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Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga
di Claudio Conti
La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.
Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).
Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.
E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).
Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.
Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.
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Le elezioni e gli eletti
di Roberto Buffagni
Che cosa ci insegnano, o almeno suggeriscono, le elezioni europee testé concluse?
Anzitutto, direi che ci confermano un fatto noto ma sempre rilevante: le elezioni europee non cambiano l’Unione Europea, che conforme la sua natura e l’intenzione profonda – anche filosofica e spirituale – che la costituisce è (quasi) impermeabile al voto popolare, diciamo almost ballotsproof, salvo un vero e proprio diluvio o maremoto di voti ad essa contrari o favorevoli che non si verificherà, molto probabilmente, mai. L’Unione Europea sta o cade per l’azione degli Stati-nazione che la compongono, e/o per un evento esogeno o endogeno che ne faccia precipitare le gravi disfunzionalità.
Le elezioni europee e il voto popolare cambiano invece gli equilibri politici nazionali, come d’altronde è naturale, visto che l’unico contesto in cui la democrazia rappresentativa sia possibile e vitale è – oggi come ieri – la nazione. Cambiano gli equilibri politici nazionali, anche se le elezioni europee vanno per così dire “fuori tema”, visto che il voto europeo non muta gli equilibri parlamentari nazionali; ma il sistema elettorale proporzionalistico che adottano, e l’emergere sempre più chiaro del consenso/dissenso rispetto alla UE come clivage politico principale, le trasformano in un fattore politico e simbolico di prima grandezza.
Le elezioni europee testé concluse infatti ci insegnano, o almeno ci suggeriscono, che il consenso/dissenso riguardo la UE e alle sue logiche premesse, implicazioni e conseguenze – il mondialismo, l’individualismo, il progressismo, il costruttivismo sociale, l’universalismo politico – emerge con sempre maggiore chiarezza come il principale clivagepolitico, non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.
Chi non si schiera di qua o di là, chi esita, chi tiene il piede in due staffe, chi azzarda dei “sì, ma” o dei “ni” è perduto. Il più antico partito d’Europa, il partito conservatore britannico, ha patito la più cocente disfatta di sempre per le sue esitazioni, compromessi e retropensieri in merito alla Brexit.
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L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream
di Sergio Marotta
Cos’è e cosa propone il collettivo per l’economia fondamentale
Che cos’è l’economia fondamentale
Il Collettivo per l’economia fondamentale è costituito da ricercatori di diverse discipline e di varie nazionalità, molti già noti nel mondo degli studi. Davide Arcidiacono, Filippo Barbera, Andrew Bowman, John Buchanan, Sandro Busso, Joselle Dagnes, Joe Earle, Ewald Engelen, Peter Folkman, Julie Froud, Colin Haslam, Sukhdev Johal, Ian Jones, Dario Minervini, Mick Moran, Fabio Mostaccio, Gabriella Pauli, Leonhard Plank, Angelo Salento, Ferdinando Spina, Nick Tsitsianis, Karel Williams hanno individuato un oggetto di studio che hanno definito “economia fondamentale” e hanno dato vita a una notevole e interessante serie di ricerche che stanno riscuotendo in Europa sempre maggiore attenzione. Così il libro che contiene il manifesto del Collettivo intitolato “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, appena uscito in Italia per i tipi di Einaudi, è stato pubblicato in inglese da Manchester University Press e in tedesco da Suhrkamp.
Secondo gli studiosi del Collettivo, l’economia fondamentale è costituita da un insieme di attività legate «alla produzione dei beni e servizi indispensabili al benessere generale, come l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, la fognatura e le reti telefoniche»[1].
I confini dell’economia fondamentale sono individuati attraverso tre parametri di riferimento: «questi beni e servizi sono necessari alla vita quotidiana, ne usufruiscono ogni giorno tutti i cittadini a prescindere dal reddito, e sono erogati, in funzione della distribuzione della popolazione, attraverso reti e filiali»[2]. Altre caratteristiche delle attività ricomprese nell’economia fondamentale sono quelle di svolgersi spesso al di fuori del mercato; di essere attività in qualche modo protette in quanto soggette a regolamentazione; mentre la loro distribuzione e organizzazione è soggetta alla mediazione politica.
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Le Favole di Salvini
di coniarerivolta
Leggenda vuole che molti e molti anni orsono uno sbruffone si vantasse sguaiatamente delle sue gesta. In particolare sosteneva, lo sbruffone, di poter saltare da un piede all’altro del colosso di Rodi. La leggenda racconta anche che non ci volle poi molto a verificare la consistenza delle fanfaronate dello sbruffone. Bastò infatti che uno degli astanti proponesse all’incauto millantatore “Hic Rhodus, hic salta” (fai conto che questa sia Rodi, facci vedere quello che sai fare), per riportarlo a più miti consigli.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, eppure una vicenda simile si ripete in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Secondo un copione già visto, Matteo Salvini ha passato le ultime settimane, non a caso coincidenti con la campagna elettorale, a promettere grandi sconvolgimenti. Basta con l’austerità che ci soffoca! No all’adesione cieca a regole di bilancio che causano disoccupazione e miseria! E se all’Europa non va bene, peggio per lei, ce ne faremo una ragione! Apparentemente il trucco ha funzionato, ancora una volta. Nonostante un anno di governo all’insegna dell’austerità e della continuità totale con i governi che l’hanno preceduto, il leader della Lega è riuscito di nuovo a presentarsi all’elettorato come l’(unica) alternativa ai sacrifici imposti dai Trattati europei e a capitalizzare un impasto esplosivo di rabbia e rancori di una piccola e media borghesia sempre più incattivita. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni, Salvini ha rincarato la dose, promettendo una rivoluzione fiscale quantificabile in 30 miliardi di euro di tagli alle tasse, sotto forma di flat tax per i redditi delle imprese e delle famiglie con un reddito fino a 50.000 euro. Il tutto infarcito dal campionario standard con cui Salvini ha mascherato il suo nulla negli ultimi 12 mesi: “non sto a impiccarmi a un parametro, un numero o una regoletta”, “l’era della precarietà e dell’austerità si è conclusa”, non ci importa di “rispettare gli zero virgola”.
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Il Naufragio dei Gilets Jaunes
di Michel Onfray
Il vantaggio con BHL (Bernard Henry-Levy ) [1] è che si sbaglia continuamente e basta pensare il contrario di quello che lui scrive o dice, per essere sicuri e certi di stare nel vero. È una vera performance intellettuale, un destino unico nella stessa storia delle idee, il fatto di essere la bussola che indefettibilmente indica il Sud! Promuovendo se stesso e il suo One Man Show in tutte le capitali d’Europa dove le sale si riempiono di invitati mondani come ce ne sono in ogni grande città, spiega che non si esibirà sulla scena di Parigi con il suo gobbo, senza dire che lì dalle sue parti l’inganno sarebbe più facilmente smascherato perché basterebbe filmare l’uscita dalla sua rappresentazione per vedervi tutta la gente in capannelli e capire che nessuno di quelli aveva pagato l’ingresso…
In una benevola intervista di Le Figaro del 20 maggio 2018, il nostro Sud-magnetico proclama che il movimento dei Gilets-Jaunes si è auto divorato. Ah che bel modo di dire! Dei Gilets-Jaunes cannibali, autofagi, che mangiano se stessi, ed ecco una tesi che è bella e profonda e non ha che un inconveniente: quello di essere falsa…
Si capisce che questa storia di un movimento che sarebbe la causa della sua propria morte possa essere la sua teoria perché da una parte gli permette di affermare fino alla fine che i Gilets-Jaunes sono dei cretini incapaci e che dunque essi sono all’origine della loro sfortuna – e si sa che la sfortuna dei Gilets-Jaunes é la fortuna di BHL.; d’altra parte questa balla da snob di St.Germain des Près gli permette di nascondere sotto il tappeto le vere ragioni non già di un banchetto di cannibali, ma di un’orgia di Stato.
