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L’amaro ricatto delle pensioni: flessibilità in cambio di tagli
di coniarerivolta
Il 27 gennaio si è tenuto un incontro istituzionale tra sindacati, governo e INPS, primo di una serie di appuntamenti – già calendarizzati a febbraio e marzo – finalizzati ad elaborare una nuova riforma delle pensioni. Ad oggi, al netto di casi particolari come “Opzione donna”, le pensioni di inabilità e la residuale pensione di anzianità (riservata a coloro che, al 31 dicembre 2011, potevano far valere determinati requisiti anagrafici e contributivi), sono previste tre modalità di pensionamento per la maggior parte dei lavoratori dipendenti: quota 100, la pensione di vecchiaia e la cosiddetta pensione anticipata.
♦ Con ‘Quota 100′, in via sperimentale fino alla fine del 2021, è possibile accedere al pensionamento con almeno 62 anni di età e 38 di contributi.
♦ Quanto alla pensione di vecchiaia, è necessario distinguere tra chi aveva già anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 e chi ha iniziato a versare i contributi dopo tale data. Quanto ai primi, essi possono accedere alla pensione di vecchiaia se hanno almeno 67 anni di età (da adeguare agli incrementi della speranza di vita) e 20 di contributi. Quanto ai secondi, essi, oltre ai requisiti che abbiamo appena elencato, devono aver maturato un montante contributivo tale da far sì che l’importo della prima rata di pensione sia non inferiore a circa 687 euro (pari all’assegno sociale moltiplicato per 1,5). Infine, sempre per quel che riguarda i lavoratori dipendenti che hanno iniziato a versare a decorrere dal 1° gennaio 1996, è possibile andare in pensione con 70 anni di età e con almeno 5 anni di contribuzione effettiva (al netto, cioè, dei contributi figurativi, quelli non derivanti da attività lavorativa).
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Sardine, Iowa, Cina, 5stelle
di Fulvio Grimaldi
Piccoli odiatori ittici suicidati con il concorso di Benetton e Toscani, grandi odiatori "progressisti" e i loro assalti al voto in Iowa, alla Cina, ai 5stelle, alla legge uguale per tutti
USA: onta del partito dell’odio, caro agli odiatori nostrani
Trump, il più odiato dagli odiatori seriali. Nelle primarie Democratiche dello Iowa ennesima vittoria di Trump, a dispetto dei tanti ricatti accettati e subiti, sul duo Deep State-Partito Democratico delle guerre al mondo, del Russiagate sgonfiato e dell’impeachment fallito. Ora il presidente, vincitore tra i repubblicani con oltre il 90%, appare lanciato, dai successi economici e dall’occupazione mai così alta, verso il secondo mandato. Una presidenza che si spera più aderente alle promesse di distensione e multilateralismo che avevano portato alla disfatta di Hillary, la gorgone venerata dal “manifesto”.
La campagna del 2016, fu condotta dalla cosca Obama-Clinton con una pletora di metodi sporchi contro il più o meno sinistro Bernie Sanders, prima ancora che contro il pronosticato sconfitto Trump (per il quale fu inventata la grottesca balla dell’intervento russo). Con il nuovo sabotaggio di Sanders da parte del solito Comitato Nazionale Democratico, per eliminare un concorrente sgradito al sistema plutocratico e guerrafondaio, i democratici sono ricorsi a trucchi scandalosi, screditandosi davanti ai loro elettori e facendo ridere il mondo intero. Un risultato che aveva subito visto vincere Sanders (poi confermato per numero di voti) è stato oscurato per giorni di traccheggiamenti e, poi, attraverso l’imbroglio di una app fornita da un miliardario sostenitore del Partito Democratico, Reid Hoffman, stravolto a favore dell’outsider di Sistema, Pete Buttigieg, per supposta prevalenza di delegati.
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In ricordo di Sebastiano Timpanaro
Intervista a Luca Baranelli
Con la partecipazione di Fiamma Bianchi Bandinelli
Nel novembre 2000 moriva Sebastiano Timpanaro jr, uno dei massimi protagonisti del dibattito culturale e politico del dopoguerra. Filologo e latinista di fama mondiale, uomo schivo e appartato, insegnante in scuole medie e professionali e poi, per tantissimi anni, “correttore di bozze” com’egli amava definirsi, marxista e materialista, militante del Psi e poi del Psiup con simpatie per Trotsky, intellettuale attentissimo e appassionato alle vicende politiche e culturali italiane e internazionali, autore di testi sul materialismo, lo strutturalismo, la psicoanalisi, accolti dal silenzio degli specialisti eppur fondamentali, studioso massimo del Leopardi.
Per ricordarlo pubblichiamo una intervista rilasciata da Luca Baranelli per la rivista “una città” nel 2001 alla cui conversazione ha partecipato anche la rimpianta Fiamma Bianchi Bandinelli.
Luca Baranelli è stato un esponente del movimento della nuova sinistra e ha collaborato con il gruppo di Quaderni rossi. Ha fatto parte successivamente anche della direzione della rivista Quaderni piacentini diventando poi redattore a Torino delle case editrici Einaudi e Loescher.
* * * *
Tu sei stato amico di Sebastiano Timpanaro. Un aspetto che impressiona è constatare quanto egli sia stato importante per tantissimi intellettuali e militanti della sinistra e quanto poco fosse invece conosciuto. Ce ne puoi parlare?
Provo a dire perché è stato importante per me, anche se non bisognerebbe partire da sé per parlare di una persona del suo livello intellettuale, culturale e morale. In queste settimane, dopo la sua morte, ripensavo a quando l’ho conosciuto: poteva essere il ’59 o il ’60. Sapevo chi era, perché mio padre, un pittore nato nel 1895, aveva conosciuto il padre di Timpanaro, amico di tanti artisti, e conosceva il figlio.
