una “soluzione” alla crisi, per via del suo carattere mondiale e dei limitati strumenti – nazionali, o al più continentali – in mano ai decisori pubblici.
Però ogni stallo è una marcescenza. I problemi si accumulano, per quanto silenziati o rinviati. E le possibili soluzioni diventano sempre meno applicabili, perché si moltiplicano le connessioni tra un problema e l’altro.
Per esempio, chi vede l’immigrazione come un problema gravissimo non vede, in genere, l’emigrazione dei suoi connazionali – specie giovani, istruiti, preparati – verso luoghi in teoria più promettenti. E soprattutto non vede le ragioni strutturali che spingono così tante persone ad affrontare l’ignoto in un altro paese o continente, in diversi contesti culturali e linguistici.
Chi vede le ragioni strutturali (economiche o ambientali) spesso non coglie la complessità delle reazioni in popolazioni sottoposte contemporaneamente a uno stress economico-sociale (perdita di salario, status, sicurezza economica, speranza nel futuro) e a uno “epidermico-culturale” (“lo straniero in casa”).
Dovunque ci si giri non si incontra nulla di stabile, se non l’incrudimento delle reazioni repressive da parte di centri si potere che dappertutto sentono salire il malessere sociale.
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Sulla crisi strutturale della sinistra
di Alessandro Pascale
Il 2 febbraio il compagno Gordan Stosevic mi ha contattato per pormi alcune domande sull’attualità politica italiana ed internazionale, concentrando l’attenzione sulle problematiche riguardanti il movimento comunista. L’intervista sarebbe dovuta uscire sul suo sito Ilgridodelpopolo.com; Stosevic si è visto però impossibilitato a pubblicare il pezzo in questione dato che il suo sito è stato nel frattempo oggetto di un attacco informatico.
Abbiamo convenuto assieme di darne quindi pubblicazione su questo portale [ap].
– Per iniziare l’intervista, la sinistra vive più una crisi ideologica o politica oggi?
– Innanzitutto intendiamoci sul significato del termine “sinistra”, espressione che nel senso comune è ormai associata ad una visione liberista e liberale che nei migliori casi ha leggere sfumature di socialdemocrazia ma che è strutturalmente incapace di mettere in discussione il sistema vigente. Questa “sinistra” così intesa ha ancora un suo seguito di massa ma è palesemente in crisi, anche se continua ad essere considerata un argine contro il “ritorno del fascismo”, presunto o reale che sia. Distinguerei tra persone e gruppi organizzati che si sentono interiormente dalla parte del progresso sociale ma che mancano degli strumenti ideologici per comprendere l’inadeguatezza della propria proposta politica, da persone e gruppi che invece utilizzano strumentalmente l’identità di sinistra per introdurre idee e temi storicamente appartenenti alla destra. Questi ultimi, ossia la destra che si camuffa da sinistra, sta tutto sommato bene, dato che il suo obiettivo principale è quello di impedire il risorgere di una coscienza di classe anticapitalista. Mi sembra di poter dire che la crisi dei primi, ossia della “vera” sinistra, sia figlia di una dialettica figlia di una serie di rigetti ideologici e politici che si sono stratificati nel tempo. Se dovessi identificare il “peccato originale”, direi che la crisi ideologica della sinistra parte dalla destalinizzazione del 1956. Da lì è iniziata l’opera di smantellamento progressivo della teoria di riferimento. In URSS e in Occidente nel giro di poco più di 30 anni si è passati dall’egemonia del marxismo-leninismo al ripudio completo delle teorie di Marx ed Engels, a favore del ritorno in grande stile di un “liberalismo” sempre più restio al compromesso sociale e improntato in senso elitario. La “fuga” dal marxismo è un atto sciagurato che ha fatto regredire culturalmente e politicamente l’intero movimento progressista occidentale.
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Perchè non possiamo non dirci sovrani
di Carlo Galli*
Trascrizione rivista dall’autore della prolusione alla conferenza Euro, Mercati, Democrazia 2019 – Decommissioning EU, svoltasi a Pescara nei giorni 26 e 27 ottobre 2019
Buon pomeriggio a tutti. Devo parecchi ringraziamenti ad Alberto Bagnai, al presidente Ponti e a tutti coloro che hanno pensato che la mia presenza sarebbe stata utile, oltre che naturalmente a voi che siete qui ad ascoltare.
Io sono qui perché ho pubblicato un libro il cui titolo è Sovranità; libro relativamente facile, divulgativo, che nasce dal fatto che – come studioso, molto più che come politico – non mi sono per nulla sentito a mio agio con l’invenzione lessicale del termine «sovranismo» e con l’uso della parola «sovranista» come un insulto. E quindi ho messo in piedi una riflessione, il cui contenuto in parte adesso vi consegno. Dico «in parte» perché nel libro vi sono molti passaggi storici e filosofici che non è il caso di portare qui; però, alcune questioni è il caso di portarle per un obiettivo – l’obiettivo fondamentale che in questa fase della mia esistenza io mi pongo –: in questo Paese c’è una gravissima questione di egemonia culturale; detto in un altro modo, c’è una gravissima questione di conformismo.
