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Franco CFA
Tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere
di Thomas Fazi
Franco CFA. Fino a poco tempo fa queste due parole non avrebbero significato un granché per la maggior parte degli italiani. Oggi, invece, il termine è entrato nel dibattito pubblico anche da noi, grazie alle dichiarazioni di alcuni noti politici italiani, che hanno scatenato un’aspra crisi diplomatica tra Roma e Parigi. Dunque, chi segue la cronaca politica sa probabilmente che il franco CFA è una valuta utilizzata da una serie di paesi africani e soggetta alla tutela più o meno esplicita e più o meno disinteressata – a seconda dello schieramento del dibattito a cui si è scelto di credere – della Francia. Tuttavia per i più la questione rimane a dir poco fumosa. Vediamo dunque di fare chiarezza una volta per tutte.
Tanto per cominciare, quando parliamo di franco CFA, parliamo in realtà di due unioni monetarie: la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC), di cui fanno parte il Camerun, il Gabon, il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica del Congo; e l’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), che comprende il Benin, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau, il Mali, il Niger, il Senegal e il Togo.
Queste due unioni monetarie usano due franchi CFA distinti, che però condividono lo stesso acronimo: per il franco della zona CEMAC, CFA sta per “Cooperazione finanziaria in Africa centrale”, mentre per il franco dell’EUMOA sta per “Comunità finanziaria africana”. Ad ogni modo, questi due franchi CFA funzionano esattamente alla stessa maniera e sono ancorati all’euro con la stessa parità di cambio. Insieme a un quindicesimo Stato – l’Unione delle Comore, che usa un franco distinto ma soggetto alle stesse regole – formano la cosiddetta “zona del franco”. Complessivamente, più di centosessantadue milioni di persone usano i due franchi CFA (più il franco delle Comore), secondo i dati ONU del 2015.
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Il tabu del debito pubblico nasconde chi ci guadagna
di Claudio Conti
Il debito pubblico, spiegava Marx, è l’unica cosa davvero comune a tutta la popolazione in una società divisa in classi. Come per ogni “bene comune”, però – per quanto “negativo” come il debito – c’è sempre una modo per avvantaggiare alcuni a scapito di altri.
Fuori da ogni disputa ideologica – che è “falsa coscienza”, ovvero “narrazione” fasulla per coprire il reale – occorre guardare a questo debito con occhi decisamente diversi da quelli totalmente strabici di un Cottarelli, Giannini, Alesina, Giavazzi, Monti e via cantando sulle note dell’austerità.
Un editoriale di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza aiuta – come spesso ci accade – a chiarire alcuni dettagli che svuotano di senso quella narrazione, illuminando su altre soluzioni. Quelle proposte da Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e riprese da questo editoriale, non sono ovviamente le nostre. Ma mostrano quasi fisicamente che si possono seguire altre strade anche restando in ambito totalmente capitalistico.
Ma, se si possono seguire altre persino garantendo al mondo del business di continuare a far soldi, allora sono possibili anche starde che portano da tutt’altra parte. In entrambi i casi – ed è questo l’interessante – viene distrutta la narrazione per cui “non c’è alternativa”. Un’autentica tortura mediatica (pensiamo solo alla quantità di volte che Carlo Cottarelli viene invitato da Fabio Fazio o Paolo Floris…) che ha anestetizzato le capacità critiche soprattutto della cosiddtta “sinistra”, incapace oggi persino di articolare un pensiero senzato di fronte alla più devastante delle domande: “ma dove si trovano i soldi?”.
La strada dell’a.d. di Banca Intesa, per esempio, rivela che non solo “i soldi ci sono”, e in misura persino eccessiva rispetto allo scopo di abbattere il debito pubblico, ma soprattutto che quella domanda retorica da talk show nasconde gli interessi reali che hanno guadagnato ricchezze colossali:
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La globalizzazione e l’economia
intervista a Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto, professore ordinario nel Dipartimento di Economia Politica e statistica dell’Università degli Studi di Siena, da sempre economista eterodosso e ormai punto di riferimento della divulgazione dell’economia classica in Italia. Ha recentemente pubblicato due importanti libri che hanno fatto molto successo: Chi non rispetta le regole? del 2018 e Sei lezioni di Economia del 2016, dimostrandosi ancora una volta come importante voce critica della sinistra e dei processi di involuzione che la stanno attraversando.