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L’istante della rivoluzione: per Walter Benjamin
di Dario Gentili
Da qualche giorno è in libreria la riedizione di "Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin" (Quodlibet), testo nel quale Dario Gentili ripercorre il significato fondamentale delle Tesi e lo sfondo politico e filosofico entro cui esse si stagliano. Ringraziamo l'autore e l'editore per averci gentilmente concesso di ripubblicare il IX capitolo del libro
La nona è la famosa tesi incentrata sulla figura dell’Angelus Novus; essa trae ispirazione da un acquerello di Paul Klee acquistato da Benjamin nel 1921. Sicuramente è la tesi più nota di Über den Begriff der Geschichte, citata ed evocata ovunque nel mondo negli ambiti più disparati. Effettivamente essa occupa una posizione centrale sia semplicemente come numero sia, soprattutto, per una sorta di mutamento di prospettiva che rappresenta. L’angelo della storia, infatti, è descritto in equilibrio precario tra passato e futuro e, tornando alla tesi precedente, nell’attimo stesso della decisione tra la catastrofe e la redenzione: rappresenta quel presente in cui si decide la storia, il metodo da privilegiare e la direzione, in bilico tra progresso e regresso del senso storico. Inoltre, nell’economia stessa dell’opera, la IX tesi segna, dopo che nelle tesi precedenti si è evidenziato come lo storico materialista deve considerare il passato, lo spostamento dell’attenzione sulla concezione del futuro che il materialismo storico deve far propria. Che naturalmente non si tratti di una svolta particolarmente evidente, tanto che nell’analisi delle tesi precedenti si è dovuto far spesso ricorso alla nozione di futuro trattando della redenzione del passato, deriva proprio dal rifiuto benjaminiano della concezione di una temporalità lineare, secondo cui passato e futuro occupano due estremi opposti. La IX tesi può essere considerata, piuttosto che un passaggio secondo un tracciato lineare da una prima a una seconda parte, come l’istante (Augenblick) della decisione presente in cui sono concentrati passato e futuro. Il non decidere comporta l’essere travolti dalla bufera del progresso che, trascinando l’angelo verso il futuro, distende il tempo nella scansione lineare di passato, presente e futuro. Per Benjamin, l’esser trascinati dalla bufera del progresso non è l’inesorabile necessità a cui la storia non può sottrarsi, ma la colpa a cui si condanna quella storia incapace di decidere nell’istante (Augenblick) in cui presente, passato e futuro coincidono.
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La cosa e il segno. Su linguaggio, ontologia e Destino*
Davide Grossi intervista Emanuele Severino
Abstract: In this interview we asked Professor Severino, one of the major contemporary Italian philosophers, to investigate aspects of his research regarding the relationship between ontology and philosophy of language. From his theoretical point of view we have investigated some of the central themes of the philosophical speculation suche as the nature of will, the structure of identity and the matter of what is the truth
Introduzione
Emanuele Severino (Brescia, 1929), allievo di Gustavo Bontadini, è uno dei più importanti filosofi del nostro tempo. Accademico dei Lincei, insegna all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Tra di esse ricordiamo La struttura originaria (1958), Studi di filosofia della prassi 1963), Essenza del nichilismo (1972), Destino della necessità. Katà to chreòn (1980), Il giogo (1989), Oltre il linguaggio (1992), Tautótēs (1995), La gloria (2001), Oltrepassare (2007), La morte e la terra (2011), Intorno al senso del nulla (2013).
* * * *
Buongiorno Professore, Le siamo grati di averci concesso questa intervista. Per noi è un onore avere la possibilità di porgerLe alcune domande relative al rapporto tra linguaggio, ontologia e Destino.
A proposito del contenuto dei Suoi scritti Lei utilizza l’espressione “testimonianza” allo scopo di indicare ciò che non è il prodotto di una volontà o il contenuto di una coscienza. Tuttavia anche la testimonianza è una volontà. In che modo la volontà della testimonianza, pur essendo avvolta dalla fede - dalla volontà di dire e quindi dall’errare -, riesce ad indicare quell’assolutamente altro dall’errore che è il Destino? La verità non può non apparire, perché fintanto che qualcosa appare, appare la sintassi del Destino; ma il modo in cui appare il Destino alla testimonianza è diverso o no dal modo col quale esso appare alla non testimonianza?
Severino: Dunque la domanda contiene molti temi. Cominciamo a dire che il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto, ovunque ci sia una presenza del mondo laddove intendendo per presenza del mondo non esclusivamente quel che si costituisce solo all’interno di quegli enti che chiamiamo “uomini” o di quell’insieme di enti che chiamiamo “prossimi”.
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Il valore nel PIL
di Michael Roberts
Alla recente conferenza ASSA 2020 si è tenuta una sessione per stabilire se il prodotto interno lordo (PIL), l'onnipresente misura della produzione nazionale, fosse adeguato come indicatore del "benessere o benessere sociale". Sono state avanzate varie proposte per tentare di misurare il benessere sociale, tra cui "dashboard"1 di indicatori economici e sociali, nonché approcci più esplicitamente legati alla teoria economica. Il Bureau of Economic Analysis (BEA) degli Stati Uniti ha avviato una discussione in ASSA per esaminare i pro e i contro di approcci alternativi.
Il prodotto interno lordo (PIL) è la classica misura principale del livello di produzione di un paese e persino della prosperità. È una misura monetaria del valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti in un determinato periodo di tempo. La misura risale agli albori dell'economia politica classica, con William Petty che sviluppò il concetto di base nel 17 ° secolo. Il concetto moderno è stato sviluppato per la prima volta da Simon Kuznets nel 1934 per misurare la produzione nazionale degli Stati Uniti.