La politica, se vorrà e saprà, potrà fare la sua battaglia, ma sicuramente la intellettualità italiana dovrebbe fare la propria e secondo me non la sta facendo – per una serie di motivi che non voglio neppure enumerare –. La cosa più importante oggi è fare passare l’idea che è possibile un diverso punto di vista sulle cose dell’Italia, dell’Europa e del mondo.
Ideologia
Un «diverso punto di vista», ad esempio, rispetto al fatto che già questa frase mi verrebbe contestata, perché potrebbe essere accusata di nascondere l’intento di far nascere e rinascere, inventare, una ideologia nell’epoca in cui le ideologie sono finite. Ora, questa non è l’epoca in cui tutte le ideologie sono finite.
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Aristotele e Marx
di Leo Essen
I
Agli occhi degli economisti del XVIII secolo gli individui indipendenti della moderna società borghese appaiono come un ideale la cui esistenza appartiene al passato. Non come un risultato storico, dice Marx (Introduzione del 57), ma come il punto di partenza della storia. Il lavoratore indipendente conforme a natura non è infatti, secondo la concezione della natura umana degli economisti, originato storicamente, ma posto dalla natura stessa. Quanto più risaliamo indietro nella storia, dice Marx, tanto più l’individuo – e quindi anche l’individuo che produce – ci appare non autonomo. La produzione ad opera dell’individuo isolato è un non senso. Allo stesso modo è mitologico pensare che l’origine dell’idea di Economico sia spuntata in testa bella e fatta e sia stata poi applicata.
A questo punto, dice Marx, poiché ogni periodo storico è una singolarità diversa da tutte le altre, sarebbe impossibile parlare, in riferimento a periodi diversi, di Economico, di Lavoro, eccetera, perché nel tempo l’attimo scorre e non si fissa in niente.
In ogni caso, continua Marx, tutte le epoche hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale – ad esempio – è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Allo stesso modo il lavoro in generale.
In quanto generalità, dice Marx, il lavoro è una categoria antichissima. D’altra parte, dice, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui il genere determinato del lavoro è fortuito e quindi indifferente.
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Wuhan e dintorni
Intervista al Prof. Francesco Maglioccola
Intervistiamo oggi il Professor Francesco Maglioccola, architetto e ricercatore presso l’Università Parthenope di Napoli, noto per il suo lavoro di catalogazione dei libri conservati nella biblioteca di Hankou, fondata dai francescani a metà dell’Ottocento e che ha vissuto a Wuhan gli ultimi cinque anni viaggiando in Cina nel corso degli ultimi venti
O.G. Professore, alla luce delle vicende delle ultime settimane, come esperto di Cina, mi piacerebbe intervistarla per restituire ai lettori una più completa visione su cosa sia la città di Wuhan e in generale la cultura cinese, essendo la città peraltro, come lei ci insegna molto legata all’Italia per tutta una serie di vicissitudini storiche.
F.M. Sì, grazie mille per l’invito. Cominciamo con il dire che sono legami molto stretti quelli tra Wuhan e l’Italia; Wuhan ha ospitato il consolato italiano all’inizio del secolo scorso fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando i consolati stranieri in Cina non erano molti, ma noi l’avevamo. Le concessioni invece non vennero mai aperte per motivi economici che non potevamo allora sostenere e aprimmo così a Tianjin. Fummo “sostituiti” a Wuhan dagli inglesi e dai francesi. Questi ultimi sono ancora estremamente attivi nella zona e nella città di Wuhan, la loro influenza interna è abbastanza forte, data la loro pregressa presenza.
O.G. Professore, in questi giorni non si fa altro che parlare del coronavirus, tecnicamente il Covid-19, inutile dirlo. Perché tanto panico? E soprattutto sono molte, forse troppe le voci riguardo l’origine della diffusione di questo. Dai mercati del pesce dove possa essersi sviluppato e poi guizzato all’esterno senza controllo, all’utilizzo dei pipistrelli in cucina, alla fuga dal laboratorio di ricerca, fino all’arma batteriologica. Cosa ne pensa?