Perché i Gilets-Jaunes non si sono divorati da soli, sono stati smembrati, spellati, sminuzzati, tagliati, rullati, appiattiti, privati degli occhi, battuti, pestati, pugnalati, frantumati e poi mangiati dall’apparato dello Stato, in questo aiutato contro ogni buon senso dai sindacati e dai partiti politici che apparentemente sono all’opposizione, ma che alla fine, come utili idioti, lavorano con e per questo Stato. E a questo bisogna aggiungere i giornalisti.
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Considerazioni sul voto europeo
di Francesco Galofaro*
Il panorama
Il voto italiano alle ultime elezioni va inquadrato nel più ampio contesto europeo. E’ possibile individuare delle dinamiche di fondo, posto che in ciascuno Stato o macroregione esistono peculiarità locali. Nel 2014, le elezioni si risolsero in un derby tra popolari e socialisti: tra una destra e una sinistra entrambe liberali, destinate a governare insieme l’Unione, convinte che il laissez-faire fosse la risposta più adeguata alla crisi e alla recessione economica, prive di un progetto all’altezza dei tempi, destinate al ruolo di amministratori del condominio europeo. Il 2019 consegna una mappa ben diversa:
- Il PPE (cui fa capo Forza Italia) scende da 221 a 179 seggi;
- I Socialisti (cui fa capo il PD) scendono da 191 a 150 seggi;
- Cala anche il gruppo ECR (Conservatori e Riformisti, da 70 a 58 seggi), cui fanno capo forze vincenti come Fratelli d’Italia o il polacco PiS, ma anche i tory inglesi, in fortissima crisi per lo scontro interno connesso alla Brexit;
- Perde consensi la sinistra radicale del GUE (da 52 a 38 seggi);
In crescita troviamo tanto forze europeiste tanto posizioni euroscettiche o ‘sovraniste’:
- EFDD, il gruppo dei 5 Stelle, cresce soprattutto per merito di Farage e del suo partito pro-Brexit (da 48 a 56 seggi);
- I Liberali dell’ALDE passano da 67 a 107 seggi – la crescita si deve in gran parte a Macron, non presente alle scorse elezioni;
- Crescono i Verdi: da 50 a 70 seggi;
- Si afferma l’ENL, non presente alle scorse elezioni (è il gruppo di Salvini, della Le Pen, di Alternative für Deutschland, con 58 seggi);
La formula di governo PPE/Socialisti è ormai logora: la crisi dei socialdemocratici perdura tutt’ora, privi come sono di un progetto che li differenzi dai liberali e dai conservatori.
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Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Alexander Baran è del 1957 ed è un classico del pensiero marxista americano dello sviluppo. Il sottotitolo in italiano dell’opera è “e la teoria marxista dello sviluppo” (in inglese “The political economy of growt”) ed è una delle matrici intellettuali della teoria dello sviluppo, ripresa da autori fondamentali come Andre Gunder Frank[1], Samir Amin[2], ed in parte Giovanni Arrighi[3]. Nel 1966, due anni dopo la morte, viene pubblicata l’opera per la quale è più famoso in Italia, ovvero “Il capitale monopolistico”, con Paul Sweezy”.
Baran è negli anni sessanta l’unico economista di ruolo negli Stati Uniti ad ispirarsi alla teoria marxista, è ordinario a Stanford dal 1951 fino alla morte. Dalla sua biografia si ricava il padre menscevico che lascia la Russia nel 1917, gli studi ed il dottorato a Berlino nel 1933 (quando lui, nato nel 1909 ha 24 anni), quando incontra e discute con Rudolf Hilferding, la fuga a Parigi e poi in Urss. Poco prima dell’invasione tedesca l’arrivo negli Stati Uniti e l’iscrizione ad Harvard, il lavoro con Galbraith e poi al Dipartimento del Commercio ed alla Fed di New York. Dal 1949 è a Stanford e collabora con Monthly Review di Sweezy e Leo Huberman. Nel 1960, dopo questo libro, visita Cuba, poi Mosca, l’Iran e la Jugoslavia. Mentre lavora al “Capitale Monopolistico” muore improvvisamente per un attacco di cuore.
Questo libro, “The political economy of growt” ha esercitato a lungo un’influenza sulle forze anticapitaliste che operavano nei paesi in via di sviluppo, o, come Baran preferisce scrivere “sottosviluppati”, e si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913.
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Liberare il lavoro, o liberarsi dal lavoro?
Simone Weil lettrice di Marx
di Franck Fischbach
Nel suo libro scritto nel 1934, le "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", Simone Weil redige un primo capitolo che intitola «Critica del marxismo». Mi propongo qui di esaminare quel capitolo, al fine di determinare la natura e la portata delle critiche che Weil rivolge al «marxismo». Ma indubbiamente bisogna aggiungere immediatamente che la prima questione che qui si pone, alla lettura di questo capitolo e di tutto il libro stesso, è quella di sapere e determinare a chi sia rivolta la critica, o piuttosto le critiche formulate da Weil: se ci si attiene al titolo del capitolo, appare evidente che l'oggetto della critica sia il «marxismo», ma, leggendo il testo, si constata che nessun «marxista», nessuna corrente del «marxismo», né - come direbbe Ètienne Balibar - alcuno "dei" marxismi viene mai citato, e che alla fine le critiche di Weil sono tutte rivolte a Marx in persona. Da parte di Weil, questo può significare una pura e semplice assimilazione di Marx al (ai) marxismo(i): pertanto fa uso dell'espressione «Marx e i suoi seguaci», senza fare alcuna distinzione fra gli stessi «seguaci», e, soprattutto, inscrivendo tali «seguaci» in diretta continuità con Marx, sulla base di una qualche sorta di principio secondo cui essi sono tutti dei fedeli discepoli del maestro, ed hanno proseguito l'opera teorica e pratica sulla base dei principi di Marx stesso. Insomma, in breve, sembrerebbe che, per Weil, Marx ed il marxismo siano una sola ed unica cosa. Non la rimprovereremo qui per questo, considerando che questo gesto di assimilazione del marxismo allo stesso Marx è perfettamente comprensibile, essendo la Weil un'autrice che scrive nel 1934. Ciò detto, è proprio a partire da questi anni che comincia a diventare possibile non assimilare più immediatamente Marx ed il marxismo, e questo soprattutto proprio grazie alla pubblicazione nel 1932 dei "Manoscritti del 1844" e de "L'ideologia tedesca" - due testi che Simone Weil perciò aveva potuto conoscere quando aveva scritto le sue "riflessioni".