Esistono tre modi per misurare il PIL. Il primo è l'approccio produttivo, che riassume i prodotti di ogni impresa. Il secondo è l'approccio della spesa che riassume tutti gli acquisti effettuati; il terzo è l'approccio del reddito che riassume tutti i redditi percepiti dai produttori.
Questi tre approcci diversi corrispondono sostanzialmente alle tre principali scuole di pensiero economico. L'approccio produttivo ha un'affinità con la scuola neoclassica, che considera la produzione nazionale come la somma di tutta la produzione dei micro-agenti. L'approccio della spesa è stato adottato dalla scuola keynesiana, che considera investimenti, consumi e risparmi a "livello macro" per misurare la "domanda effettiva".
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Dei movimenti di branco: sardine
di Alessandro Visalli
Alcune settimane fa, il 19 novembre, avevo provato una riflessione a caldo[1] sul fenomeno delle Sardine del quale veniva riconosciuto il carattere politico, in quanto orientato ad un nemico. Quando si sceglie di attribuire ad un movimento il carattere politico per il fatto, capitale, che individua un “nemico” giova in genere riferirsi al capitale articolo di Carl Schmitt del 1932[2]. In esso l’autore cerca una specificità del “politico” che sia distinta dall’azione come dal pensiero. Ovvero da ciò che si lascia decidere in base all’essere utile o dannoso (ovvero nel campo dell’economico), buono o cattivo (nel campo della morale), bello o brutto (dell’estetica). È una distinzione eminentemente ‘politica’, dunque, quella che non afferma la cattiveria, la bruttezza o la dannosità, ma designa gli amici (freund) e i nemici (feind). Una distinzione, meramente concettuale, che si fonda su un “criterio, [ovvero] non una definizione esaustiva o una spiegazione di contenuto”, che ha a che fare con ciò che appartiene, ciò che unisce, non necessariamente con ciò che si distingue per il grado dell’utile, bontà o bellezza. Un concetto questo che è catturato da frasi come “è un bastardo, ma è il nostro bastardo”, detto, ad esempio di un dittatore sudamericano (frase attribuita al Presidente Roosevelt e riferita a Somoza)[3].
Coglie questo punto Moreno Pasquinelli in un articolo dal titolo espressivo “Sardine: tra Kant e Schmitt”[4], su Sollevazione. Il movimento è letto come interprete di una vasta area che unisce un sentimento progressista di ispirazione globalista (anche designato come “neoliberismo progressista”[5]) e un sottostante, e sotto alcuni profili contrastante, umanitarismo di marca cattolica. Materiali eterogenei ma sedimentati, che sono coaugulati da una inimicizia. Quindi una estraneità, quella verso il plebeismo ostentato di Salvini.
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Perché il Partito Laburista ha subito questa sconfitta elettorale?
di Víctor Taibo
Le circostanze oggettive per una vittoria di Corbyn sono state presenti negli ultimi quattro anni, ma gli errori politici si pagano, ed a volte sono molto costosi
Le elezioni in Gran Bretagna hanno stabilito un’impattante vittoria di Boris Johnson e del Partito Conservatore. Con 13.966.565 voti, il 43,6%, i Tory hanno raggiunto una comoda maggioranza assoluta di 365 deputati, ottenendo 47 nuovi scranni rispetto alle elezioni del 2017. Nonostante il fatto che l’incremento di consenso sia stato abbastanza limitato, di solo 329.881 voti (l’1,2%), la notizia del forte arretramento del Partito Laburista capeggiato da Jeremy Corbyn ha sconvolto le fila della sinistra, di ampi settori della classe operaia e della gioventù britannica, e di attivisti in tutto il mondo.
Capire cosa è successo è un compito primario per preparare le future battaglie di lotta di classe che, inevitabilmente, scoppieranno con forza sotto il mandato di questo sciovinista reazionario. E questo esige, senza dubbio, un serio esame delle cause di questa sconfitta, non solo per rispondere alle menzogne della classe dominante e dei suoi mezzi di comunicazione – infangati fino al collo in una campagna di falsificazioni e calunnie contro il candidato laburista -, ma anche per non cadere in spiegazioni superficiali che cercano di nascondere le responsabilità di Corbyn, dei dirigenti di Momentum e dei vertici sindacali in quanto accaduto. Solo traendo lezioni politiche da questi eventi, per amare che siano, si potrà rinforzare e costruire un’alternativa capace di superare l’incubo dei governi Tory.
Campagna di diffamazioni… e qualcosa in più
La chiave di queste elezioni è stata l'emorragia di voti subita da Corbyn, che rispetto alle elezioni del 2017 ne ha persi 2.582.853, scendendo dal 40% al 32,2%. I mezzi di comunicazione borghesi hanno mentito in maniera lampante, presentando questo risultato come il peggiore dal 1935, ma in realtà Corbyn ha raccolto oltre 10 milioni di voti, più di quelli che prese Blair nella sua ultima vittoria elettorale del 2005, e molto più del 29% raggiunto da Gordon Brown nel 2010.
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Tesi sull’Italia e il socialismo per il XXI secolo
a cura di Nuova Direzione
Documento finale approvato dall’Assemblea Nazionale di Nuova Direzione
1. Contro la mondializzazione
L’esposizione senza protezioni all’uso capitalistico della rivoluzione tecnologica e alla globalizzazione finanziaria sono fondamentali fattori distruttivi nel mondo contemporaneo. L’interconnessione non è un valore in sé. In assenza della capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e degli ordinamenti istituzionali differenti ciò che resta è semplicemente competizione rivolta ad instaurare rapporti di dominazione. La modernità capitalistica, dissolvendo sistematicamente tutte le barriere, non produce autodeterminazione né emancipazione, ma dipendenza e servitù (talvolta coattiva, talaltra servitù ‘volontaria’, come nel caso italiano). Capitalismo è l’asservimento di ogni funzione sociale e antropologica al fine della riproduzione e accrescimento del capitale, mercificando ogni relazione, quali che siano le conseguenze.