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Gioie e dolori dell’autodissociazione
di Valeria Turra
Gli eventi politici delle ultime settimane vorrebbero chiudere per Giuseppe Conte, non ci fossero evidenti sfasature, un cerchio, da molti mesi iniziato a disegnare, per accentrare su di sé il potere a scapito dei partiti eletti dal popolo sovrano; un cerchio di cui l’elettore ha avuto prima contezza in occasione della conferenza stampa tenuta dall’allora primo ministro del governo gialloverde la sera del 3 giugno 2019, ovvero all’indomani dell’exploit leghista alle Europee. Partito con toni accomodanti verso entrambi i suoi vice, il premier palesa nel finale lo scopo vero della convocazione dei giornalisti: entrambi, Di Maio e Salvini, dovranno lasciargli carta bianca nelle trattative europee, altrimenti Conte rimetterà l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Già in quei giorni non fu difficile prevedere che, dietro il dichiarato tentativo di scongiurare una (discutibilissima) procedura di infrazione per debito eccessivo, ci fosse il rischio di dovere accettare contropartite rischiose per l’economia italiana, e intuire che dietro l’ultimatum di Conte premesse l’urgenza di un’assunzione di “pieni poteri” per trattare in sede europea questioni delicatissime per il popolo italiano senza l’interferenza dei partiti votati (nella fattispecie, come solo gradualmente si farà palese, il (presunto) “pacchetto Mes”), mettendo in assoluto non cale il fatto che gli elettori considerassero il presidente del Consiglio (autoproclamatosi solo un anno prima «avvocato del popolo») come semplice garante di un programma critico verso l’Ue e non un leader che autonomamente potesse gestire i rapporti europei con tanto di “postura di resa” all’asse franco-tedesco.
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Circa il giusto modo di invecchiare
Dedicato a Nicoletta Dosio 3
di Eros Barone
Tutte le civiltà conosciute si caratterizzano per la contrapposizione tra una classe di sfruttatori e delle classi di sfruttati. La parola vecchiaia esprime due specie di realtà profondamente diverse a seconda che si consideri quella o queste. Ciò che falsa le prospettive, è che le riflessioni, le opere, le testimonianze concernenti l’età avanzata, hanno sempre riflettuto la condizione degli eupatridi: sono soltanto loro a parlare. 1
Affinché la vecchiaia non sia una comica parodia della nostra esistenza precedente, non v’è che una soluzione, e cioè continuare a perseguire dei fini che diano un senso alla nostra vita: dedizione ad altre persone, a una collettività, a una qualche causa, al lavoro sociale, o politico, o intellettuale, o creativo. 2
Simone de Beauvoir, La vieillesse.
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Un archetipo della gerontologia: il De senectute di Cicerone
La vecchiaia non è un argomento allegro, perché evoca il carattere ineluttabile della morte, di cui essa è considerata l’anticamera. Tuttavia, conviene parlarne e rifletterci sopra, perché in tal modo, oltre a neutralizzare l’angoscia che provoca, di primo acchito, il discorrere di entrambe – della vecchiaia e della morte -, è possibile far emergere,, di fronte all’‘unheimlich’ 4 che è il loro carattere fondamentale, da un lato i limiti della riflessione filosofica occidentale e, dall’altro, un approccio alternativo e una diversa prospettiva.
Da questo punto di vista, il trattato di Cicerone, Cato maior, de senectute, è esemplare: in primo luogo, perché, riassumendo l’essenziale delle idee dell’antichità classica sul tema, influenzerà durevolmente il pensiero occidentale posteriore e, in secondo luogo, perché, come suole accadere tanto ad autori antichi quanto ad autori contemporanei (lo vedremo prendendo in esame la riflessione di Norberto Bobbio su tale tema), è evidente lo sforzo, che ne pervade ogni pagina, di esorcizzare lo spettro incombente della morte.
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Distopie del contagio
Epidemie e paura nella letteratura e nel cinema
di Guy Van Stratten
L’allarme scatenato dalla diffusione del coronavirus rischia di trasformare la realtà in un vero e proprio universo distopico, come è stato tratteggiato in numerosi romanzi e film di fantascienza che mostrano una società del futuro devastata da virus sconosciuti. Se è indubbiamente lecito avere paura del coronavirus, è anche lecito temere tutto il sistema di controllo e isolamento messo in atto per cercare di contrastarlo. Sui telegiornali, sui social, sui blog e sui siti delle più svariate testate giornalistiche sentiamo parole come “zona rossa” (la “zona rossa”, impenetrabile per i manifestanti, c’era anche durante il G8 di Genova), “quarantena”, “isolamento”, parole che si ricollegano, nel nostro immaginario, a tutto un sistema di controllo pervasivo e dittatoriale. Ad esempio, a quelli appena citati, può essere benissimo associato il termine “coprifuoco”: quest’ultima, come le altre, è una parola che viene usata per regolamentare e controllare il comportamento sociale degli individui. Siamo perciò nel campo semantico del controllo e della sorveglianza. Si corre il rischio che l’utilizzo di questi mezzi divenga eccessivo e incontrollato, dominato dal caos e dalla paura. Svolgiamo adesso alcune riflessioni su quanto sta accadendo intorno a noi. Il nostro immaginario corre subito alle raffigurazioni della società che abbiamo visto in molti film distopici: interi quartieri e città blindati, controllati dall’esercito in tenuta antisommossa e con maschere di ossigeno, mitra spianati contro chiunque non rispetti il divieto di passaggio, coprifuoco notturno come in tempo di guerra e chi più ne ha più ne metta (e si noti che questi scenari catastrofici sono generati proprio dal prevalere del caos e della paura).
