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Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei
di Leonardo Bargigli*
Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche
Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.
Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:
- la ristrutturazione del sistema formativo universitario
- l’accumulazione del capitale su scala europea
- le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche
Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3].
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di Francesco Cappello
Immaginate di salire in cima ai 400 metri delle torri gemelle e da lassù lasciar cadere un blocco di cemento; cadendo sarà frenato in modo trascurabile dalla resistenza dell’aria; immaginate di conteggiare il tempo necessario a che esso raggiunga il suolo. Scoprirete, cronometro alla mano, che la caduta, quasi libera, ha impiegato circa 10 secondi (nell’ipotesi di resistenza zero da parte dell’aria, la meccanica newtoniana ne prevede 9). Ci si rimane male quando si scopre che l’ultimo piano delle torri ha raggiunto il suolo in un tempo di pochissimo superiore a quei 10 secondi. In pratica l’ultimo piano, in seguito al collasso, ha raggiunto il suolo come se ad ostacolarne e rallentarne la caduta non ci fossero stati frapposti oltre 100 piani. In altre parole, la dinamica con cui l’ultimo piano ha raggiunto il suolo è stata praticamente analoga a quella di una caduta nel vuoto!
Eppure tutti abbiamo ancora negli occhi e nel cuore gli incendi, seguiti agli impatti violenti dei Boeing della American Airlines con le torri, la fiammata esplosiva iniziale e il denso fumo nero che dopo poco (circa un’ora) indicava l’esaurimento degli incendi a riprova del fatto che i piani al di sopra e al di sotto di quelli coinvolti da urto e fiamme dovevano necessariamente essere integri. In particolare, è del tutto lecito pensare, che la struttura portante in travi di acciaio temperato (47 piloni), al di sopra e al di sotto dei piani direttamente coinvolti, non interessata dalle fiamme, doveva essere rimasta indenne. Per di più l’acciaio fonde intorno ai 1500 gradi e l’incendio divampato in conseguenza dell’impatto che fece esplodere il kerosene (la benzina degli aerei) a detta dei tecnici può aver raggiunto, se si fosse svolto in condizioni ottimali, una temperatura massima di 800 gradi (1). A riprova, le testimonianze di coloro i quali, trovandosi agli ultimi piani dell’edificio, sono riusciti a salvarsi attraversando i piani direttamente coinvolti dalla collisione.
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Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?
di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*
Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale
1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante
Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.
Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.
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Come l’helicopter money potrebbe rilanciare l'economia italiana
di Enrico Grazzini
BlackRock e il Financial Times suggeriscono l'helicopter money: anche il ministro dell'economia Gualtieri dovrebbe “mettere soldi direttamente nelle tasche degli italiani”
La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, dopo il parziale fallimento del primo Quantitative Easing, ritenta un secondo QE, seppure tra molti contrasti – Germania, Francia e Olanda non vorrebbero questo QE - e parecchie perplessità degli investitori sulla riuscita dell'operazione. Il problema è che con il QE la BCE ha stampato una montagna di moneta solo a favore delle banche (2,6 triliardi) e ha congelato il debito degli stati ma non è riuscito ad aumentare l'inflazione, e soprattutto non ha rilanciato l'economia reale. Le banche dell'eurozona scoppiano di liquidità ma non offrono abbastanza credito a una economia già troppo indebitata. Un mezzo fallimento. Draghi invoca allora un forte aumento degli investimenti pubblici per rilanciare l'eurozona sulla soglia della recessione. Ma è molto difficile che la Germania e i Paesi del nord Europa decidano una forte espansione della spesa pubblica. Così la liquidità monetaria continua a mancare nell'economia reale. La soluzione, come suggeriscono fonti autorevolissime, come BlackRock e il Financial Times, è l'Helicopter Money: con l'HM la BCE dovrebbe offrire soldi direttamente ai cittadini, alle imprese e agli enti pubblici e non più solo alle banche. Il presidente della BCE ha affermato però che “l'ipotesi di Helicopter Money non è stata mai discussa alla Bce” e che l'HM non è necessario. Tuttavia in questo articolo suggerisco che il ministro dell'economia del governo Conte-2 Roberto Gualtieri potrebbe (e dovrebbe) attuare urgentemente l'HM per risollevare l'economia italiana emettendo titoli/moneta per metterli direttamente nelle tasche degli italiani. Tutto questo senza aumentare il deficit pubblico e nel pieno rispetto delle regole dell'eurozona.
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La quiete dopo la tempesta?
di Michele Castaldo
«Passata è la tempesta odo augelli far festa» leggiamo in Leopardi e osservando gli umori dei personaggi del nuovo governo si ha l’impressione che la tempesta – cioè l’uscita di scena di Salvini – sia passata e dunque «Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride». È proprio così?
A volte ci sono gesti e parole che spiegano molto più di un libro: il gesto di Giuseppe Conte che poggia la mano sulla spalla sinistra di Salvini, mentre pronuncia il discorso di commiato alla camera, è tutto un programma; come dire: povero fesso, povera ingenua creatura, sei caduto nella trappola, l’hai fatta grossa: hai preteso di avere rapporti equivoci con la Russia, di intavolare trattative sotto banco; di convocare le parti sociali, cosa che non competeva al tuo dicastero; di proseguire in una continua campagna elettorale incentrata sulla tua persona; di osare di mettere in discussione la permanenza nell’Unione Europea e di cambiare l’alleanza strategica dell’Italia. Dulcis in fundo: hai avuto la pretesa di chiedere i pieni poteri agli elettori. Ma chi credi di essere? Ti sei guardato allo specchio? Non hai capito con chi hai a che fare! Mo’ ti sistemo io.