La cosiddetta ‘finanziarizzazione dell’economia’ rende esplicito questo aspetto, in quanto indebolisce le componenti fisse, territoriali, della produzione, rendendo più facili gli spostamenti di capitale e con ciò il potere di ricatto dello stesso. I mercati finanziari (azionario, obbligazionario e monetario) appaiono come il motore centrale dell'accumulazione, indebolendo il potere contrattuale del lavoro, che viene marginalizzato. Fusioni, acquisizioni, outsourcing, riacquisti azionari, precarizzazioni, cartolarizzazioni, piramidi di controllo, elusione fiscale, sono fenomeni connessi che abbiamo sotto gli occhi costantemente. Il gigantismo dell’apparato finanziario, lungi dall'aiutare l'economia reale, sottrae risorse attraverso interessi e provvigioni, aumenta la concorrenza internazionale e alimenta la mobilità del capitale industriale.
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Cambia il mondo, dopo la Brexit
di Guido Salerno Aletta
Viviamo in un paese di ciechi, e i media ne sono i primi responsabili. Come nelle peggiori dittature fasciste, le notizie che smentiscono la “narrazione” dominante non esistono. E quando pure sono costretti a darle, devono essere sminuite e depotenziate nelle loro implicazioni destabilizzanti.Cambia il mondo, dopo la Brexit di Dante Barontini - Guido Salerno Aletta
Questo fenomeno è facile da vedere nel caso dei movimenti sociali e politici, ma è ancora più ferreo – se possibile – con i fenomeni economi, politici e internazionali che svuotano ciò che resta del “pensiero unico della globalizzazione”, incrinato definitivamente dalla crisi iniziata nel 2007-2008.
La Brexit, per esempio, è stata affrontata ridicolizzando uno dopo l’altro i leader britannici fautori dell’uscita dalla Ue. Compito facile, in effetti, con gente come Farage e Boris Johnson, un po’ meno con Theresa May; ma comunque molto al di sotto della semplice necessità di capire le implicazioni della Brexit.
Il solo fatto che dopo 70 anni un paese di prima fila rompa il patto originario, cui aveva aderito sempre con molte riserve, avrebbe dovuto far capire che un’era volge al tramonto. Si è preferito negarlo e minacciare – in forma di “previsioni autorevoli” sui giornali, molto più direttamente nelle sedi istituzionali – sfracelli economici dopo questa dolorosa “rottura”.
Ciò che sta morendo, lo diciamo da qualche anno ormai, è la fase storica della cosiddetta “globalizzazione”. Quella situazione per cui le “dinamiche di mercato” prevalgono e si impongono a tutte le altre formazioni istituzionali (Stati, governi, alleanze regionali, ecc), il che implicava anche un rovesciamento forte di dominanza della sfera economica – costitutivamente internazionale, perché globali, sulla sfera politica.
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Qualcuno era comunista
di Emanuele Bellintani
Il Pd medita di cambiare nome. Una specie di riedizione della «svolta della Bolognina» che trent'anni fa portò allo scioglimento del Pci. Ma il partito di Zingaretti non c'entra più nulla con quella storia, così come l'Emilia di Bonaccini
«Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista / Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista».
L’ultimo grido disperato di Enrico Berlinguer – simbolo di un tempo ormai passato – sostituì la lotta di classe con un moralismo di sinistra, preannunciando la fine: conosceva la corruzione del sistema politico italiano e ancora di più aveva sotto gli occhi la trasformazione del suo partito in un immenso blocco di potere. Nelle alte sfere del partito già da anni si dibatteva sull’opportunità di «andare oltre» il Pci, sempre più incalzato dall’onda lunga del Psi di Bettino Craxi. In questo quadro, l’eurocomunismo, la «diversità» italiana e l’allontanamento dai Paesi dell’est erano tutte formule retoriche per conservare capre, cavoli e consenso.
Al primo colpo di piccone sul Muro di Berlino, l’Unità diretta da Massimo D’Alema era già pronta a titolare in favore della libertà e del «giorno più bello per l’Europa». Il 12 novembre il segretario del Pci Achille Occhetto, durante la commemorazione per l’eroica battaglia partigiana di Porta Lame, dichiarò di «non voler continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso»; tra le righe si leggevano nitidamente il cambio del nome, di simbolo, di teoria politica, l’avvicinamento al Psi di Craxi. Nove milioni e seicentomila elettori, e un milione e quattrocentomila iscritti al partito vennero traumatizzati dall’annuncio del «Papa rosso» che dichiarava finita la religione in cui avevano creduto per decenni e rivelava la riorganizzazione della «chiesa».
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Vladimir Lenin, “Tesi sulle questioni nazionali e coloniali”
di Alessandro Visalli
Il secondo Congresso della III Internazionale, che si svolge dal 19 luglio al 7 agosto 1920, tra Pietrogrado e Mosca, affronta al punto 8 la questione coloniale, che nel seguito delle vicende del comunismo internazionale si rivela decisiva.
Nel primo abbozzo delle tesi, Lenin scrive un breve ed intenso testo[1], che viene studiato da un giovane ed entusiasta militante vietnamita, Nguyen ai Quoc (ovvero Ngiuen il patriota, poi noto come “portatore di luce”, Ho Chi Minh). Come racconta nel 1960, “le tesi di Lenin destarono in me grande commozione, un grande entusiasmo, una grande fede, e mi aiutavano a vedere chiaramente i problemi”. Il punto cui giunge è che “solo il socialismo, solo il comunismo può liberare dalla schiavitù sia i popoli oppressi che i lavoratori di tutto il mondo. Compresi come il vero patriottismo e l’internazionalismo proletario siano inestricabilmente legati tra di loro”[2].