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Assange deve morire!
di Fulvio Grimaldi
Cos’è in gioco con il giornalista di Wikileaks? Tutto! Informazione, o ti vendi, o sei fuori
Se pensate che il giornalismo italiano abbia toccato il fondo, avete modo di aggravarvi e constatare che, oltre il fondo, c’è un sottofondo, come nelle valigie o nelle macchine dei narcos, dove ormai sguazza l’intera compagnia che deve convogliarci sui carri bestiame verso dove ci vogliono rinchiudere Bilderberg e i suoi sguatteri. Di stazioni il treno ce ne ha fatto percorrere già parecchie. Saltiamo quella fatiscente di “Regeni”, dove pare che in sala d’aspetto giacciano ancora vecchi rotoli del Mar Morto che raccontano di un giovane italiano dai suoi eliminato in Egitto perchè da agenti egiziani scoperto al servizio della multinazionale di spionaggio Oxford Analytica, diretta dall’inventore degli Squadroni della Morte, John Negroponte e, quindi, fiduciario bruciato.
Ci hanno lasciato affacciare sulla fermata “Zaki”, dove ci distribuivano giornali dai titoli cubitali su Patrick Zaki, altro giovane, stavolta egiziano, in Egitto torturato, scudisciato con cavi elettrici, elettroshockato. Lo diceva l’associazione sorosiana di cui Zaki faceva parte e, dunque, lo dicevano tutti i giornali italiani, ma nessuno di quelli egiziani, o di altri paesi.
Già perché lì, come ci ha spiegato il controllore “Amnesty”, c’è la dittatura, con 60mila prigionieri “politici” (nessuno dell’ISIS che imperversa da un capo all’altro) e ne spariscono 10 al giorno e li torturano tutti, mentre da noi no. Nessun cittadino viene mai fermato, tantomeno picchiato e torturato. Solo se osa usare la formula iettatrice No Tav, o No Bellanova, oppure, evidente teppista o sovversivo, insulta il pubblico ufficiale chiedendo perché lo stiano pestando. Ma guai se qualche paese osa interferire con le nostre forze dell’Ordine, o con la nostra magistratura. Un po’ di rispetto per un paese sovrano, che cazzo!
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Grande Recessione e teoria macroeconomica: una crisi inutile?
di Giancarlo Bertocco e Andrea Kalajzic
La crisi finanziaria del 2007-08 e la successiva Grande Recessione hanno indotto molti economisti a riconoscere che il modello teorico elaborato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso aveva un limite fondamentale che consisteva nel trascurare il sistema finanziario e il fenomeno delle crisi. In altri termini, il modello sosteneva che non si sarebbero potute verificare crisi analoghe alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla Stagflazione degli anni Settanta del secolo scorso.
Questa è la regione per la quale gli economisti non sono stati in grado di prevedere l’arrivo della crisi poiché, come ha sottolineato Turner: “Non puoi vedere arrivare una crisi se hai teorie e modelli che ipotizzano che le crisi non sono possibili” (A. Turner, Between Debt and the Devil, Princeton University Press, 2016). Le crisi che si verificarono nel secolo scorso spinsero gli economisti a sostituire la teoria dominante con una teoria alternativa. La Grande Depressione determinò l’abbandono della teoria neoclassica e l’affermazione della teoria keynesiana. La Stagflazione, invece, spinse gli economisti a sostituire la teoria keynesiana con una nuova versione della teoria neoclassica che sottolineava l’assoluta efficienza delle forze del mercato. A differenza di quanto successo nel secolo scorso, la crisi contemporanea non sta spingendo gli economisti a sostituire il modello dominante, noto tra gli addetti ai lavori come il New Keynesian Dynamic Stochastic General (DSGE) Model, con una teoria alternativa.
Secondo alcune recenti indagini, circa il 75% degli economisti sostiene che il fatto che il modello dominante trascurasse il sistema finanziario non costituisce una ragione sufficiente per sostituirlo con un modello alternativo.
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Prabhat Patnaik, “Capitale monopolistico, allora ed ora”
di Alessandro Visalli
Sulla Monthly Review del luglio 2016, l’economista indiano Prabhat Patnaik pubblica una interessante recensione[1] del classicissimo saggio di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”[2], del 1966. Un libro, come ricorda, che ebbe una enorme influenza sulla sua generazione (anche se lui stava studiando economia a Nuova Delhi) che cercava di comprendere il funzionamento del “sistema” da contestare. L’aspetto strettamente economico, sul quale si concentra l’autore, era che il testo, come i precedenti dei due autori[3], superava a sottovalutazione nella tradizione marxista del problema posto dalla domanda aggregata, e quindi della circolazione. In un certo senso incorporava, come aveva fatto già Kaleki[4], le intuizioni di Keynes al riguardo in una struttura marxista di analisi. Il superamento della Legge di Say, che implica necessariamente l’emergere della domanda come un problema (anziché come una variabile dipendente dell’offerta), era stato posto dallo stesso Marx, ma successivamente disinnescato dalla sua convinzione che le crisi debbano scaturire dall’interno del “laboratorio interno” del capitalismo, ovvero dai rapporti di produzione. A porre la questione della sovrapproduzione generale e permanente, e quindi dell’importanza e centralità della sfera della “riproduzione”, ovvero della “circolazione”, erano stati già la Luxemburg[5] e Bucharin[6], ma relegati ai margini della corrente principale del marxismo che Losurdo chiamerà “occidentale”[7]. Inoltre, c’era una carenza di analisi sull’equilibrio ed i passaggi tra questi in condizioni di carenza di domanda aggregata (cosa che porterebbe verso una concettualizzazione del “moltiplicatore” alla Keynes o alla Kaleki).