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Per una prima analisi del voto, e prospettiva del Partito Comunista
di Ufficio Politico Partito Comunista
L’esito delle elezioni europee in Italia ha segnato un generale avanzamento delle forze di destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia). I Cinque Stelle escono fortemente ridimensionati perdendo sia nei confronti del loro alleato di governo, che cannibalizza i consensi della coalizione, sia dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra.
I consensi ottenuti da Lega e Fdi ricalcano comunque l’area di voti per anni tenuta dal centrodestra e dal Pdl ai tempi di Berlusconi. La radicalizzazione a destra di quest’area è frutto della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, frutto delle precise responsabilità del gruppo dirigente renziano e della funzione del Movimento Cinque Stelle che ha traghettato una parte dei suoi voti verso la Lega.
La Lega si è accreditata negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame identitario, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzate dal mercato unico europeo. Ha cavalcato il tema della sicurezza per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi utile a colpire i lavoratori e le classi popolari.
Il Movimento Cinque Stelle paga il tradimento degli elementi più radicali della sua proposta che sono caduti ad uno ad uno di fronte alla contraddizione del governo nel sistema di compatibilità capitalistiche e con l’alleanza con la Lega.
La riarticolazione del peso delle forze di Governo spinge a ritenere probabile la futura caduta di questo esecutivo, prossimo a dover affrontare la finanziaria con clausole e politiche lacrime e sangue che i vertici europei e i settori del grande capitale italiano non ritengono più rimandabili per soddisfare le promesse elettorali.
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Lettera UE all'Italia
Le mosse da non sbagliare con l’Europa
Marco Biscella intervista Sergio Cesaratto
In arrivo lettera della Commissione sul debito pubblico. L’Italia dovrebbe rispondere con una proposta ragionevole: stabilizzazione del debito/Pil in cambio di tassi bassi
Lo spread sopra area 280 e il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, che annuncia: “Avrò uno scambio di vedute con il Governo italiano su misure aggiuntive che potrebbero essere richieste per essere in linea con le regole”. Il giorno prima, in conferenza stampa Matteo Salvini, forte del suo 34% di voti, aveva commentato così il risultato di domenica: “È in arrivo una lettera della Commissione europea sull’economia del nostro Paese e penso che gli italiani diano un mandato forte a me e al Governo di ridiscutere in maniera pacata parametri vecchi e superati”. Con un’idea ben precisa in testa: “Proviamo a salvare questa Europa, riportandola alle sue radici e al suo sogno originario. Sono convinto che il nuovo Parlamento europeo e la Commissione europea saranno amici dell’Italia. È cambiata la geografia in Europa”. Sarà davvero così? Come cambieranno i rapporti tra Italia e Unione europea? E soprattutto, su politiche espansive, lotta all’austerity e conti pubblici quali sponde troverà la Lega nel nuovo Parlamento europeo? Lo abbiamo chiesto a Sergio Cesaratto, professore di Economia politica all’Università di Siena, che si aspetta, per l’Italia, “una fase molto dura”.
* * * *
Salvini ha stravinto con il 34%. Come verrà preso questo risultato a Bruxelles?
Penso che verrà preso con estrema preoccupazione sull’Italia, visti i programmi, costosi, di sfondamento dei parametri europei propugnati da Salvini. Non sappiamo ancora come sarà la nuova Commissione, su quali equilibri si reggerà, se andiamo – ma non credo – verso un’Europa un po’ più aperta sulla politica economica o un’Europa che in fondo non cambierà. E’ vero, potrebbero entrare i Verdi, ma non sono una forza così progressista e sarebbero comunque in una posizione di debolezza e la loro presenza sarebbe controbilanciata anche dai Liberali. Magari però contano di più in Germania. E con la crisi del modello basato sull’industria automobilistica potrebbero battersi per un modello basato su piani europei di riconversione ecologica e quant’altro. Per ora sono però solo vaghi auspici.
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Risvegli
di Francesco Ciafaloni
Mi è capitato di recente di leggere o rileggere alcuni testi sulla riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro scritti più o meno un quarto di secolo fa, quando si discuteva di 35 ore, di autori che mi sono familiari, come Giovanni Mazzetti1 o Giorgio Lunghini.2 Mi sono reso conto che alcune delle tesi sostenute dagli autori, che avevo ben presenti venti anni fa, erano come sparite dal mio orizzonte mentale negli ultimi tempi. Avevo smesso di fatto di usarle per cercare di capire quello che succede tutti i giorni. Mi sono accorto di essermi come addormentato, intontito dalla eterna ripetizione delle tesi correnti: l’eccesso di spesa pubblica, la necessità di puntare sull’innovazione tecnica, sull’industria 4.0, la possibilità che si crei, all’interno del sistema produttivo, occupazione sostitutiva di quella distrutta dall’automazione, l’ossessione e la necessità della crescita del Pil. Venti anni fa erano vivi De Cecco, Graziani, Gallino, non c’era la resa culturale che ci sommerge ora. C’erano economisti, sociologi, storici autorevoli, che non si rifugiavano nel silenzio e avevano modo di esprimersi sui giornali maggiori. Oggi prevale l’imbarazzante ripetizione di parole senza senso, come “mercato”, inteso come il dispensatore di giudizi inappellabili di adeguatezza, positività, efficienza di qualsiasi iniziativa; “crescita” intesa come la tendenza naturale di tutti i paesi del mondo, a meno di colpe gravi dei loro cittadini, ad aumentare il Pil più o meno del 3% l’anno; “equilibrio”, inteso come la naturale, automatica, tendenza all’equilibrio tra domanda e offerta (“l’equilibrio è un caso”, avrebbe ribattuto Lunghini citando Marx). Eravamo abituati a distinguere tra economisti ortodossi ed eterodossi. Gli ortodossi avevano un bel sistema ma negavano l’evidenza della disoccupazione involontaria, della concentrazione della ricchezza, dell’uso del denaro per arricchirsi senza produrre. Gli eterodossi prendevano atto dello scandalo della disoccupazione (contro le tesi dell’equilibrio economico generale), delle altre emergenze impreviste che preparano la crisi prossima ventura. Ci si poteva schierare.
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Ancora sulle elezioni europee
(Qui il precedente)
Il mea culpa che dovrebbe fare il M5S
di Nicoletta Forcheri
Dove hanno sbagliato i 5s? E’ anni che sbagliano i 5s, è anni che glielo diciamo ma visto che UNO UGUALE UNO per loro non esistono pensatori, intellettuali, persone di cultura, ricercatori, da ascoltare più di altri. Anzi, chiunque abbia criticato, in questi anni, pubblicamente, era assimilato d’ufficio ai nemici del movimento.
Non si può spacciare per democrazia diretta una piattaforma informatica di proprietà di un imprenditore in odore di conflitto di interessi perché piazza i suoi uomini ed emana direttive all’interno del suo partito. O meglio si può, ma allora non è più democrazia diretta, è esattamente il suo contrario, un partito come altri. Lui non è stato votato, quindi perché dovrebbe valere più di uno?