Il discorso di Conte era apparso da subito come una porta girevole, di uscita per lasciarsi alle spalle l’alleato scomodo e di entrata per la nuova investitura con appunti di programma con un nuovo alleato, non più sovranista ma europeista, non più occhieggiante verso la Russia di Putin, ma saldamente ancorato nella Nato.
Et voilà! Il gioco è fatto: esce Conte Giuseppe ed entra Giuseppe Conte! Esce la Lega salviniana ed entrano il Partito Democratico e Liberi e Uguali. Così il popolo democratico tira finalmente un sospiro di sollievo. Il mostro è stato messo all’angolo e in condizioni di non nuocere. È così?
Cosa esce sconfitto realmente con l’uscita della Lega salviniana dal governo e quali insidie si nascondono nei prossimi anni per gli immigrati, per i lavoratori e i disoccupati in Italia e in modo particolare nel sud? È questa la domanda alla quale siamo più interessati.
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Rivoluzione e controrivoluzione
di Intervention Communiste
[Révolution et contre-révolution, Parigi 1974]
La coerenza della società capitalista ha come base il vigore e l'estensione della legge del valore. Se è attorno a quest'ultima, in quanto trasforma qualsiasi manifestazione umana in merce e l'uomo stesso in merce forza-lavoro, che si costituisce la comunità materiale del capitale, questa comunità non acquisisce la propria stabilità che attraverso la trasformazione dell'uomo in merce, in questo senso la comunità non è fondata sul valore, ma più precisamente sul valore in processo, sul valore che si valorizza.
Fondato sul valore non nella sua accezione statica, ma sul ciclo delle sue metamorfosi, il capitale erode la propria base: il valore. Il capitale lavora senza sosta alla distruzione del valore, il movimento proprio della sua accumulazione funge da base al momento in cui si presenta esso stesso come creatore di valore; il plusvalore diviene profitto, il valore diviene prezzo di produzione. Tutto sarebbe perfetto se il capitale potesse liberarsi dal valore, esso stravolge il proprio funzionamento: separazione della forma prezzo e della forma equivalente generale; produzione di un movimento di capitalizzazione nel quale una data parte dell'accumulazione di capitale non corrisponde ad alcun valore (cfr. le azioni); estensione del sistema di credito nel quale il capitale anticipa sé stesso. Il capitale frantuma la legge del valore. Ma più tende a liberarsi dal valore, più rafforza la violenza tutelare di quest'ultimo. Quando, sviluppandosi, il capitale si presenta come la sola fonte del profitto, non fa in realtà che diminuire quello stesso plusvalore in cui, ciclicamente, è costretto ad ammettere riassumersi il profitto.
Quindi il movimento stesso della messa a valore del capitale, della valorizzazione, è il processo di distruzione del valore, della devalorizzazione. L'abolizione del valore costituisce la necessità storica del capitale, ma costituisce altresì la possibilità della sua negazione.
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Le privatizzazioni in Italia. Il buio oltre la siepe
di Militant
Quotidiano “la Repubblica”, inserto Affari&Finanza, 5 agosto 2019, un lunedì. L’approfondimento firmato da Luca Pagni spiega come tra le prima quaranta aziende quotate presso la Borsa di Milano (listino Ftse Mib, quello più rilevante) un buon 40%, a livello di valore della capitalizzazione, appartenga a società a controllo pubblico, cioè con il socio di maggioranza rappresentato dal Ministero del Tesoro o da qualche ente locale. Molte di queste, peraltro, sono attive in un settore oggettivamente strategico: quello dell’energia. “Bene!”, dovrebbe essere portato a pensare un sincero riformista, valutando la notizia come una sorta di boccata di ossigeno rispetto all’economia neoliberista, sempre più agonizzante: in fin dei conti si parla di società pubbliche, “quasi-pubbliche”, “un po’ – pubbliche” (senza esagerare, però: l’Enel, che ovviamente è tra le maggiori, ha visto scendere la quota in mano al pubblico addirittura sotto la soglia del trenta per cento). Si parla anche, però, di economia finanziarizzata, sostanzialmente scollegata dai reali processi economici, così da esorcizzare non solo lo spettro dello Stato monopolista (neanche – anzi: meno che mai! – in settori fondamentali per la vita collettiva), ma anche il ben meno “spettrale” ricordo delle vecchie Partecipazioni statali, su cui la Prima Repubblica aveva edificato la sua fortuna, per poi vergognarsene imbarazzata.
E invece no! Perché il tono di tutto l’articolo (a cui “la Repubblica” attribuisce una certa importanza, dedicandogli le prime tre pagine dell’inserto) va nella direzione opposta: l’ineffabile Luca Pagni, infatti, inizia scrivendo che “A guardare i nomi e i numeri della Borsa italiana si potrebbe dire che nulla è cambiato da vent’anni a questa parte. E che le liberalizzazioni in Italia non ci siano mai state”.