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L’imperialismo americano tra realtà e "narrazione"
di Sebastiano Isaia
L’ultima monografia di Limes dedicata agli Stati Uniti (America contro tutti) è a mio avviso molto interessante soprattutto perché cerca di fare piazza pulita dei tanti luoghi comuni che negli ultimi anni si sono addensati intorno alla cosiddetta America di Trump, in particolare, e più in generale intorno al presente e al prossimo futuro degli Stati Uniti, considerati da molti analisti geopolitici e da molti politici di tutto il mondo come una Potenza mondiale ormai condannata a un declino sistemico pressoché inarrestabile e inevitabile. Come si dice in questi casi, le cose sono più complesse di come appaiono alla luce delle “narrazioni” messe in campo non solo dai nemici degli Stati Uniti, ma dagli stessi politici americani, sempre pronti a cavalcare “lo spirito del tempo” soprattutto in chiave elettoralistica. E in quel Paese “lo spirito del tempo” ormai dal 2008 parla il linguaggio “isolazionista”.
La “narrazione” spesso, anzi quasi sempre, è più forte della realtà, e sicuramente la prima è agli occhi della mitica “opinione pubblica” molto più suggestiva della seconda; ed esattamente sulla scorta di questo “disdicevole” dato di fatto che i politici, soprattutto quelli basati in Occidente, fin troppo frequentemente prendono decisioni del tutto sbagliate, soprattutto sul terreno della politica estera: è un po’ questa la “filosofia” che ispira America contro tutti – Limes, 12/2019.
Scrive Dario Fabbri: «Per capire il momento della superpotenza occorre trascurare la retorica nazionalista di Trump. Gli Stati Uniti sono passati dalla fase imperialista a quella compiutamente imperiale. Sfidando il resto del mondo. E i rischi, domestici ed esterni, che tale aggressività comporta».
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Il giorno della memoria dei vincitori, 365 giorni dell'oblio dei vinti
Mi faccio il “Giorno della Rimembranza”
di Fulvio Grimaldi
Un “Giorno della Rimembranza” per i vinti?
Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.
A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.
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I cuori nerissimi di Walter Veltroni
di Christian Raimo
Per ricordare un giovane ucciso negli anni Settanta l'ex segretario del Pd equipara fascisti e antifascisti e riscrive una storia simile a quella che piace alle estreme destre
Ieri sul Corriere della sera Walter Veltroni, ex segretario della Fgci, ex militante del Pci, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, ex ministro della cultura, ha scritto un lungo articolo su Sergio Ramelli, un giovanissimo militante neofascista massacrato barbaramente nel 1975 in un agguato, e morto dopo più di un mese di agonia.
La storia di Ramelli è nota a chiunque conosca un po’ delle vicende politiche degli ultimi quarant’anni italiani. Ramelli dal suo funerale è diventato, anche suo malgrado, un’icona del neofascismo: la sua storia è quella di un camerata martire, al quale ogni anno a Milano migliaia di militanti di CasaPound, Forza Nuova, Fratelli D’Italia, Lealtà e Azione, eccetera, vanno a rendere omaggio, con il saluto romano e il «Presente!» urlato tre volte.
Perché Ramelli sia diventato l’icona delle destre non è difficile da spiegare anche se occorre onestà intellettuale e amore per la complessità, ossia un approccio storico, per non sminuire il riconoscimento e lo sdegno per la brutalità dell’agguato senza astrarre e destoricizzare l’accaduto. Veltroni fa il contrario: apre il suo pezzo con un preambolo intellettualmente disonesto e tossico.
«Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni».
In un solo paragrafo, mettendo insieme in un unico minestrone indigesto il riemergere terribile dell’antisemitismo e del negazionismo, le storie diversissime di violenza degli anni Settanta e un giudizio paternalista contro le tecnologie moderne, squalifica da subito il suo approccio.
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Intervista al prof. Patnaik: capitalismo e sottosviluppo
di Alessandro Visalli
Ancora su “Bollettino Culturale” Francesco Barbommel intervista il prof Prabhat Patnaik (vedi anche qui, ndr), un noto economista marxista indiano che ha insegnato al Centro degli studi economici e della pianificazione della Università Jawaharial Nehru di Nuova Delhi dal 1970 al 2010, per ben quaranta anni. Ha anche fatto un’esperienza di amministrazione nel Consiglio di Pianificazione del Kerala e si è laureato e dottorato anche in filosofia ad Oxford. Nel 1969 fu attivo anche all’Università di Cambridge (Clare College) prima di rientrare in india nel 1970. Convinto critico delle politiche neoliberali, dopo la crisi del 2008 ha fatto parte di una commissione dell’Onu per raccomandare misure di riforma del sistema finanziario (con Joseph Stiglitz, Francois Houtart e Pedro Paez). Tra i suoi libri, “A theory of imperialism”[1] e “Lenin and imperialism” [2] o “The value of money”[3], o diversi interventi su decine di riviste[4], o sul suo blog[5].