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Elezioni europee: cambiare tutto per non cambiare niente
di Alessandro Somma
Le elezioni europee non ci consegnano un Parlamento dell’Unione dominato dai cosiddetti sovranisti: questi trionfano in alcuni Paesi, Italia in testa, ma arretrano in altri e complessivamente non sfondano, anche se incrementano la loro rappresentanza a Bruxelles. Non è però da simili dati che possiamo avere riscontro del peso che la destra xenofoba ha acquisito nel Vecchio continente. Il suo principale successo lo ha infatti ottenuto nel momento in cui è riuscita a cavalcare una particolare caricatura dello scontro politico in atto: quella per cui esso oppone Salvini e i suoi sodali a una composita alleanza che parte dal leader greco Tsipras e arriva sino al francese Macron.
Questa caricatura ha schiacciato il confronto elettorale entro uno schema tipicamente populista: da un lato i rappresentanti del popolo, i sovranisti, e dall’altro i rappresentanti delle élite, Socialisti e Popolari europei in testa.
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Euro: tutti si preparano alla rottura per limitare i danni?
di Giuseppe Masala*
Diciamocela tutta. L'Euro come moneta è moribonda dal 2011. Quando saltarono in aria Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda e l'Italia si salvò per il rotto della cuffia.
Da allora, piaccia o non piaccia la politica economica è cambiata: il controllo del saldo della partite correnti è diventato ferreo in tutti i paesi dell'area. Hanno iniziato a rientrare tutti compresa la Spagna che è passata da un 100% di pil di posizione finanziaria netta sull'estero all'85%. La strada è quella, inutile far finta di nulla. Ora, guardiamoci in faccia: non esiste una moneta dove ogni singola area della zona valutaria tenga rigidamente sotto controllo i conti con l'estero (considerando come estero aree che hanno la stessa moneta a corso legale).
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Questioni di fede
di Pino Cabras
Perfino il grande vincitore di queste elezioni europee in Italia, Matteo Salvini, non cede per ora alla tentazione di inquadrarle nel solo contesto italiano, dove sarebbe apparentemente più facile passare all’incasso di questo risultato per andare all’arrembaggio degli equilibri di governo. C’è un progetto più vasto e meno contingente.
Quel rosario sfoggiato nella sua conferenza stampa, pur maldestramente brandito con una curiosa simbologia di croce rovesciata (la impugna sempre a testa in giù), allude a un’operazione ideologica più estesa, di portata continentale, a cui Salvini partecipa con la protezione di Steve Bannon, il patrocinatore ideologico della campagna presidenziale di Trump.
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Elezioni europee: le rovine dopo la battaglia
di Jacques Sapir
Lucido e dettagliato come sempre, Jacques Sapir analizza i risultati delle elezioni europee in Francia.Per molti aspetti una lezione utile anche alle forze politiche italiane: mostra per esempio l’irrilevanza cui si sono condannate le diverse, microscopiche liste sovraniste, divise tra loro e ferme a percentuali insignificanti, utili solo alla dispersione del voto. Il crollo di La France Insoumise al 6,5% rappresenta inoltre il prezzo da pagare per una linea politica confusa, in cui ci si è voluti separare dai sovranisti di sinistra e ora tentata di condannarsi definitivamente all’ininfluenza se, a fronte della buona affermazione del RN, cederà a quell’antifascismo retorico e farlocco che conosciamo bene, in tutta la sua vacuità, anche in Italia. Nel complesso, la vera forza di Emmanuel Macron, punito dagli elettori, sta nella dispersione e frammentazione delle opposizioni
Successo non pienissimo per il Rassemblement National, sconfitta attenuata per En Marche, una mezza sorpresa per gli ambientalisti e opposizione per il resto atomizzata, sia a destra che a sinistra: ecco il panorama politico che sta emergendo dopo le elezioni europee. Se gli avversari di Macron vogliono contare qualcosa, dovranno avviare cambiamenti radicali.
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“Make Critical Theory Great Again”
di Collettivo Jaggernaut
Pubblichiamo qui la presentazione del primo numero della rivista Jaggernaut, uscito da poco in Francia. La rivista orbita nell’area della Wertkritik (Critica del valore), rispetto alla quale vuole rappresentare un punto di riferimento e un momento di approfondimento. Per maggiori info, invitiamo a visitare la loro pagina web a questo indirizzo
“Siamo ancora tenuti a creare il negativo; il positivo ci è già stato dato” (Franz Kafka, Terzo quaderno dei Diari)
“La libertà sarebbe non quella di scegliere tra il bianco e il nero, ma quella di voltare le spalle a questa scelta obbligata” (Adorno, Minima Moralia)
Per decenni, gli algerini soprannominarono il quotidiano governativo del loro paese “Tutto va bene, (madama la marchesa)”. Si assicurava che grazie alla saggezza del governo i cittadini vivevano nel migliore dei mondi possibili, e che presto i problemi residui sarebbero stati risolti. Oggi un simile rapporto con la verità resiste ancora in una parte del mondo. Ma, almeno nel mondo “occidentale e libero”, è considerato arcaico. Non che i governi siano diventati più avveduti e umili. Semplicemente sanno che bugie del genere non reggono più.
In realtà, il cittadino contemporaneo sa di essere circondato da pericoli mortali, ai quali nessuno può promettere di porre rimedio senza scatenare immediatamente le risa. Catastrofi ovunque. Ciascuno può pensare, secondo la sua sensibilità personale, che il peggio sia la disoccupazione di massa o il riscaldamento climatico, il razzismo o l’immigrazione “incontrollata”, la corruzione o la persistenza delle diseguaglianze, l’inquinamento o la perdita del potere d’acquisto. Catastrofi ce ne sono e la prospettiva è negativa, come dicono le agenzie di rating.
Non è necessario essere ferocemente “contro il sistema” per fare ammettere pressoché a chiunque che le cose vanno malissimo. Basta leggere un giornale borghese di media qualità per convincersene ogni giorno che passa di più. Da questo punto di vista, sarebbe fatica inutile fondare una nuova rivista per diffondere la cattiva novella.
Ma se si tratta di accertare le cause dei mali presenti il discorso è ben diverso! Il soggetto contemporaneo si trova di fronte a una miriade di tentativi di spiegazione, il cui fattore comune è quello di non averne nessuno, e di spezzettarsi in un oceano di spiegazioni parziali.
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Pantomima UE: esito, cause ed effetti
di Fulvio Grimaldi
Tutto un paese nel buco nero insieme a 5 stelle?