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“Altri confini”. Riflessioni sul volume di Luca Cangemi
di Salvatore Tinè
Il libro di Luca Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’Europeismo (1941-1957), è un libro importante. Importante in una duplice prospettiva, ovvero sia per la ricostruzione e riflessione storiche sulla genesi e la prima fase del processo di integrazione europea che ci propone e che costituisce lo sfondo del tema specificatamente trattato nel libro, ossia l’evoluzione della posizione dei comunisti italiani sui progetti e i processi di unificazione dell’Europa occidentale negli anni tra il 1941 e il 1957; sia per la profonda riconsiderazione critica di un periodo della storia del comunismo italiano.
Si tratta del periodo compreso tra il ’47 e la crisi del ’56, ovvero tra la fine dell’unità antifascista e l’inizio della cosiddetta “destalinizzazione”, solitamente considerato dalla storiografia, anche di orientamento “comunista” in una prospettiva sostanzialmente negativa, quando non puramente liquidatoria e che invece nella rigorosa e documentata ricostruzione di Cangemi ci appare come un periodo di importanza addirittura decisiva nella definizione di alcuni dei tratti essenziali più originali dell’identità culturale e politica del PCI di Togliatti. Lungi infatti dal configurarsi come una mera parentesi negativa nell’evoluzione del PCI verso la piena definizione di quella che all’VIII Congresso della fine del ’56 si chiamerà la “via italiana al socialismo”, i cosiddetti “anni del Cominform” appaiono segnati in questa ricostruzione da ulteriori e importanti sviluppi della strategia della “democrazia progressiva” elaborata nel periodo dell’unità antifascista, su un terreno cruciale dell’azione politica di massa del partito come quello della lotta per la pace. L’antieuropeismo del PCI togliattiano si definisce infatti in termini concretamente politici e strategici e non solo astrattamente ideologici coniugando sempre strettamente il tema della lotta per la pace a quello dell’autonomia e dell’indipendenza nazionali.
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Verso la guerra delle monete
di Italo Nobile
“Teoria e critica delle politiche economiche e monetarie dello sviluppo” (Roma, 2019, Efesto Edizioni) è il secondo volume del Trattato di Critica delle Politiche per il Governo dell’Economia dove Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola (con la collaborazione di Rita Martufi, Pasqualina Curcio e Ramiro Chimuris) adattano ad un quadro in tumultuosa evoluzione le categorie marxiste rielaborate da Luciano Vasapollo nel “Trattato di Critica Dell’Economia Convenzionale”. Nel Prologo Atilio Boron fornisce la cornice in cui questa analisi viene svolta.
Nell’introduzione invece Vasapollo e Arriola dichiarano di voler fornire un punto di vista critico ai principali approcci alla Politica Economica Internazionale (PEI) soprattutto verso gli analisti come Nye e Haas che fanno dipendere questa visione dalla teoria delle Relazioni Internazionali (RI).
Nel primo capitolo “La trasformazione dal capitalismo internazionale” Vasapollo e Arriola esaminano la dinamica di questi duecento anni di capitalismo individuando uno dei fattori di stabilità nel dominio delle relazioni internazionali da parte del mondo anglosassone (prima GB e poi gli Usa) che ha respinto le pretese sia della Francia, sia della Germania. Nel XXI secolo la Cina punta alla costruzione di una nuova leadership globale, sostituendo gli Usa come primo partner commerciale in molti paesi. Il deficit commerciale Usa sia pure leggermente diminuito è in buona parte concentrato rispetto a pochi paesi (Cina, Messico, Germania, Giappone) provocando una fragilità strutturale degli Stati Uniti relativamente alla posizione di dominio globale che essi vogliono mantenere.
Negli anni Novanta il loro predominio militare ha salvaguardato una dominazione economica basata sempre più sulla moneta e sulle finanze. Si tratta di un segno di stagnazione di un ciclo storico di egemonia.
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I “pacchi” del governo Conte
di Marta Fana
I 29 punti del programma del nuovo esecutivo sono vaghi e contraddittori. La reale direzione politica tutta da verificare nella congiuntura economica europea. Ma c'è terreno per un'opposizione che riporti al centro gli interessi sociali
«Io con la crisi di governo, scarico pacchi. Io senza la crisi di governo, scarico pacchi. Io col governo tecnico M5S-Gap-Pd-Craxi, scarico pacchi. Io con nuove elezioni, scarico pacchi!». Ecco uno dei tanti meme nella solita ondata bulimica di notizie, tentati scoop, dichiarazioni, gallerie fotografiche, commenti, analisi preventive succedutisi durante l’appena conclusa crisi di governo. Può sembrare sprezzante o, al contrario, denigrante nei confronti dei lavoratori, dipinti come indolenti nei confronti della democrazia parlamentare e dei meccanismi istituzionali.