L’avvio dell’intervista si concentra sulla pianificazione nell’epoca di Nehru. Questi, con l’aiuto di Bettelheim, prese come riferimento il modello sovietico sforzandosi di costruire un forte settore pubblico da elevare come baluardo contro l’influenza delle multinazionali (come ovvio, in uscita dalla dominazione coloniale inglese) e di rendere il paese quanto più possibile autosufficiente. La spinta fu particolarmente diretta all’istruzione tecnica ed alla creazione di industrie di base. Ma fallì nella completa redistribuzione delle terre, e quindi nel rapporto con il grande capitale agrario che rimase dominante, insieme a quello medio “kulako”. Ciò ha finito per limitare il mercato interno e quindi per non creare condizioni per l’autosufficienza industriale.
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I veleni dei nuovi poteri e del capitalismo della sorveglianza nell’epoca del digitale
di Maria Concetta Sala
Nell’ultimo decennio scrittrici, scrittori, analisti del digitale hanno messo in guardia sui veleni diffusi dal nostro disinvolto e compiacente uso degli strumenti che tutte/i – adulti, adolescenti, bambine/i – abbiamo in mano e nelle nostre case, ma una possente distrazione continua a non permetterci di osservarne la portata distruttiva riguardo alla libertà individuale e di cogliere le ricadute sociali di un sistema rapace e vorace che depreda la nostra esperienza umana. Basterebbe pensare alla serie distopica britannica Black Mirror che mostra gli effetti collaterali della nostra assuefazione alle nuove tecnologie; oppure alla scrittrice argentina Samanta Schweblin e al suo romanzo Kentuki (pupazzetti “innocui” di peluche dotati di webcam in grado di innescare simulacri di relazione); o ancora al volume La Grande G. Come Google domina il mondo dello studioso dei media Siva Vaidhyanathan, all’edizione francese La société de l’exposition del libro del teorico critico Bernard Harcourt, a The Culture of surveillance del sociologo David Lyon…
Che cosa è accaduto? che cosa ci sta accadendo? Perché noi “utenti” comuni – quasi metà dei sette miliardi di umani che abitano la Terra – non siamo ancora in grado di valutare gli esiti nefasti determinati dalla pirateria informatica dei colossi della Rete (Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Twitter…) e dalla logica dell’accumulazione sottostante ai cosiddetti Big Data – l’enorme quantità di dati forniti da noi e immagazzinati, gestiti e analizzati dall’intelligenza artificiale, che non è un’entità astratta, per essere infine monetizzati e venduti? perché non siamo in grado di cogliere la commistione letale tra nuove forme di capitalismo estrattivo e svolta repressiva in atto mascherata in termini di certezza e di sicurezza? come saperne di più e venir fuori dalla nostra ignoranza? quali strategie adottare per non essere ciecamente e impunemente espropriate/i?
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“Coronavirus, l’ultimo contagiato si chiama Made in Italy”
di Nicola Borzi
Riprendo un articolo dal sito di Valori.it.
Come un minuscolo microrganismo possa fare ammalare non solo degli esseri umani, ma anche l’intero sistema socioeconomicopolitico su cui si regge oggi il mondo.
Un sistema che, ricapitolando, funziona così:
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- Monocolture. Un luogo del pianeta si dedica solo a fare telefonini, un altro produce carne, un altro i SUV, un altro vende le proprie attrattive turistiche. Oppure, una sola ditta si accaparra le emozioni e le comunicazioni dell’intera specie umana, un’altra tutto ciò che gli esseri comprano e vendono.
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- Lo scambio tra le concentrazioni – il flusso globale – percorre incessantemente il mondo, su un fiume di energia fossile trasformato in inquinanti, in parallelo a un fiume di denaro speculativo.
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- Tutto sembra più economico. Quando non addirittura gratis. Il salmone dell’Alaska lo possiamo trovare nel supermercato sotto casa, a prezzi che sembrano bassissimi.
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Contrordine: austerità e tagli delle tasse non funzionano! Ce lo dice l’Europa
di Civil Servant
Fino alla Grande Recessione, il pensiero unico sulle politiche fiscali prescriveva tagli di tasse e spese per rilanciare la crescita, ovvero un ridimensionamento del ruolo dello stato nell’economia. La corrispondente ricetta per sostenere l’occupazione e gli investimenti era l’abbattimento delle tasse sulle imprese, che avrebbero impiegato le risorse liberate dal fisco per espandere la loro attività. Gli USA, con il loro tradizionale pragmatismo, furono tra i primi a violare questi tabù per contrastare la recessione, spendendo in deficit quasi 800 miliardi di dollari (pari al 5,5% del Pil) solo nel 2009. Nel frattempo la Commissione Europea resisteva ad ogni tentazione e continuava a concedere solo qualche decimale di “flessibilità” sui bilanci pubblici e ad imporre programmi di consolidamento fiscale lacrime e sangue nei paesi più indebitati. Grazie a questa lungimirante politica economica, la recessione è durata solo un paio di anni negli USA, mentre non è stata ancora completamente superata in parecchi paesi della UE, tra cui l’Italia.