Il gioco è, per i ragazzini come noi, il classico rimedio alla rabbia, al dolore, alla noia e alla tristezza. Purchè non sia un videogioco e lo si giochi in tanti. A rimediare allo scorno inflitto dai risultati a tutti coloro che non si sono fatti abbindolare dai monopolaristi dell’ordine imperiale esistente, né dai pigolii di una Sinistra che insiste a trasformare il voto in bolle di sapone, propongo il seguente giochino statistico: su cento, quali sono le cause in percentuali che assegniamo allo schianto dei 5 Stelle? Perché del resto non fa conto occuparci. In Europa è la conferma di una struttura che incarcera i popoli e non li fa parlare neanche dietro al vetro divisorio. Da noi è stato l’apice di una catastrofe meticolosamente preparata, da almeno trent’anni a questa parte. Ma anche da molto prima. Trasformeremo in calcolo le nostre valutazioni, a prescindere, ovviamente, dalle balle passate, presenti e future che, sul trapasso dei Cinque Stelle, verranno sparate dai vincitori, tutti delegati e commessi viaggiatori del Capitale Globalizzante, vuoi di marca George Soros (sinistre farlocche, avanzi di Storia e Verdi), vuoi tentacoli dello Stato Profondo militarfinanziario internazionale (tutti i partiti pro UE-Nato).
Ultradestra? Il bue, l’asino e le corna
Sono quelli che, per esorcizzare il loro fare la spesa al servizio dell’élite, danno a tutti gli altri la qualifica di ultradestra, xenofobi, fascisti, pensando di salvare anima e voti mettendosi dal lato buono di una dicotomia che, dai tempi di Gaber, ha poco senso, ma molto nonsense. E’ la teppa benvestita, ben nutrita e mai sazia dei “da Macron a Tsipras”.
Qualcuno, come i Verdi, è stato rimesso in pista dai manovratori della nuova accumulazione capitalista green mimetizzati da bambina svedese.
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Europa, le domande mal poste e le risposte da cercare
di Giuseppe Montalbano
Il ritorno alle monete nazionali come soluzione alla crisi dell'Ue si rivela superficiale tanto quanto l'europeismo ingenuo. Il cambiamento passa dall'analisi del modello produttivo e finanziario europeo
Per dare risposte alla profonda crisi economica, sociale e democratica dell’integrazione europea, bisogna innanzitutto farsi le giuste domande. Al contrario, nel recente dibattito a sinistra sulla crisi europea e sulle possibili vie d’uscita si tende ad azzuffarsi sulle risposte, perdendo di vista proprio le domande. Ci troviamo così con diverse risposte ottime e sbagliate, perché formulate a partire da questioni mal poste.
L’uscita unilaterale dall’euro come soluzione alla crisi europea è, in questo senso, la «risposta alla domanda sbagliata», come scrivono Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua in Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea (Rosenberg e Sellier, 2019). Un libro che mette in discussione gli stessi interrogativi e spiegazioni sulla crisi offerti dagli approcci eterodossi e postkeynesiani che fanno da sfondo al dibattito sull’euro a sinistra. Problematizzando in particolare le premesse di quelle risposte «troppo semplici» di chi propone l’uscita dalla moneta unica e il ritorno a politiche fiscali espansive. Senza offrire facili ricette alternative, ma al contrario complicando il quadro dell’analisi, il problema della moneta unica e della sua crisi viene ridefinito nei termini di una questione più generale: quella delle trasformazioni e contraddizioni dei capitalismi europei contemporanei entro cui ha fatto la sua comparsa l’euro. Una prospettiva di sistema e di lungo periodo particolarmente utile per provare a tirarci fuori, a sinistra, dalle secche di una discussione polarizzata fra euroscetticismo senza appello ed europeismo ingenuo.
Da dove cominciare per porre le domande “corrette” sull’euro e la sua crisi? Per prima cosa allargando la visuale. Da una parte l’Unione economica e monetaria (Uem) è stata il portato di una ristrutturazione dei capitalismi nazionali nel Continente nel quadro della deregolamentazione dei mercati finanziari a livello internazionale, seguita alla rottura degli accordi di Bretton Woods.
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Chiusura di una fase e apertura di un’altra
di Domenico Moro, Fabio Nobile
Il periodo attuale è uno dei peggiori di sempre, sia per il movimento comunista sia per la classi subalterne, in Europa e soprattutto in Italia. Le trasformazioni dell’economia mondiale hanno indebolito la classe lavoratrice europea occidentale, esponendola all’aggressione del mercato autoregolato, che ha ridotto occupazione e salari reali, nel mentre si annullava, attraverso l’integrazione europea, la sovranità democratica, sancita dalla Costituzione, ossia la capacità delle classi subalterne di incidere sulle decisioni di politica economica e sociale.
Le profonde trasformazioni economiche hanno avuto come necessario corrispettivo modifiche politiche altrettanto profonde. Il crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti ha contribuito pesantemente al peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, e in Italia ha contribuito a trasformare il Pci, separandolo in due tronconi. Uno, il più grande, si è trasformato in partito liberaldemocratico, che da subito si è collocato a destra, facendosi alfiere dell’integrazione economica e valutaria europea e rappresentante del grande capitale internazionalizzato. Soprattutto, questo troncone è stato fautore del maggioritario, che ha spostato al centro, cioè sugli interessi dello strato superiore del capitale, l’asse della politica. Ciò si è tradotto nella trasformazione profonda del nostro Paese, attraverso massicce privatizzazioni e pesanti controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, e del welfare.
Il Partito della rifondazione comunista (Prc) ha raccolto il più piccolo dei due tronconi in cui si era diviso il Pci, aggregando anche una serie di altre organizzazioni e di individualità, che non accettavano di identificare la fine dell’Urss con la fine della prospettiva socialista. Il nome stesso del partito è significativo del senso originario del progetto: non la riproposizione sic e simpliciter del Pci ma, correttamente, la rifondazione di una teoria e di una pratica comuniste e adatte a un’epoca nuova. In realtà, negli ultimi anni la “Rifondazione” è stata intesa in modo diverso da parte della maggioranza del Partito, cioè come presa di distanza da quella parte del movimento comunista legata alla storia dell’Urss e identificata in quanto tale come “stalinista”.
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Sulla giustizia
di Salvatore Bravo
La scomparsa delle parole
Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci, i tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, tanto più signoreggiano i dominanti quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica, il fondamento, la casa della politica come della comunità, parafrasando Heidegger, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme, il riferimento è alla perenna scenetta tragicomica Di Maio-Salvini. In realtà non si tratta di casi politici, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni politiche segnate dai processo liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio, al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.
La parola della politica, della comunità di cui nessuno osa proferire parola, è la parola giustizia. La filosofia politica dell’occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci, si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti.
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Dall’anima semovente al ‘soggetto automatico’
Stratificazioni filosofiche nel concetto di ‘capitale’ e nell’analisi marxiana del sistema di macchine
di Luca Micaloni*
1. Introduzione
Nel corso dei capitoli XII e XIII del Libro primo del Capitale l’applicazione delle macchine alla produzione acquisisce una crescente centralità teorica. Se nell’indagine dedicata al “periodo” della manifattura le macchine svolgono un ruolo ancora secondario rispetto al principio “architettonico” della «divisione del lavoro», esse divengono invece elemento decisivo nell’analisi della grande industria, sia ove la si consideri come specifica fase evolutiva del modo di produzione capitalistico, sia quando si abbia di mira una connotazione rigorosa del suo ruolo “sistematico” come tappa dell’esposizione del Capitale.