La bozza di Lenin si compone di dodici tesi:
1- “Una posa astratta o formale del problema dell'uguaglianza in generale e dell'uguaglianza nazionale in particolare è nella natura stessa della democrazia borghese. Sotto la maschera dell'uguaglianza dell'individuo in generale, la democrazia borghese proclama l'uguaglianza formale o legale del proprietario e del proletario, dello sfruttatore e degli sfruttati, ingannando così gravemente le classi oppresse. Sul presupposto che tutti gli uomini sono assolutamente uguali, la borghesia sta trasformando l'idea di uguaglianza, che è essa stessa un riflesso delle relazioni nella produzione di merci, in un'arma nella sua lotta contro l'abolizione delle classi. Il vero significato della domanda di uguaglianza consiste nel fatto che è una richiesta di abolizione delle classi”.
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Cina. La crisi del Coronavirus: un nuovo capitolo della “guerra dei dazi”
di Francesco Spataro
La notizia per cui un gruppo di ricercatori (soprattutto donne) dell’ospedale romano Spallanzani ha isolato il virus dovrebbe aprire un periodo di minore follia collettiva, consapevolmente o no “pompato” dai media occidentali.
In attesa che ciò avvenga – ma con quel che c’è scritto in questo articolo non c’è da sperarci molto – invitiamo i nostri lettori a tener presente che lo Spallanzani è un ospedale pubblico. E dunque che, invece di mollare ai privati certe perle che provvederebbero a smontare in pochissimo tempo, c’è da riflettere molto sulla forza della “nostra” sanità pubblica.
Nonostante le forbici pluriennali delle Lorenzin e dei Zaia, Formigoni, Zingaretti, Bonaccini, Toti, De Luca.
P..s. E invece lo Spallanzani ha ricevuto lo scorso anno un finanziamento pubblico di appena 3.5 milioni di euro, meno di una “minchiata” destinata ad una qualsiasi “impresa” fasulla con i fondi europei.
* * * *
“Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia.
Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità,
condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla
potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro;
un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva.
La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più;
e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla…”
Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”.
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Il Piano del Secolo
di Francesco Cappello
Nel Nuovo Secolo Americano la Soluzione finale: il Piano del Secolo
Martedì scorso Trump ha annunciato un piano di pace, il Piano del Secolo, a soluzione del conflitto israelo-palestinese, redatto unilateralmente da Usa e Israele e promosso da Trump in completo accordo con Netanyahu.
Più che un piano di pace, una provocazione, tesa a legittimare lo stato di schiavitù permanente del popolo palestinese. Provocazione rimandata al mittente dalla maggioranza dei paesi della Lega araba e dall’Autorità palestinese, del tutto esclusi dalla partecipazione alla sua redazione.
Anche le Nazioni Unite hanno respinto il piano. Esso infatti ignora le più elementari norme del diritto internazionale nonché le decine di risoluzioni che l’ONU ha prodotto nel corso del tempo intorno al conflitto israelo-palestinese. Come si sa l’ONU ha, infatti, riproposto a più riprese la soluzione del conflitto, basata su due Stati – Israele e Palestina – pienamente sovrani all’interno delle frontiere riconosciute pre-1967, soluzione che Trump scavalca a piè pari con la sua soluzione a due stati che ignora i confini del 1967 e che prevede Gerusalemme sotto la piena sovranità israeliana quale capitale «indivisibile» dello stato israeliano, esito peraltro prevedibile da quando Trump ha recentemente deciso di trasferirvi la propria ambasciata.
Netanyahu ha significativamente dichiarato a commento del piano che fin quando lui sarà al potere “i palestinesi non avranno mai uno stato“.
In sostanza al popolo palestinese vengono ora ufficialmente negati autodeterminazione e sovranità sul proprio territorio. La Convenzione di Montevideo, definita sin dal 1933, stabiliva, infatti, che gli stati sono unità sovrane con confini definiti, costituite da una popolazione e un proprio governo; la sovranità sul proprio territorio è, perciò, espressa dal popolo insieme alla possibilità di stipulare accordi in piena autonomia con altri stati.
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Quello che Marx non ha visto
Paola Rudan intervista Silvia Federici
La versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 30 gennaio 2020
In occasione dell’uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (Roma, DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. Risalta il rapporto conflittuale di Federici con il pensiero di Marx, che considera tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per lei la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne – indigene, migranti, proletarie – sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
* * * *
Ti chiederei in primo luogo di dirci che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che in realtà è stato evidentemente centrale sin dai tuoi contributi alla lotta per il salario contro il lavoro domestico ma che oggi mi sembra essere più aspro e polemico di quanto non sia stato allora.
Credo di capire perché si presenta come un rapporto più aspro e penso che ci siano due motivazioni. Una, più immediata, è relativa alla necessità di una critica più intensa anche in risposta all’ondata di celebrazioni che si sono fatte – ho partecipato a molte conferenze, a molti dibattiti – in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. C’era il bisogno celebrare, ma anche di domandarsi in che modo fosse necessario andare oltre. Ma la seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica si concentrava soprattutto sul fatto che Marx non ha visto tutta l’area della riproduzione e quindi il lavoro delle donne, e anche se questa tematica rimane, ho compreso negli anni ‒ o comunque argomentato ‒ che questa sottovalutazione del processo della riproduzione è collegata anche a un limite più profondo del pensiero di Marx con cui ci si deve confrontare.