Nei primi giorni del 2013 anche il Fondo Monetario Internazionale recitava un imbarazzante mea culpa sulle politiche di austerity applicate sulla pelle dei greci, attribuendo tutti gli errori ad una sottovalutazione dei moltiplicatori fiscali nel corso di una recessione. Fu come dare la colpa della morte per inedia di alcuni pazienti in cura per sovrappeso (purtroppo non solo metaforica) ad una bilancia rotta, ma fu comunque un passo in avanti rispetto ai dogmi difesi degli anni precedenti con tanto di scomuniche e roghi per gli eretici. Ora, quasi a babbo morto, anche la Commissione Europea sembra cospargersi il capo di cenere, riconoscendo che, in caso di recessione, è meglio aumentare la spesa pubblica, finanziandola con nuove tasse, piuttosto che tagliare servizi e investimenti. Tutto il contrario del mantra recitato da quasi tutte le forze politiche italiane, anche da quelle che si dichiarano progressiste.
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La cultura tra economia e politica
G.Bottos, L.Mesini e F.Rustichelli intervistano Carlo Galli
Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna ed è Presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Con questa intervista affrontiamo la questione del legame tra cultura, politica ed economia approfondendone alcuni aspetti: il rapporto tra cultura e mercato, le ricadute del neoliberismo sui modi di intendere la cultura, il ruolo degli intellettuali e la necessità di una cultura critica, i modi in cui si produce oggi l’analisi politica e le responsabilità delle classi dirigenti italiane nel declinare il triangolo cultura-politica-economia
Con questa intervista vorremmo approfondire la questione dei nessi tra cultura, politica ed economia. Iniziamo col constatare come il nesso tra cultura e politica appaia oggi in crisi, mentre da più parti si pone l’accento sul legame tra cultura e mondo economico. Un rapporto che si declina sia in termini di ‘utilità’ della cultura – e quindi di giustificazione dell’investimento in cultura – sia di una concezione della cultura intesa come attività economica in senso stretto. Essa deve rivendicare una propria autonomia? Al tempo stesso sembra necessario che essa entri in relazione con queste sfere. Quali sono le forme specifiche in cui questo può avvenire?
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Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto
di Alessandra Algostino*
Perché ridurre il numero dei parlamentari è contro la democrazia
1. Referendum plebiscitario e “democrazia oligarchica”
Il 29 marzo 2020[1] gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi sul testo di legge costituzionale, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato, in seconda votazione, nella seduta dell’11 luglio 2019, dal Senato della Repubblica, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, e dalla Camera dei deputati, nella seduta dell’8 ottobre 2019, con la maggioranza dei due terzi dei suoi membri[2]. Settantuno senatori (più di un quinto, dunque, dei membri di una Camera) hanno infatti sottoscritto, ai sensi dell’art. 138 Cost., la richiesta di referendum, che il 23 gennaio 2020 l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme alla norma costituzionale, accertando la legittimità del quesito.
Di seguito si ragionerà dei motivi, in punto di diritto costituzionale, che fondano la scelta per il no al referendum, ma non ci si nasconde come la contrarietà alla riduzione del numero dei parlamentari esprima una posizione assolutamente minoritaria, dovendo fronteggiare sia una campagna di marketing tanto povera, inconsistente e mistificatoria, quanto in grado di esercitare una facile e potente seduzione (la riduzione dei costi della politica; la contrazione dei numeri della casta)[3], sia gli argomenti che si situano nella prospettiva della governabilità sia le ragioni di chi non ritiene la riduzione del numero dei parlamentari esiziale, quando non la valuti positivamente, muovendo da una posizione che insiste sulla necessità che il Parlamento riacquisti un ruolo significativo[4].
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Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik
di Bollettino Culturale
Prabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.
Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.
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1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?
L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.
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Interviste boliviane
di Alessandro Peregalli
1. “Noi donne indigene il golpe lo abbiamo sentito nel corpo”
Dialogo con Adriana Guzmán e Diana Vargas, femministe aymara attive in uno spazio politico chiamato Femminismo Comunitario Antipatriarcale, che in questi anni ha partecipato, seppur con una visione critica dei governi di Morales, al cosiddetto proceso de cambio. L’autore le ha incontrate a El Alto, nella zona metropolitana di La Paz
In Bolivia nell’ottobre e novembre scorsi si è consumato un colpo di Stato?