Il passaggio d’epoca e il mutamento del principio strutturante sono riferiti già dai titoli: Divisione del lavoro e manifattura per il cap. XII, Macchine [Maschinerie] e grande industria per il capitolo XIII. Mentre la funzione economico-politica della Maschinerie (come anche della divisione del lavoro) si annuncia già nella collocazione dei capitoli: entrambi, assieme al capitolo XI sulla Cooperazione, compongono infatti la sezione quarta del Libro primo, che ha per oggetto La produzione del plusvalore relativo. Già capace di sussumere la forza-lavoro “formalmente” attraverso l’anticipazione del salario e di estrarre, mediante l’uso della forza-lavoro, un plusvalore «assoluto» in seguito al prolungamento della giornata lavorativa ripartita in «lavoro necessario» e «pluslavoro», ora il capitale è in grado – in forza di successive ottimizzazioni o “rivoluzioni” tecnologiche – di massimizzare il plusvalore «relativo» (diminuire, cioè, il lavoro necessario attraverso l’intensificazione del lavoro e la maggiore efficienza dei processi, mantenendo costante la durata della giornata lavorativa); il capitale riesce, inoltre, a perfezionare la sussunzione della forza-lavoro sottraendo ai suoi portatori il controllo dell’attività lavorativa, affidandone la regolazione alla quota della sua parte “fissa” costituita dalle macchine, prodotte e impiegate grazie alle «potenze intellettuali [geistige]» che si separano dal lavoro esecutivo e gli si contrappongono come «poteri del capitale sul lavoro» (Marx 1991, 381; trad. it. 462).
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Circa Roberta De Monticelli, Stati Uniti d’Europa e filosofia
di Alessandro Visalli
Su Il Manifesto, che una volta era un giornale comunista, è pubblicato un interessante articolo della filosofa Roberta De Monticelli[1] la cui corposa biografia intellettuale è tutta spesa in direzione dell’approfondimento della fenomenologia con una chiarissima ispirazione religiosa. In termini di storia delle idee si tratta di una linea culturale illustre e pienamente legittima, come le rivendicazioni che ne conseguono, ma, altrettanto chiaramente, del tutto aliena alla tradizione socialista, come la chiusa dell’articolo esprime con estrema nettezza. L’articolo va letto quindi come un cartello stradale, si deve scegliere dove andare.
La sinistra storica vi è accusata senza mezzi termini di cecità “all’orizzonte cosmopolitico della società giusta”; la rivendicazione della tradizione cristiana nella costruzione europea (persino citando in posizione strategica il riferimento di Spinelli, molto noto, ad uno dei padri dell’ordoliberalismo tedesco) è netta, perfettamente legittima e storicamente sostenibile. Certo, questa presa di posizione contro l’eurofederalismo di Lelio Basso (che, richiesto, rifiuta di firmare il Manifesto per estraneità al socialismo), di Nenni, Pertini e di Togliatti, ripetuta in modo netto negli anni cinquanta e sessanta, e progressivamente attenuata nei settanta (per essere poi, nei successori, rovesciata a partire dagli ottanta), e quindi di tutte le sinistre socialiste e comuniste, è qualificata dall’autore enfaticamente come “la tragedia”. Certo, svolge una funzione di cerniera essenziale un breve passaggio di una lettera di Spinelli a Ropke, nella quale questi chiarisce sinteticamente il suo abbandono del marxismo in favore del personalismo.
Tutto giusto e logico.
Potrebbe, casomai, sembrare curioso che un giornale che si qualifica “comunista”, e viene da altra tradizione, pubblichi un articolo che starebbe perfettamente a suo agio su “Civiltà cattolica”.
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Cacciari e l'Europa
di Franco Di Giorgi
I. – A differenza di quanto si è indotti a credere, a generare l’euroscetticismo e l’antieuropeismo dei populisti e dei sovranisti, ossia il fenomeno degli attuali neonazionalismi, non è affatto l’eccessiva e invadente presenza dell’Europa, ma, al contrario, è l’effetto di una sconcertante e deludente assenza d’Europa. Questa la tesi che il 13 marzo Massimo Cacciari ha sostenuto e sviluppato in una conferenza tenuta nelle Officine H di Ivrea. Un impegno di cui, in vista delle prossime elezioni europee (certo decisive sotto molti aspetti per gli equilibri non solo internazionali), non molti intellettuali in verità si incaricano.
Questa antinomia dell’Europa unita si deve al fatto che i momenti attuativi di questa «eurotopia» (così l’ha definita l’ex presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini) hanno coinciso con il pieno sviluppo del neoliberismo. Malgrado la fiducia e le speranze iniziali, sempre più i fatti e la storia hanno purtroppo evidenziato l’inconciliabilità dei due progetti. Non ci può essere infatti né unione né visione europea là dove domina l’ideologia neoliberista. La prima ha come fine la formazione e la nascita dell’individuo europeo, la seconda mira solo all’individuo, sotto qualsiasi emisfero si trovi. L’individuo europeo reca in sé l’idea di cittadinanza europea, riflesso dell’antico ideale cosmopolitico, l’individuo neoliberista, al contrario, è pensato all’interno di un universo monadico in cui ogni legame sociale, solidale e realmente spirituale va dissolto e sostituito con la rete messa a disposizione dalla nuova tecnologia, ossia da una spiritualità virtuale. Nell’idea di cittadino europeo c’è il desiderio di realizzare un vero zoon politikon, frutto di una comunità globale fondata sulle differenze, in quella dell’individuo neoliberista persiste invece (nonostante tutto) l’inclinazione, il vizio identitario. Sicché, mentre il primo viene collocato e trova il proprio posto nella moltitudine, il secondo viene gettato in quella virale solitudine che riesce ad alleviare solo con l’uso di uno smartphone messo subdolamente a disposizione dal sistema.
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Le illusioni del postmodernismo
di Alessandra Ciattini
C’è sicuramente un legame tra il postmodernismo e il tardo capitalismo. Vediamo insieme quale
Sicuramente il lavoro che cercherò di esporre è qualcosa più grande di me, nonostante mi sia avvalsa del brillante pamphlet di Eagleton (Le illusioni del postmodernismo, 1998); ma senza sfide non si avanza né si migliora.
Molti hanno sottolineato la complessità del pensiero di Marx, mettendo in evidenza che è nello stesso tempo un economista, un filosofo, uno storico, dotato di grande vigore letterario e in questo senso un artista, oltre a richiamarsi a principi di carattere etico-politico, anche se ovviamente non ha parlato in maniera sistematica di etica. Questo suo ultimo aspetto è stato ferocemente criticato da quelli autori che, sulla scia di Max Weber, hanno identificato la scienza con il pensiero avalutativo e che hanno considerato il marxismo per il suo messaggio emancipatorio e per il costante richiamo all’impegno militante una forma di messianismo o di religione.
Con i miei grandi limiti e forse con una certa dose di ingenuo avventurismo ho cercato di ispirarmi a questa impostazione di Marx, che ne fa un autore straordinario, cercando i vari aspetti della fase storica che stiamo vivendo, in alcuni casi certamente da incompetente, ma tentando di sollecitare il vostro contributo ai temi presentati.