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Previdenza complementare e pensioni da fame
Guardare il dito e ignorare la luna
di coniarerivolta
Siamo nel bel mezzo di un rinnovato dibattito sulle pensioni. Complice l’imminente fine della “sperimentazione” di quota 100 (che, ricordiamo, era prevista per il triennio 2019-2021) e del manifestarsi del cosiddetto “scalone”, si torna a parlare di come riformare il sistema pensionistico. Nelle settimane scorse, sulle pagine de “Il Foglio” si è sviluppato un dibattito circa la previdenza complementare. La discussione trae origine da due recenti proposte: da un lato, quella avanzata dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di istituire un fondo pensione complementare gestito dall’Inps, volontario e a capitalizzazione; dall’altro, quella rilanciata da Massimo Mucchetti, giornalista ed ex senatore del PD, di istituire un fondo pensione complementare pubblico, sempre a contribuzione volontaria e gestito dall’Inps, ma a ripartizione.
Come si vedrà, nessuna di queste proposte è rivoluzionaria. I problemi del sistema pensionistico italiano, che difficilmente possono essere risolti con forme di previdenza complementare, sono ben più profondi e ben diversi da quelli normalmente indicati dai “tecnici”, che suggeriscono riforme sempre più draconiane. Senza politiche finalizzate alla piena occupazione e ad un aumento significativo dei salari sul mercato del lavoro, il problema del nostro sistema pensionistico è destinato ad acuirsi di fronte al progressivo invecchiamento demografico. Il dibattito menzionato, tuttavia, è interessante perché ci permette di evidenziare gli interessi che si muovono intorno alla ghiotta torta del risparmio dei lavoratori. Ma andiamo, come al solito, con ordine.
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Complesso militare industriale, ambizioni europee, crisi della Nato
di Redazione Contropiano
Sintesi di alcune delle relazioni e contributi al convegno di Napoli sul complesso militare industriale europeo
La complessa costruzione del complesso militare industriale europeo (Walter Lorenzi)
(…) Riteniamo che tutti questi stadi di sviluppo siano stati raggiunti da tempo dal capitalismo europeo, ovviamente in forme asimmetriche, riproducendo a livello continentale centri e periferie in funzione della massimizzazione dei profitti dei cosiddetti “campioni” europei.
Ad esso manca, per essere valorizzato al massimo nel conflitto con le altre potenze, un complesso militare/industriale adeguato al livello di sviluppo delle proprie forze produttive e finanziarie.
Da tempo, la Commissione Europea (CE) sottolinea le inefficienze e la frammentazione del settore militare. Il confronto con gli stati uniti salta agli occhi. L’Europa conta 178 sistemi di armamenti (rispetto a 30 negli USA), 17 tipi di carri armati (uno statunitense), 29 tipi di fregate e di cacciatorpediniere (4 USA), e 20 tipi di caccia (rispetto ai sei delle forze armate americane). Gli investimenti nella difesa dei paesi europei rappresentano l’1,34% del prodotto interno lordo, mentre gli usa arrivano al 3,2% del PIL.
Vediamo allora come la UE sta cercando di risolvere questo gap, per rispondere ad un’esigenza non rinviabile, alla luce dell’aumento esponenziale dei fronti di guerra ai propri confini e a livello planetario.
Il 13 giugno 2018 la CE ha presentato le sue proposte finanziarie nel campo della difesa e della sicurezza per il prossimo bilancio comunitario 2021-2027. Il nuovo fondo europeo per la difesa (EDF), avrà una dotazione settennale di 13 miliardi di euro, che significa un considerevole aumento di spesa rispetto 2,8 miliardi del precedente. Il fondo riserverà 4,1 miliardi per finanziare progetti di ricerca. Altri 8,9 miliardi andranno a co-finanziare il costo di prototipi, a cui si aggiungono circa 6,5 miliardi per adeguare le infrastrutture europee al transito di assetti militari (military mobility).
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Storia e libertà
di Salvatore Bravo
Ripensare la storia con Gramsci ed a partire da Gramsci (Ales, 22 gennaio1891 – Roma, 27 aprile1937) è un atto di libertà e resistenza, poiché Gramsci vive la storia come il luogo ed il tempo nel quale l’essere umano si umanizza mediante la prassi e la trasformazione comunitaria delle condizioni storiche date. Gramsci resta fedele al suo destino, alla sua formazione hegelo-marxiana per cui la storia non è fatalmente iscritta secondo leggi scientifiche, ma in essa opera il possibile storico, ovvero gli esseri umani possono cambiare la storia nelle circostanze e nelle potenzialità del periodo storico vissuto. La responsabilità storica implica la consapevolezza che l’azione storica necessita della partecipazione e della passione durevoli, in quanto le variabili storiche, le opposizioni, le resistenze reazionarie possono riemergere in qualsiasi momento all’interno del moto rivoluzionario ed all’esterno. La storia umanizza, poiché il soggetto della storia, l’umanità, impara nell’organizzazione di partito ed ideologica a mediare le circostanze con il progetto ideologico. Non vi sono leggi o divinità che presuppongono i fini della storia, ma sono gli esseri umani con la lucida analisi partecipata ed organizzata ad essere il moto della storia. Contro l’utopia Gramsci propone ed oppone la responsabilità dei sottomessi, dei sudditi, che si vorrebbe tali per destino e per sempre. Si è sudditi anche nell’utopia liberatrice che ingabbia la storia in schemi prestabiliti, in quanto si sostituisce al feticismo delle merci il feticismo dei fini. La libertà emancipatrice è nell’atto di porre la storia, nella decisione collettiva capace di dinamizzare le potenzialità e le contraddizioni storiche per mettersi in cammino verso fini stabiliti dalla collettività all’interno di una lettura condivisa del presente e con la chiarezza del modello socio-economico verso cui dirigersi1:
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Craxi, il capitalismo italiano e l’elitarismo laico
di Italo Nobile
Bettino Craxi era figlio di un antifascista militante, ma, per i pericoli che avrebbe potuto correre proprio per questo, da piccolo fu affidato ad un collegio cattolico ed anche successivamente, per altre ragioni, entrò in un collegio privato e fu ad un passo dall’intraprendere il percorso sacerdotale[1]. Questa dimensione claustrale e religiosa, motivata però dagli ideali della lotta antifascista, segnano già l’ambiguità di una storia politica che parlava di grandi ideali liberal-socialisti ma si consumava nel chiuso dei meccanismi delle vicende partitiche che alla fine avrebbero contribuito a stritolarlo.