Niente di tutto questo. Mentre scorrevano le immagini dell’insediamento del nuovo governo, l’ufficio nazionale di statistica tedesco annunciava un calo congiunturale del 2,7% degli ordinativi alle aziende. Il giorno dopo, la brusca frenata della produzione industriale che registra un -4,2% sull’anno precedente. Non è un dettaglio: il nuovo esecutivo si muoverà sul filo del rasoio non soltanto per i numeri risicati al Senato, ma soprattutto per la capacità di incidere – dentro gli esigui margini di manovra – nella politica che conta, dove l’Italia ha da anni perso terreno, in un periodo di forte instabilità politica ed economica. A determinarne l’indirizzo politico saranno il pendolo degli interessi sociali e la capacità di imporre nelle trattative con Bruxelles un’agenda in radicale discontinuità coi decenni precedenti. In un contesto economico e geopolitico segnato da un’ormai strutturale instabilità, dall’avanzata della crisi economica in Germania e da una crisi globale che si intravede all’orizzonte dentro e oltre il perimetro della guerra dei dazi tra Stati uniti e Cina.
È guardando a questi fondamentali dell’economia che si può andare oltre le etichette «il governo che piace ai mercati» vs «il governo più a sinistra degli ultimi decenni». E da questi fondamentali dipenderanno in larga misura i margini di negoziazione con la Commissione Europea.
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Il Bisconte
di Pino Cabras
Pubblichiamo questa interessante analisi di un importante esponente del M5S, Pino Cabras
Partiamo da quel voto. La votazione su Rousseau ha suggellato la nascita del nuovo governo Conte, la cui maggioranza parte dal perimetro di M5S e PD. Non mi sorprende la portata del risultato, visti i nomi che gli attivisti del MoVimento 5 Stelle scelsero già nel 2013 e nel 2015 come candidati da proporre alla Presidenza della Repubblica: erano nomi in gran parte provenienti dal meglio dell’esperienza storica della sinistra del Novecento. Rodotà e Imposimato furono due occasioni eccezionali offerte dal M5S ai partiti che avevano ereditato l’insediamento elettorale della sinistra, soprattutto al PD, ma quei partiti le rifiutarono in modo arroccato, conservatore e oligarchico.
Insomma non da oggi il bacino degli iscritti del M5S è portato a far leva sul mondo della sinistra, un mondo che – prima di consegnarsi docilmente al neoliberismo e alle cattive pratiche amministrative – aveva una capacità di presentare personalità e leggi connesse a un’idea progressiva del bene comune. Nonostante ondate di critiche corrosive da loro stessi riversate per anni contro le politiche del PD, decine di migliaia attivisti M5S hanno di fatto conservato una residua ma granitica aspettativa circa la riformabilità della sinistra. Il pendolo ritorna tanto più su quel lato dopo la fine traumatica del rapporto sfilacciato con la Lega di Salvini. E di nuovo, via Rousseau, al PD offrono un’ennesima occasione, che si colloca in un momento particolare in cui i principali dirigenti europei vogliono che si stabilizzi almeno il fronte sud dell’Europa, almeno finché sarà aperto il fronte troppo caotico della Brexit.
Questa tendenza degli iscritti pentastellati è molto chiara, e si è rafforzata per contraccolpo ora che si è conclusa la breve stagione del governo con la Lega, demolita dalla tracotante dismisura del capo leghista.
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Inefficienze e difetti dell’economia sovietica
di Alexander Höbel
La crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)1, i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi3.
L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4.
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Enrique Dussel, Metafore teologiche di Marx
di Orlando Franceschelli
Enrique Dussel: Metafore teologiche di Marx, traduzione dallo spagnolo e cura di Antonino Infranca, Inschibboleth Edizioni, Roma 2018
1. Metafore che “hanno una logica”.
Arricchito da una puntuale Introduzione di Antonino Infranca, curatore di questa edizione italiana e tra i maggiori esperti del pensiero di Dussel, Metafore teologiche di Marx offre al lettore le acquisizioni più interessanti a cui l’Autore è pervenuto grazie al suo pluriennale confronto con Marx. Al pari di tutta la produzione di Dussel, anche queste acquisizioni hanno avuto ampia risonanza. E di esse questo libro rivendica non a torto l’attualità (pp. 53-4, 96), offrendo così anche una significativa conferma di quanto Infranca precisa nell’Introduzione: veramente non è un caso se Dussel “mentre scriveva i suoi quattro libri su Marx, lentamente abbandonava le sue posizioni vicine a quelle della Chiesa latinoamericana, passava vicino alla Teologia della Liberazione, per arrivare oggi su posizioni decisamente marxiste” (p. 31).
Per risparmiare al lettore l’equivoco forse più insidioso, giova richiamare subito un punto che lo stesso Autore tiene a precisare fin dalle Parole preliminari (pp. 33-50) e dal Prologo all’edizione italiana (pp. 51-63), che illustrano egregiamente la genesi, gli scopi e il “senso” di questo libro: il suo intento non è dimostrare “che Marx ed Engels fossero credenti” (p. 59). E neppure che Marx abbia avuto una qualche “intenzione di produrre una teologia formalmente esplicita” (p. 46). Al contrario: Dussel si propone di affrontare il problema che sorge proprio dopo aver riconosciuto, da un lato, che Marx “non fu nel senso stretto del termine un teologo” e, dall’altro, che proprio per questa ragione egli “aprì l’orizzonte per una nuova teologia” (ibidem).
Com’è noto, nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx ha scritto che la “critica della teologia [si trasforma] nella critica della politica”.
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Seduzioni e delusioni del neoliberismo
di Carlo Galli
Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.
Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.