Prima di avanzare nel ragionamento vorrei sottolineare alcuni temi e sono sollecitata a questo dalle questioni poste dal nostro dibattito. Primo: la mia impostazione non è quella di affermare come stanno effettivamente le cose, ma quella di descrivere un problema teorico, indicando le varie posizioni per arrivare attraverso argomentazioni a delle conclusioni valide, che facciano luce sull’esistente. Il presupposto di partenza, che cercherò di dimostrare, sta nel fatto che il postmodernismo, corrente culturale trasversale, e l’attuale fase capitalistica sono tra loro connessi, e che il primo, radicato nella rivisitazione di tematiche antiche, nasce dai caratteri propri di quest’ultima.
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Elezioni europee
E' andata peggio
di Norberto Fragiacomo
Poteva andar male: è andata peggio.
Gli esiti della consultazione europea di ieri ribaltano quelli delle politiche di un anno fa, e non soltanto perché 5Stelle e Lega si sono “scambiati” le percentuali, a tutto vantaggio di quest’ultima: se nella primavera del 2018 gli elettori avevano posto una forte domanda di cambiamento[1] ora sembrano essere ritornati sui propri passi, esprimendo un voto che definirei reazionario.
Non alludo esclusivamente al plebiscito in favore della Lega, che ha sedotto oltre il 34% degli italiani (di quelli votanti, s’intende, ma i dati sull’astensione rientrano nella norma): mi vorrei soffermare anche sull’avanzata di un PD non meno invotabile di quello naufragato nelle urne 14 mesi orsono.
La Lega, anzitutto: è lei il vincitore di giornata. Comincio col fare ammenda: ero convinto – e l’ho detto – che negli ultimi tempi Salvini avesse smarrito il senso della misura, andando “fuori giri”, e che il mix di buffonate sanfediste, smargiassate e difese a oltranza dell’indifendibile gli sarebbe costato non poco in termini di popolarità e consenso.
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Bandolo di matassa
di Pierluigi Fagan
Pensierino sul voto per le elezioni europee. Il tema Europa oggi è una matassa di fili intrecciati che vanno dal neo-liberismo al sovranismo, dal cosmopolitismo al nazionalismo, dai migranti alla geopolitica, le destre, le sinistre, i non ci sono più né-le-destre-né-le sinistre, le globalizzazioni, la moneta sovrana, il futuro federato, la lenta dissipazione demografica, la democrazia dei pochi o dei molti, la Cina e Trump, l’euro e la neuro, la paranoia ambientale e quella post-umana. In questo universo multidimensionale, ognuno trova la sua posizione e poi immagina una strada orientandosi a seconda delle sue immediate vicinanze. Ogni posizione è auto fondata e contraria ad un’altra altrettanto auto fondata. Ma a prescindere da tutto ciò, “Europa” è un problema di che tipo? fondato dove e da cosa?
Europa è una mera espressione geografica che include una cinquantina di stati per lo più anche nazioni, la più alta concentrazione di stati, circa il 25%, sul solo 3% delle terre emerse. E’ la geo-storia ad averla fatta così spezzettata e ricca di diversità. Purtroppo, questa geo-storia appartiene al passato, un passato in cui Europa o era relativamente autonoma ed isolata dal mondo (fino al XV secolo) o lo dominava (fino al XX secolo).
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Tutto come prima, niente come prima
di ilsimplicissimus
Una cosa sembra chiara: gli europei cominciano a non poterne più dell’Europa oligarchica, ma dopo decenni di devastazione politica che ha ucciso i partiti e creato una enorme confusione intellettuale ed emotiva, essi non hanno più gli strumenti per esprimere lucidamente questa volontà trovandosi in definitiva a scegliere tra un fronte conservatore o comunque dello status quo e uno movimentista di natura varia e incerta spesso di destra o raramente di sinistra come in Portogallo, ma ormai battezzata come sovranismo: insomma i votanti debbono accontentarsi di giocare con le mattonelle di lego a disposizione molte volte create o deformate dagli stessi poteri che dominano il continente. Certo è difficile vedere delle linee di tendenza in questo bailamme, al di là di un a generale crescita delle formazioni critiche, ma potremmo cominciare col distinguere alcune zolle continentali: quella italo francese con annessa la Gran Bretagna, quella nord mitteleuropea e quella degli ex Paesi dell’est.
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Prima la visione del mondo, poi la coalizione
di Riccardo Paccosi
Il tracollo de La Sinistra ma anche, in Francia, la batosta presa da Melenchon, credo dimostrino come la sinistra cosiddetta "radicale" sia vittima di un obnubilamento che precede di molto la definzione di programmi e strategie, giacché riguarda i fondamenti logici e cognitivi della politica.
In sintesi, tutti i re-assemblement verificatisi a sinistra nell'ultimo decennio, hanno attribuito priorità al processo coalizionale di gruppi e partiti, rimandando sempre a data da destinarsi il chiarimento dei punti più controversi sull'agenda politica.
All'interno della sinistra "radicale", convive infatti chi aspira allo stato unico europeo e chi invece punta al rilancio delle sovranità costituzionali; chi persegue il deregolazionismo per ciò che riguarda i flussi migratori e chi, al contrario, ritiene tale prospettiva come facente gli interessi delle classi dominanti.
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Dove va l'UE?
di Pierluigi Fagan
Lettori e lettrici sanno che qui si rimane attaccati possibilmente ai fatti e poi si liberano le opinioni. La premessa è per dire che con post del 15 aprile, informavo sulle stime dei sondaggi europei. Alcuni opinavano che i sondaggi valgono quello che valgono ma rispondevo che la struttura delle elezioni europee, ripartite tra diversi gruppi e tra parecchi stati, annullava di molto i possibili margini di errore.
Nel post si dava conto di tre fatti: 1) popolari e socialdemocratici non avrebbero sicuramente più avuto la maggioranza ed avrebbero dovuto cooptare i liberali (confermato), 2) la somma dei due gruppi che è improprio etichettare entrambi come sovranisti (EFD M5S e Farage + ENF ovvero Salvini-Le Pen), avrebbero raggiunto circa 116 deputati complessivi (pare ne avranno 114); 3) la partita politica più interessante poiché indecisa e potenzialmente quasi clamorosa, sarebbe stato il voto francese dove le previsioni non sapevano dire se la vittoria sarebbe andata a Le Pen o Macron (ha poi vinto Le Pen). Il post ebbe 14, miseri, like.
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Il suicidio delle sinistre lemming
di Carlo Formenti
Prima impressione a botta calda sull'esito elettorale. Dovessi scrivere un articolo sul tema lo intitolerei "Il suicidio delle sinistre lemming". Come saprete, i lemming sono dei simpatici roditori che vivono nelle zone artiche e che, periodicamente, si suicidano in massa gettandosi in mare per motivi non del tutto chiari. Secondo alcuni l'evento sarebbe associato a una pulsione istintuale che scatta quando la loro popolazione cresce troppo rapidamente in rapporto alle risorse alimentari disponibili.