Craxi fu infatti uomo di partito, sia pur capace di slanci garibaldini (Garibaldi fu almeno a parole il suo eroe[2]) soprattutto in politica estera (in Cile e a Sigonella), e crebbe come giovane uomo di partito allo stesso modo di suoi autorevoli colleghi (Enrico Berlinguer ed Aldo Moro in primis): vicepresidente nazionale dell’Unuri (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), membro del Comitato Provinciale del Psi, dirigente della federazione giovanile socialista, consigliere comunale a Sant’Angelo Lodigiano, membro del Comitato Centrale del Psi, membro del Consiglio nazionale dell’Unione Goliardica Italiana, responsabile di organizzazione del Psi a Sesto San Giovanni, Consigliere comunale a Milano, Assessore all’Economato, Segretario provinciale milanese del Psi, assessore alla Beneficenza e Assistenza, Segretario Provinciale del Psu milanese, Deputato, Vicesegretario nazionale del Psi, rappresentante del Psi presso l’Internazionale socialista, Segretario del Psi, Europarlamentare, Presidente del Consiglio, Vicepresidente dell’Internazionale socialista. Insomma non fu sacerdote, ma divenne una sorta di cardinale laico purnon riuscendo a diventare Papa, anche se fu quasi schiaffeggiato come Bonifacio VIII da una sorta di tumulto popolare all’uscita dell’Hotel Raphael il 30 Aprile 1993[3], in piena Tangentopoli.
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Neoliberismo progressista e populismo reazionario… fra la via Emilia e il West
di Militant
I risultati delle recenti elezioni regionali, soprattutto quelle emiliane, ci consegnano alcune indicazioni su cui vale la pena tornare a riflettere provando ad andare oltre il miope sospiro di sollievo di una “sinistra” talmente disastrata che, di fronte alla prospettiva della “brace”, arriva a salutare con malcelata gioia perfino il possibile ritorno della “padella”. Iniziamo però con l’analizzare chi ha vinto e chi ha perso, almeno dal nostro punto di vista.
Anche se la stampa si è comprensibilmente concentrata sulla débâcle di Matteo Salvini, chi esce davvero sconfitto da questa tornata elettorale è però il Movimento 5 Stelle, che ha ormai perso, probabilmente in maniera definitiva ed irrecuperabile, ogni sua residua ragion d’essere politica e sociale. È sempre rischioso provare ad essere categorici quando si parla di politique politicienne, soprattutto in un paese in cui il trasformismo è quasi un tratto antropologico, anche perché si è trattato comunque di elezioni amministrative che hanno coinvolto solo un’esigua parte del corpo elettorale. Eppure la sensazione è che il movimento fondato da Grillo sia ormai costretto all’angolo, un po’ per l’oggettiva impossibilità di dare seguito, anche solo in parte, alle aspettative che aveva suscitato, un po’ per la serie infinita di harakiri politici inanellata dal suo gruppo dirigente. Si trova insomma in quella condizione che i politologi definiscono lose-lose, destinato cioè a perdere in ogni caso, qualsiasi cosa faccia, sia che decida di entrare stabilmente nel campo del centrosinistra sia che decida di andare avanti da solo. I grillini sono di fatto passati, nel giro di un’estate, dall’essere una forza “antisistema”, o almeno percepita come tale, al rappresentare una forza della stabilizzazione euroliberista ed ora pagano inevitabilmente pegno. I dati elettorali, da questo punto di vista, sono davvero inclementi.
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Storia italiana dall’Unità a oggi
di Giorgio Riolo
Splendori e miserie della realtà italiana. A partire dal libro di Massimo L. Salvadori sulla storia italiana dall’Unità a oggi
È questa un’opera di sintesi per un argomento molto importante. Il bagaglio culturale minimo di un cittadino-una cittadina consapevole e attiva nella vita quotidiana richiede un minimo di coscienza storica e un minimo di conoscenza del corso storico. Questo in generale per la storia globale-mondiale. Ma ancor più per la storia del proprio paese. E ulteriormente se si vuole essere attivi nella società civile, nei movimenti, nel mondo culturale e nel complicato mondo politico italiano.
Quando un tempo in Italia, soprattutto a sinistra, esisteva la selezione dei gruppi dirigenti, compresi i quadri intermedi, si procedeva alla formazione di detti gruppi e di detti quadri. In questa formazione, un corso specifico sulla storia d’Italia dall’Unità a quel presente era tra le prime cose che si organizzavano. Con maggiore attenzione e approfondimento della storia del secondo dopoguerra, dalla Resistenza e dalla Liberazione alla realtà contemporanea.
Questo libro è pertanto un’occasione importante per rifarsi i fondamentali sulla nostra storia patria. Per capire e avere memoria, ma soprattutto per capire la dinamica contemporanea della realtà italiana.
Il valore di posizione di Salvadori è che in un solo volume ha reso una sintesi equilibrata ed esauriente di un arco storico piuttosto ampio. Con un giusto equilibrio di dati, riferimenti testuali, citazioni e interpretazioni e giudizi da parte dello storico. L’opera classica a cui sempre abbiamo fatto riferimento nel passato era la Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, in 11 volumi presso Feltrinelli (vedi Bibliografia minima) e che copriva un arco temporale che andava dalla fine del Settecento alla fine degli anni cinquanta del Novecento.