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Sul programma di governo del Conte bis
di Leonardo Mazzei
Il governo più a sinistra della storia?
Dovessimo prenderli sul serio, i 29 punti condivisi da Pd, M5s e Leu sembrerebbero dar ragione all'ex cavaliere d'Arcore, che ha parlato senza remore del "governo più a sinistra della storia d'Italia". Ma possiamo prenderli sul serio? Ovviamente no, tant'è vero che saranno proprio i berluscones (specie al Senato) a dar manforte al Conte-bis ogni volta che ve ne sarà bisogno. Che Berlusconi sia passato all'estrema sinistra?
Una montagna di promesse
La prima cosa da capire è che i 29 punti non sono un programma, bensì una lista sterminata di promesse. Limitandoci alla parte economico-sociale, troviamo alla rinfusa (ma il testo è scritto proprio così) la cancellazione dell'aumento dell'IVA, il sostegno alle famiglie ed ai disabili, misure per l'emergenza abitativa, incentivi agli investimenti, più risorse per la scuola, l'università, la ricerca, il welfare. E questo è solo il punto 1...
Ma si prosegue con il potenziamento degli incentivi alle piccole e medie imprese, la riduzione delle tasse sul lavoro (cuneo fiscale), il salario minimo, misure a favore dei giovani appartenenti a famiglie a basso reddito. Si annuncia un piano straordinario di assunzioni di medici ed infermieri, aumenti salariali ad insegnanti, poliziotti, militari e vigili del fuoco.
Non poteva poi mancare la promessa di un Green New Deal, quella di maggiori interventi per la difesa del territorio e per la velocizzazione della ricostruzione nelle zone terremotate. Ma non ci si è dimenticati neppure del lancio di un piano straordinario per il Sud, né della necessità di nuovi investimenti infrastrutturali. E questa è solo una sintesi di quanto il nuovo tripartito ha pensato bene di promettere agli italiani...
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Le cronache del nostro scontento
2015: “SuperMario” e Renzinomics
di Giorgio Gattei
Riassunto delle puntate precedenti: Non mi sono fermato. Ho soltanto rallentato la serie di queste Cronache del nostro scontento che dovevano portare, nel 2018, alla sorpresa straordinaria di un governo “giallo-verde” in Italia. E avevo fatto cominciare quelle Cronache dal 2011: il complotto di “re Giorgio” (maggiofilosofico.it 27.3.2017), quando il governo Berlusconi era stato “defenestrato” da una manovra combinata, a mezzo del nazionale e dell’europeo, per preparare il terreno all’introduzione in Italia delle politiche della “austerità espansionistica”, che però espansionistica non è stata mai. Così nel 2012: arriva Monti e il Fiscal Compact (maggiofilosofico.it 6.6.2017) ed il piano veniva portato in esecuzione col doppio obiettivo di ridurre il rapporto Debito pubblico/PIL ad una misura compatibile con la crescita economica (il che si riteneva allora possibile), ma anche e soprattutto con l’azzeramento (proprio lo 0,0%) del rapporto Deficit/PIL, il che voleva dire l’obiettivo di un bilancio statale “in pareggio” (non a caso anche inserito in Costituzione con modifica dell’art. 91) che avrebbe dovuto essere conseguito, secondo quanto previsto dal Fiscal compact, nel 2014. Naturalmente nel 2013: il bis di “re Giorgio” e quella austerità “che fa male” (maggiofilosofico.it 14.9.2017) ci si muove proprio in quella direzione, ma non ci si riesce e ad andare a zero non sarà il disavanzo, bensì la crescita del PIL! Con il conseguente calo dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della spesa dello Stato, la domanda aggregata finirà al di sotto dell’offerta ed i prezzi prenderanno a calare. Nel 2014: il fenomeno Renzi mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione) (maggiofilosofico.it 19.10.2017) si riconoscerà che non può esserci alle viste alcun pareggio di bilancio, un obiettivo che Bruxelles rinvierà al 2017 accordandoci al momento un disavanzo pubblico del 2,9%, appena un pelino al di sotto di quel 3% fissato dal Trattato di Maastricht.
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Ecologia e vita. Critica del valore e critica della natura
di Alice Dal Gobbo
[Anche in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, gli ultimi mesi hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza contro il cambiamento climatico. Importanti sono state le piazze oceaniche di Fridays For Future il 15 marzo e quella dei comitati a Roma, il 23 dello stesso mese. In attesa del terzo Climate Strike del 27 settembre, i movimenti europei si incontrano al Venice Climate Camp dal 4 all’8 settembre (https://www.veniceclimatecamp.com/it/). Sarà l’occasione per condividere percorsi di riflessione e pratiche. Il testo di Alice Dal Gobbo che segue parte da una riflessione presentata al convegno Ambientalismo Operaio e Giustizia Climatica tenutosi presso il Centro Studi Movimenti di Parma il 14 giugno 2019. (el)]
Valore, Natura
Le categorie di Valore e Natura stanno emergendo prepotentemente nel dibattito dell’ecologia politica, nel dialogo che cerca di politicizzare il discorso e le pratiche legate alla crisi ecologica. Le due categorie sono caratterizzate da un certo grado di ambiguità, sono sdrucciolevoli e quasi paradossali. Da un lato, esse – ma soprattutto il loro nesso – sono un nodo centrale di una riflessione che, partendo dall’eredità del dibattito marxista sull’ecologia e dell’operaismo italiano, vuole prefigurare delle società future. Dall’altro, tuttavia, il rinnovamento delle nostre relazioni socio-ecologiche[1] richiede di ripensare profondamente, forse superare, il valore e la Natura.