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A noi Orwell ci fa un baffo
di Andrea Zhok
Dati alla mano, in UE si formerà un governo fotocopia del precedente, solo un po’ più magro e incattivito, un governo formato da PPE, PSE + i liberaldemocratici di ALDE.
Sarà questa maggioranza che eleggerà il prossimo presidente della BCE, e visto lo scampato pericolo sarà finalmente uno deciso a mettere in riga i paesi che turbano il guidatore – cioè il governo della finanza.
E, sappiatelo, ne ha tutti i mezzi, perché a quel signore eletto sostanzialmente dall’azionista di maggioranza (Germania) abbiamo consegnato il potere assoluto sui nostri conti pubblici, sui nostri investimenti, sulla nostra solvibilità.
A occhio e croce direi che la propaganda europeista ha vinto nei limiti in cui poteva vincere. Nelle salde mani dei ‘competenti’ l’Europa si avvia ad altri 5 anni di agonia, in cui qualunque iniziativa che non sia ‘market-friendly’ verrà bombardata come indecoroso populismo. In Italia ci verranno ripetute le solite incredibili idiozie sul debito pubblico come debito del ‘buon padre di famiglia’, della necessità di stringere ancora un po’ la cinghia, di svendere ancora quel po’ di patrimonio pubblico rimasto, e ci verrà soprattutto innestata ancora più in profondità l’idea che “non c’è alternativa”.
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Fuochi d’artificio elettorali. C’è davvero da spaventarsi?
di Francesco Piccioni
Guardando ai risultati elettorali europei ed italiani non si sfugge a un’impressione decisamente contraddittoria. La prima reazione, di fronte al “trionfo” della Lega e in generale delle destre xenofobe/razziste, è chiedersi “dove posso emigrare”? La seconda, altrettanto immediata, è che tutto ciò non sia del tutto reale.
Intendiamoci subito: i voti sono quelli, chiarissimi. E non si deve far finta di nulla.
La Lega sbraitante ha superato il 34%, i Cinque Stelle sono stati dimezzati, il Pd ha avuto il classico “rimbalzo del gatto morto” (dopo una caduta da grandi altezze) risalendo al 22,7%, Berlusconi ha rinviato il decesso raccogliendo quasi il 9 (quasi la metà di un anno fa, e pare addirittura un mezzo successo), i nostalgici della Meloni prendono un 6,5% che sembra oro.
Il resto è poca roba, importante solo per le analisi autoconsolatorie che seguono una sconfitta, quando gli zero virgola in più o meno devono essere enfatizzati al massimo per “tenere le truppe” ed evitare la fuga disordinata.
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I costi economici e sociali del Fiscal Compact
di Giovanna Ciaffi, Matteo Deleidi, Enrico Sergio Levrero
Nel corso degli ultimi 20 anni la direzione seguita a livello europeo è stata quella di una crescente rigidità nelle regole fiscali anche oltre quanto già previsto dal Trattato di Maastricht del 1992, fino ad arrivare, nel marzo del 2012, al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Economica e Monetaria, noto come Fiscal Compact e firmato da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca. Come è noto, il Fiscal Compact prevede il rispetto di due regole principali in materia di finanza pubblica: (i) un sostanziale pareggio di bilancio, o più precisamente, il divieto per il deficit strutturale del settore pubblico di superare lo 0,5% del Pil nel corso di un ciclo economico; e (ii) che il rapporto debito pubblico/Pil scenda ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia-obiettivo del 60% prevista nel Trattato di Maastricht.
Per quanto dal 2012 la Commissione Europea abbia concesso ai diversi Stati, tra cui l’Italia, deroghe alle regole imposte dal Fiscal Compact, ci si può chiedere – anche alla luce di alcune proposte di riforma che ne prospettano un inasprimento in vista di una possibile politica fiscale europea[1] – cosa accadrebbe se si imponesse ai singoli Stati anche solo il puntuale rispetto delle regole fiscali finora previste. In particolare, ci si può chiedere quali effetti diverse regole di politica fiscale potrebbero avere sull’andamento del rapporto debito pubblico/Pil.
Per rispondere a questa domanda va anzitutto notato che a base del Fiscal Compact e delle posizioni della Commissione Europea vi è l’idea che i deficit fiscali si traducano in una riduzione degli investimenti privati ed abbiano un effetto negativo sulle potenzialità di crescita del sistema economico. Diverso è il punto di vista keynesiano: in economie che normalmente funzionano al di sotto dei loro livelli di piena occupazione, la spesa pubblica avrà un effetto espansivo sul reddito sia direttamente che per effetto dell’aumento degli investimenti privati che l’incremento di spesa pubblica e quindi del reddito potrà determinare.
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Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea
Una risposta a Roberta De Monticelli
di Andrea Zhok
In calce la risposta di Roberta De Monticelli e una replica di Andrea Zhok
Oggi è apparso sul Manifesto un articolo della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo: Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia. Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.
Al netto del condivisibile sconforto per l’attuale campagna elettorale, si potrebbe notare come la contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad un sistema ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere contrattuale dei lavoratori.
Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale. Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.
Due argomenti giocano un ruolo centrale.
Il primo vede nell’Unione Europea
“il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”
Il secondo specifica il carattere di questo ‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:
“Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”
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General Intellect e individuo sociale nei Grundrisse marxiani
di Toni Negri
Conferenza alla Volkshbühne, Berlino, 29 aprile 2019. Questa conferenza non è stata tenuta per malattia dell’autore. La pubblichiamo qui
1. Non so dirvi quanto sia lieto di presentare e commentare alla Volkshbühne la traduzione tedesca di Marx oltre Marx per la prestigiosa casa editrice berlinese Dietz Verlag. È un libro scritto alla fine del lungo decennio ’68-’79, nel quale fui immerso nella lotta di classe in Italia e in Europa, a partire da lezioni tenute nel 1978 a Parigi all’École normale supérieure, su invito di Louis Althusser.
Questo libro nacque da una rilettura dei Grundrisse per mettere Marx all’altezza delle lotte di quegli anni, nella speranza di una rivoluzione di classe operaia. Questo libro ha attraversato le lotte e si è conquistato un destino, riaffermando Marx come sorgente di soggettivazione rivoluzionaria. È il caso di dire: habent sua fata libella.
2. Riprendere questo libro oggi (e con esso questo Marx) che cosa ci dice? O, se vogliamo dirlo in termini meno legati a questo volume e alle vicende che lo ispirarono, che cosa possono dirci i Grundrisse nella/della situazione del capitalismo oggi?
Per rispondere è necessario preliminarmente riconoscere le caratteristiche precipue, fondamentali, del capitalismo nel XXI secolo.
Ricorderemo essenzialmente, in primo luogo, il dominio del capitale finanziario; in secondo luogo, le dimensioni estrattive, logistiche e biopolitiche dell’accumulazione capitalista oggi; e in terzo luogo cercheremo di definire i nuovi spazi della soggettivazione anticapitalista e della lotta di classe oggi.
2.1. Sul primo punto. È chiaro che, integrando la teoria del capitale finanziario che si legge nel III volume del Capitale e il “Capitolo sul denaro” dei Grundrisse, si apre ad un aspetto fondamentale del capitalismo odierno.
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