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Oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo
di Carlo Formenti
Intervento all’Assemblea nazionale di Nuova Direzione
I. Sulle sinistre
Se oggi destra e sinistra sono divenute due facce del liberismo, non è perché le sinistre abbiano tradito. Questa evoluzione - certificata dalle ricerche di Thomas Piketty che dimostrano come oggi, negli Stati Uniti e in Europa, le sinistre raccolgano quasi esclusivamente i voti degli strati più elevati in termini di livelli di reddito e di educazione delle classi medie (i cosiddetti ceti medi riflessivi) – è piuttosto l’esito dei radicali processi di trasformazione che le società capitalistiche hanno subito nella fase della finanziarizzazione, globalizzazione e terziarizzazione dell’economia.
A incidere profondamente nell’antropologia degli strati sociali di cui stiamo parlando hanno contribuito, fra gli altri, fattori come i processi di scolarizzazione di massa degli anni Sessanta e Settanta, la terziarizzazione del lavoro, con l’emergenza di nuove professioni nei settori della cosiddetta economia della conoscenza e della net economy, l’immissione di larghe masse di forza lavoro femminile nel processo produttivo, i processi di deindustrializzazione, l’emergenza di valori e bisogni post materiali nelle popolazioni dei Paesi occidentali, lo spostamento dell’attenzione dei movimenti sociali dai temi della ridistribuzione economica ai temi del riconoscimento identitario.
Questi e altri fattori hanno fatto sì che al ricambio generazionale nelle file dei partiti e movimenti di sinistra si sia associato un radicale ricambio di principi e valori: dal solidarismo comunitario all’individualismo, dall’internazionalismo proletario al cosmopolitismo borghese, dall’egualitarismo alla meritocrazia, dalla rivendicazione del primato della politica sull’economia e del pubblico sul privato all’antistatalismo, dal realismo politico al moralismo.
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Baghdad-Roma: pacifisti antiguerra e pacifisti di guerra
Elezioni: zuppa batte pan bagnato
di Fulvio Grimaldi
Elezioni: il punto, anzi il puntino
Archiviamo subito la sempre deprimente questione “elezioni”, per poi passare alle cose serie: pace e guerra, finta la prima, vera la seconda. Sfuggiamo a fatica all’onda anomala dello tsunami orgasmatico del 98% dei media italiani, scatenato dagli esiti giudicati esaltanti da chi padroneggia l’intero sistema di fake news nazionale, simboleggiato dalle 10 pagine della “Repubblica” dedicate ai sette punti di vantaggio di Bonaccini su Borgonzoni, seguite da una pagina sola in cui si nascondono i quasi venti punti di vantaggio del centrodestra in Calabria. Ecchissenefrega, alla Calabria (e molto oltre) ci pensa la ‘ndrangheta.
L’autofagia di Grillo e Di Maio
Quanto ai Cinque Stelle, hanno raccolto quanto hanno seminato Grillo, l’equivoco chierichetto degli orchi piattaformisti di Silicon Valley, il suo ragazzo di bottega Di Maio, il premier all’orecchio della Curia e soci. Hanno raccolto il frutto marcio prodotto dall’inquinamento di Sistema, dalla perdita di alterità, terzietà, rispetto a coloro che dovevano restare l’opposto e il contrario su tutti i piani, internazionale e domestico. Dall’ambiente abbandonato agli ecocidi, ai diritti degli ultimi, penultimi e non primi, dalle servitù in politica estera, all’annacquamento del contrasto all’etnocida operazione migranti del globalista Soros, con le sanguisughe Ong attaccate al bancomat costruito dalle Ong con la pelle degli africani, siriani, afghani. Fino al mancato recupero di una sovranità indispensabile alla democrazia, al riscatto sociale, alla liberazione dal cappio degli eurotiranni. Sulle loro spoglie mortali, ora si erge luminosa la figura di Vito Crimi, uno che suscita lo stesso entusiasmo ed emana lo stesso carisma di una patatina abbandonata dopo il Camparino.
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Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni
di Alessandro Somma
Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.
Il coraggio dei giudici
Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].
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Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Libia
Il Mondo prigioniero della guerra imperialistica permanente
di Giorgio Paolucci
«Il capitalismo è il racket legittimo, organizzato dalla classe dominante»
La definizione qui sopra non è, come si potrebbe pensare, di K. Marx, ma di uno che di racket se ne intendeva: Al Capone[1]. E l’imperialismo -aggiungiamo noi – è la sua espressione più compiuta. La prova più evidente che sia effettivamente così è data dall’infuriare della guerra ormai in ogni un angolo del pianeta, tanto più se ricco di qualche materia prima o perché situato in una posizione di importanza geostrategica come è il caso del Medioriente.
Esso ha la sfortuna di essere terra di mezzo fra Oriente e Occidente e di conservare nel suo sottosuolo grandi giacimenti di petrolio. Le due condizioni dovrebbero assicurare alle popolazioni che lo abitano un elevato grado di benessere socioeconomico come a poche altre al mondo; invece vi regna una barbarie che non conosce limiti. Fatta eccezione per le ristrette fasce delle borghesie locali e dei loro lacchè, a dare un senso alla vita della maggioranza dei suoi abitanti è solo qualche avanzo di speranza di poter assistere al sorgere e al tramonto del sole anche il giorno dopo. O di fuggire in un altrove, ovunque esso sia, purché lontano da quella quotidianità in cui a farla da padrona assoluta è la fame, la violenza più cinica e feroce e la morte sempre appostata dietro ogni angolo.
È che il petrolio non è solo una fonte energetica di primaria importanza, ma anche un efficace strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore.[2]
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