Interrogare il nesso valore-natura all’interno della crisi ecologica (che però è anche economica, sociale, psico-sociale) ci porta a scavare fino al cuore della costituzione materiale delle società contemporanee. È infatti ragionevole sostenere che il valore sia uno degli elementi chiave nella configurazione ecologica globale del capitalismo, poiché l’accumulazione e la ricerca del profitto che caratterizzano il sistema necessitano processi di valorizzazione, di trasformazione del mondo in valore. Questi processi sono, per altro, sempre più pervasivi dato che il capitale cerca di abbracciare più e più ambiti di vita sia in senso “estensivo” (il capitale globale che non lascia scoperto più un angolo di terra), sia in senso “intensivo” (il suo infiltrarsi sempre più a fondo nelle radici della vita e del vivente, come per esempio nel caso della mappatura del genoma umano).
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Sulle condizioni per una “rivoluzione” della teoria e della politica economica
di Emiliano Brancaccio*
In linea con la tradizione del Massachusetts Institute of Technology di cui fanno parte, i modelli macroeconomici mainstream di Olivier Blanchard possono essere sottoposti a un “ribaltamento” logico in grado di renderli compatibili con schemi alternativi che rifiutano la teoria neoclassica dei prezzi come indici di scarsità e il nesso tra produzione e distribuzione che da essa scaturisce. Tale ribaltamento logico sembra in grado di offrire una più solida base teorica alla “rivoluzione” della politica macroeconomica recentemente invocata da Blanchard e Summers, che viene qui sottoposta a un esame critico
A proposito di libri “Anti”, permettetemi qualche citazione preliminare. L’Anti-Catone di Giulio Cesare fu la raffigurazione letteraria di un passaggio epocale, quello che in poco più di un decennio avrebbe sancito la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero romano. A quanto pare, proprio all’Anti-Catone si ispirò Friedrich Engels, autore dell’Anti-Duhring, un libro che a sua volta segnò una fase cruciale dello scontro tra due opposte filosofie della scienza: l’idealismo e il materialismo. Ebbene, nel nostro piccolo, nel nostro infinitesimo, con l’Anti-Blanchard in un certo senso noi abbiamo tratto ispirazione da questi grandi esempi (Brancaccio e Califano, 2018).
Beninteso, l’Anti-Blanchard è un piccolo esperimento, peraltro confinato nell’ambito ristretto della critica della macroeconomia. Tuttavia, anch’esso è un libro che sebbene nel suo titolo si confronti con una sola persona, di fatto tenta di richiamare alla luce una disputa di carattere molto più generale, oserei dire collettiva: vale a dire la disputa, oggi sommersa e un po’ dimenticata, tra la concezione attualmente prevalente della teoria e della politica economica e un paradigma economico alternativo che prende le mosse dalle cosiddette scuole di pensiero economico critico. Quel piccolo libro è dunque in fin dei conti la ragione per cui abbiamo proposto questa inconsueta occasione di dibattito alla Fondazione Feltrinelli, che ringraziamo per averla messa in opera. E ovviamente ringraziamo Olivier Blanchard per avere accettato questo nostro invito.
Ora, perché proprio l’Anti-Blanchard? Perché non un “Anti-Lucas”, o un “Anti-Prescott”, o un “Anti-Sargent”? Il primo motivo è che l’esperienza di Olivier Blanchard è di tale importanza che trascende la sua stessa persona, a mio avviso più di quanto sia accaduto a qualsiasi altro economista vivente.
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Giorni che rischiarano decenni III
L'anomalia italiana
di Norberto Natali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo [Qui la parte I, qui la parte II]
Dalla capitana coraggiosa alle "richieste" di Trump. I giorni che il PD ha iniziato con l’esaltazione della “capitana Carola” e la pretesa di essere il più affidabile garante della NATO nel nostro paese, non potevano che proseguire con la comunicazione di Trump di quale governo (addirittura con quale presidente del Consiglio) egli desideri per l’Italia: manco a farlo apposta quello con il PD!
Questo comunicato è un’umiliazione della nostra repubblica e del popolo italiano, con ben pochi precedenti nella storia recente. Viene per forza alla mente la lettera che il presidente della Commissione Europea e il capo della BCE, giusto otto anni fa, inviarono alle istituzioni italiane per ordinare un programma di governo nel quale si dettagliavano perfino le procedure: per esempio, si indicava il decreto legge (anziché la discussione in commissione) per certe misure antipopolari.
Anche allora, dopo pochi mesi, cambiò il governo in carica con l’ingresso del PD (proprio come oggi). Iniziò così il periodo delle “larghe intese” -con tutto il seguito di Fornero, jobs act, calpestamento delle masse popolari e smantellamento della Costituzione- durato fino all’anno scorso. Poco tempo fa, si è finalmente saputo che si trattò di ordini impartiti dai capi di governo francese e tedesco con l’avallo del presidente USA.