Il golpe è stato progettato fin dal 2016, quando ci fu il referendum sulla possibilità di rielezione per Evo Morales. Dopo la vittoria referendaria del No, e contro il ridicolo tentativo di Evo di presentarsi lo stesso, l’opposizione organizzò la campagna Bolivia dijo No, “la Bolivia ha detto no”. Da allora l’opposizione è andata dicendo che ci sarebbero stati brogli elettorali.
Quel referendum in realtà Evo lo perse per via di uno scandalo su un suo presunto figlio non riconosciuto. Come femministe, anche se capivamo che lo scandalo era strumentalizzato dall’opposizione e dagli Stati Uniti, abbiamo comunque considerato che Evo dovesse farsi da parte. Oltretutto, eravamo di principio contro la ri-candidatura, perché non crediamo nei processi caudillisti. Però il MAS decise di candidare Evo lo stesso.
Ed è così che, dal giorno dopo il voto, sono iniziate le manifestazioni: ed erano manifestazioni razziste, con aggressioni alle donne indigene, sfregio della whipala (la bandiera dei popoli originari, Ndr). E’ stato il venire alla luce di un razzismo che per 13 anni era rimasto sotterraneo. E’ stato allora che abbiamo sentito il colpo di Stato; prima ancora che cadesse Evo, noi donne indigene il golpe già lo sentivamo nei nostri corpi: ci incontravamo nelle strade, ci guardavamo, e avevamo paura, paura della persecuzione.
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L'orientamento della sinistra davanti al problema del lavoro
di Sergio Farris
Relazione presentata al convegno organizzato dal Coordinamento della Sinistra di ValleTrompia il 15/02/2020
Prologo
Che il lavoro in Italia non possa essere considerato in situazione ottimale e che i lavoratori dipendenti non attraversino un periodo florido, quasi tutti sono disposti ad ammetterlo. I più avveduti riconoscono anche la tendenza in corso all'aggravamento della disuguaglianza e all'approfondimento della povertà assoluta e relativa.
Tutti i maggiori partiti si dichiarano favorevoli ad affrontare il tema del lavoro. Solitamente essi pongono l'incremento e la tutela dell'occupazione al primo posto nelle rispettive agende politiche. Specialmente quando le pagine dei giornali rendono conto delle ricorrenti crisi aziendali.
Vi sono tuttavia rimarchevoli differenze riguardo alle analisi e ai metodi con i quali l'argomento può essere focalizzato. Altrettanto vale per i mezzi politici da attivare al fine di raggiungere un elevato livello di occupazione e posti di lavoro di qualità.
Attualmente il tasso di disoccupazione ufficiale è di circa il 10%. Gli occupati assommano a circa 23 milioni. Il tasso di disoccupazione giovanile si avvicina al 30%. Va meglio a Brescia e in altre zone del Nord, territori in cui la disoccupazione è storicamente inferiore rispetto alla media nazionale. Comunque, quando si tratta del tasso di disoccupazione, va anche tenuto conto di fenomeni quali il part-time involontario, il diffusissimo precariato, il lavoro autonomo sotto forma di false partite Iva, eccetera. (Ufficialmente, gli autonomi regolari sarebbero 5 milioni 363 mila). E soprattutto, anche quando ci si riferisce agli occupati, andrebbe tenuto conto delle retribuzioni e della qualità delle prestazioni lavorative. (Si ha spesso a che fare con lavoro povero, soprattutto nel composito settore dei servizi).
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Ci saranno improvvise esplosioni, epidemie
di Luigi Grazioli
“J. G. Ballard è uno dei pochi scrittori di fiction del ventesimo secolo dall’immaginazione così singolare da aver ricevuto un suffisso in inglese: in -esque o -ian, come nel caso di “Kafkesque” e “Dickensian””, scrive Simon Reynolds nel saggio che accompagna la traduzione inedita della video intervista All that mattered was a sensation che il grande scrittore inglese ha concesso a Sandro Moiso nel 1992, ora pubblicata in un’edizione bilingue corredata da un apparato iconografico e da una bella introduzione dello stesso Moiso, a cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, per le edizioni Krisis. “Per alcuni lettori Ballard ha saputo imporre il suo modo di vedere tra i nostri occhi e il mondo”, tanto che è impossibile non pensare alla sua opera di fronte a eventi catastrofici, esplosioni di violenza, sesso traumatico, celebrità assassinate, comunità isolate che implodono, periferie degradate, grandi strutture stradali che sembrano ecosistemi autonomi ecc., che ritroviamo un po’ ovunque nella realtà degli ultimi decenni, dove le più cupe distopie del grande scrittore inglese, che apparivano solo estremizzazioni di aspetti appena accennati della società a lui (tra il 1960 e il 2000), sembrano essersi puntualmente realizzate, talvolta andando persino oltre la sua immaginazione.
Reynolds, riprendendo e commentando alcuni spunti dell’intervista, districa e ricollega in una fitta maglia questi caratteri tra di loro e, in modo illuminante, ad aspetti della società e della cultura inglese fino ai nostri giorni, dalla politica alle nuove consuetudini, dall’urbanistica alla musica, con una scrittura tanto chiara quanto acuta.
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