Come se tutti si fossero messi d’accordo per darmi ragione, il 29 agosto scorso il commissario (cioè ministro) tedesco della UE Oettinger, alludendo al nuovo governo che si dovrebbe formare in Italia, ha detto letteralmente che esso merita una “ricompensa”!
Ecco perché, sia pure con un certo margine di “azzardo”, proprio alla fine della seconda parte (la precedente) di questo testo, scrivevo che “l’Italia è diventata una specie di colonia di tipo nuovo, di potenze di natura diversa da quelle coloniali tradizionali: per esempio, per l’appunto, la UE e la NATO (o gli USA…”.
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Farc, la rosa e il fucile
di Geraldina Colotti
Con un lungo documento di analisi, le Farc – Ep tornano a essere Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo, e lasciano ai compagni e alle compagne che non condividono la loro scelta l’acronimo Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Comun) con il quale si erano trasformate in partito politico scegliendo il simbolo della rosa con la stella al centro, nell’agosto del 2017. Si consuma così una lunga e travagliata scissione che, a partire dal gruppo dirigente, ha progressivamente reso esplicite differenze di merito e di metodo che non hanno trovato composizione.
Da una parte, l’ex vicesegretario delle Farc, Ivan Marquez, che ha ripreso le armi insieme a due altri dirigenti storici, Jesus Santrich – recentemente uscito dal carcere – e Hernan Dario Velasquez, nome di battaglia el Paisa. Dall’altro, Rodrigo Londoño, presidente del partito politico Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che ha respinto il ritorno alle armi per ribadire che la maggioranza degli ex guerriglieri intende mantenere gli impegni presi con gli accordi di pace del 2016.
Entrambi i gruppi si richiamano allo spirito delle origini, rappresentato dalla figura del fondatore, Manuel Marulanda (Tirofijo), morto del 2008. Le Farc di Marquez parlano di una seconda “Marquetalia”, una rifondazione della guerriglia nella continuità dei principi che ne hanno ispirato la formazione, oltre cinquant’anni fa. Quelle di Londoño ribattono che Marulanda ha “insegnato a mantenere la parola”, e che la loro parola, oggi, “è pace e riconciliazione”. La pace del sepolcro, purtroppo, che si è imposta dopo la firma degli accordi del 2016, secondo un copione già visto in Colombia, e che da allora ha già portato alla morte di 500 dirigenti contadini e indigeni e di 150 ex guerriglieri.
Questo è il primo punto di riflessione, che attiene all’analisi delle forze in campo e al bilancio della praticabilità del passaggio politico a tre anni dagli accordi dell’Avana.
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Se questa è “discontinuità”...
di Alessandro Bartoloni
Analisi del programma del governo giallo-rosè punto per punto, ovvero tutta la continuità che ci aspetta
La crisi di governo iniziata ufficialmente quasi un mese fa ha infine prodotto un nuovo esecutivo retto da una nuova maggioranza formata da M5Ss-Pd-Leu. Matteo Salvini esce momentaneamente di scena, e per di più malamente, stando ai sondaggi, avendo scommesso tutto su nuove elezioni anticipate già in autunno. Una sconfitta, quella del segretario della Lega, che inizia all’indomani delle europee del 26 maggio quando, forte del suo 34%, ha chiesto la testa dei ministri Tria, Trenta e Toninelli per tener conto dei nuovi rapporti di forza tra i partiti dell’alleanza gialloverde, coi grillini franati al 17%. Fallito il tentativo di rimpasto, al capitano è sembrato inevitabile il ricorso alle urne che già molti gli consigliavano: il 25 luglio Conte dichiarava di non essere disponibile ad “andare in parlamento a cercare maggioranze alternative” [1] e poi Tria che la manovra economica avrebbe avuto deficit molto contenuti, sconfessando la linea leghista; il giorno seguente la direzione nazionale del PD votava all’unanimità la relazione del segretario che indicava nelle elezioni l’unico percorso da seguire in caso di caduta dell’esecutivo escludendo un’alleanza coi 5s [2].
Salvini, tuttavia, non ha tenuto conto che solo i parlamentari di Fratelli d’Italia erano disposti ad affrontare nuovamente il giudizio degli elettori. Alla naturale riluttanza di tutti quelli confluiti nel gruppo misto si è sommata la contrarietà degli eletti grillini che non si sarebbero più potuti ricandidare per il vincolo dei due mandati e che comunque sarebbero usciti decimati, visti i risultati delle europee ed i sondaggi. Ma non erano d’accordo con le elezioni anticipate neppure i parlamentari del PD, quasi tutti scelti quando il segretario era Matteo Renzi, che difficilmente sarebbero stati ricandidati dall’attuale segretario, Nicola Zingaretti. Al senatore Renzi, inoltre, serve tempo per costruire il proprio partito ed una legge elettorale proporzionale per poter continuare a contare.
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Giovanni Arrighi prima di Il lungo XX secolo
di Giordano Sivini
Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1] l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica.
Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro.
Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac.
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Dodici domande ad Alberto Bagnai
di Leonardo Mazzei
Ancora a proposito della narrazione leghista sulla crisi
Al di là delle divergenze politiche chi scrive ha sempre avuto grande stima di Alberto Bagnai, ma la sua ricostruzione delle vicende che hanno portato alla fine del governo giallo-verde non fa certo onore alla sua intelligenza.
Capisco la scelta salviniana di intorbidire le acque — la propaganda ha le sue esigenze —, tuttavia da uno come Bagnai ci si aspetterebbe qualcosa di meglio del semplice accodamento ad una narrazione che fa acqua da tutte le parti. Una narrazione che include ovviamente alcune verità, occultandone però altre non meno importanti. Il tutto al solo patetico scopo di salvare la faccia a colui che l'ha persa.
Su tutto ciò ho già avuto modo di scrivere nei giorni scorsi, ma tornarci sopra non è inutile. Ed il testo di Bagnai ci dà l'occasione di andare al succo di diverse questioni, ponendo al senatore della Lega dodici precise domande.
Prima domanda
Già il titolo del suo articolo, "Cronaca di una crisi annunciata", vorrebbe dar l'idea che in fondo tutto era già scritto, che dunque — mossa di Salvini o meno — si sarebbe comunque arrivati in breve ad un governo M5s-Pd. Ecco allora la prima banalissima domanda: se così stavano le cose, perché agevolare quell'operazione aprendo la crisi con motivazioni ridicole (tipo, il "partito del sì" contro quello "del no") che non spiegavano nulla agli italiani?
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Immigrati, mercato del lavoro e ricomposizione di classe
di Domenico Moro
Negli ultimi anni l’immigrazione è stata utilizzata dai partiti di destra che hanno fatto della xenofobia il cavallo di battaglia della loro propaganda elettorale. Ciò non è avvenuto solo in Italia, sebbene Salvini e la Lega abbiano conquistato una notevole visibilità a livello nazionale ed europeo. I risultati elettorali dell’uso della xenofobia da parte della destra sono sotto i nostri occhi in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, Paese dove si sono recentemente verificati anche fatti di violenza contro politici favorevoli all’immigrazione, come nel caso dell’assassinio di Walter Lübcke.
Quello dell’immigrazione, essendo un tema “caldo” dal punto di vista politico, è stato spesso approcciato in termini poco oggettivi. Si è fatto poco ricorso ai numeri e all’analisi economica per analizzare il fenomeno o lo si è fatto in modo strumentale per sostenere questa o quell’altra posizione. La sinistra liberale ha affrontato l’immigrazione in modo contraddittorio e alterno. Il Pd, ad esempio, si è mosso o in contrapposizione alla destra in termini “umanitari”, limitando, però, tale umanitarismo alla garanzia dell’ingresso in Italia senza estenderlo coerentemente alle dure condizioni di accoglienza e di impiego della forza lavoro straniera, oppure si è di fatto impegnato su di un programma di respingimenti, come ha fatto con Minniti.
Quanto si muove a sinistra del Pd sembra in alcuni casi limitarsi a un approccio no borders, senza curarsi di come affrontare le ricadute dei flussi migratori a livello popolare. L’arrivo di flussi di decine di migliaia di persone dall’estero bisognose di alloggio, di assistenza sanitaria e soprattutto di lavoro pone dei problemi importanti, specie in un periodo di crisi, di calo del tasso di occupazione e di contrazione degli investimenti pubblici e del welfare imposta dalla Ue. In un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi della facilità con cui è stata alimentata, in modo certamente interessato, la guerra fra poveri.
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Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Sweezy è una esposizione elementare della teoria marxiana edita per la prima volta nel 1942 e che qui si legge nella edizione introdotta da Claudio Napoleoni per la Boringheri (la prima edizione era di Einaudi) che omette solo la parte sull’imperialismo. Del resto, come bene dice Napoleoni, sul tema del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo l’autore, con Paul Baran, tornerà durante tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Il testo curato da Napoleoni include anche numerosi contributi successivi alla “teoria del valore” ed in particolare ad uno dei punti sui quali Sweezy si sofferma di più: il problema della trasformazione in prezzi del valore-lavoro incorporato nelle merci (ma da “realizzare” nella circolazione). In merito sono presenti i contributi di Dobb, Winterniz, Seton e Meek. L’economista italiano nel suo commento valorizza lo schema proposto da Sraffa, per il quale è necessario, al fine di impostare la trasformazione, conoscere anche il modo in cui ogni merce include i diversi input di lavoro (esempio per l’intervento delle macchine, o dell’istruzione dei lavoratori) e la loro relativa distribuzione nel tempo al quale sono stati rilasciati, uno per uno. Resta il fatto che mentre all’origine di ogni produzione c’è sempre il lavoro (tutto dipende dal lavoro dell’uomo sulla natura), per il marxismo questo si annulla, viene sussunto, in un altro da sé, costituendo il ‘capitale’ che è ciò in cui si trasferisce la forza produttiva. Ne deriva che ciò che è in realtà produttivo non è il lavoro, ma il capitale.
Il secondo tema messo in evidenza da Napoleoni nel testo è il trattamento delle crisi produttive, sul quale sono descritte (e rigettate) le critiche di Bohm-Bowerk e Pareto, ma anche di Lange e Samuelson. Sweezy farebbe, in tal caso, una distinzione troppo netta tra tre generi di crisi presenti nel testo marxiano: “crisi da caduta del saggio di profitto”, crisi da “sproporzioni” e crisi da “sottoconsumo”.
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