* * * *
Osservatorio Globalizzazione: Ormai a quasi trent’anni dall’inizio del processo di globalizzazione in senso neoliberale, possiamo provare a tracciarne un bilancio, lei cosa ne pensa?
Sergio Cesaratto: Per molti versi il processo di globalizzazione era ineludibile con l’entrata nel capitalismo e nel mercato mondiale di molti Paesi che erano un tempo chiamati del Terzo Mondo. L’espansione dell’esercito industriale di riserva anche attraverso la delocalizzazione delle produzioni in quei Paesi, ha tuttavia comportato l’indebolimento del movimento operaio e delle conquiste nei Paesi di più antica industrializzazione. Quindi il bilancio per noi è negativo sul piano dei diritti sociali.Simmetricamente all’esplosione della globalizzazione vi è stato il crollo del modello socialista. Questo, forse più della globalizzazione, ha fatto crollare l’idea stessa di una alternativa al capitalismo – in un certo senso la traiettoria cinese del capitalismo guidato dallo Stato, esperienza peraltro non nuova, può essere vista anche in questa luce. La crisi verticale della sinistra è tutta qui. Senza un modello socio-economico alternativo, rimangono solo le utopie, le belle parole, i diritti civili, mentre le masse popolari guardano altrove, purtroppo a destra. E questo è naturalmente paradossale, perché a destra non c’è nessuna vera alternativa, anzi.
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Brexit and Exit
di Italo Nobile*
Abituato a fare appelli a Capi di Stato, Sting ha esortato il suo paese a ripensarci sulla Brexit1. E’ la notizia più frivola su un processo che, dopo le incertezze ed un dibattito parlamentare fatto di bocciature e rinvii2, è stato da più parti derubricato a pasticcio3 e ad errore. Perciò è necessario analizzarlo un po’ meglio cercando di restituire ad esso lo spessore che merita.
L’Unione Europea e l’euro sono le forme assunte negli ultimi decenni nel nostro continente dalle politiche neoliberiste, per quanto queste ultime si fossero già parzialmente affermate a livello nazionale in molte parti del mondo negli anni Ottanta (Usa, Gb ma anche Francia e Italia) e Novanta (paesi dell’Est Europa e poi Russia).
La crisi del modello di accumulazione capitalistico degli anni Settanta5 ha portato alla globalizzazione (intesa come strategia liberoscambista di abbattimento delle barriere alla circolazione mondiale di merci e di capitali)6 e dunque ai processi di riorganizzazione capitalistica volti a risolvere (con implicazioni contraddittorie) le crisi mediante l’espansione industriale e/o finanziaria all’esterno e la riduzione del salario e del welfare all’interno7.
Ciò accelerava sia la competizione tra Stati e anche tra intere aree economiche8 sia la creazione di macroregioni che garantissero una sufficiente centralizzazione di capitale per competere al meglio. Non è un caso che la difficile costruzione dell’Unione Europea si è resa necessaria tra nazioni che erano o sconfitte nell’ultima guerra o vincitrici grazie all’intervento di una nazione più forte. Non è un caso che tale costruzione si sia accelerata quando l’unificazione tedesca rischiava di destabilizzarla9 e quando è stato chiaro che il tempo avrebbe giocato a sfavore delle nazioni europee isolatamente considerate.
Non dimentichiamo che la quota del commercio mondiale detenuta dalle singole nazioni europee è costantemente diminuita nel corso di questi anni (la grande Germania è passata dal 9,43% del 1994 al 7,48% del 2014, la Francia dal 7,06 al 3,97, il Regno Unito dal 6,43 al 4,01, l’Italia dal 4,63 al 2,65, i Paesi Bassi e la Spagna sono rimasti allo stesso livello e cioè 3,9 e 1,9)10.
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Benvenuti nel reale antropocene: fase due
di Roberto Paura
Il fondatore del transumanesimo, Max More, pubblicò online, nel 1999, una celebre Lettera a Madre Natura. Con un tono più ironico e senza dubbio più diretto di quello usato da Giacomo Leopardi nel rivolgersi alla stessa interlocutrice un paio di secoli prima, More osserva che, pur avendoci la Natura fornito una serie di doni importanti (“il massimo controllo del pianeta”, “un’aspettativa di vita fra le più lunghe del regno animale”, “un cervello complesso”), al tempo stesso essa si è dimostrata avara su numerosi aspetti:
“Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci hai obbligati a invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a diventare saggi. Sei stata un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali. Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobici” (More, 1999).
Le accuse di More sono senz’altro giuste, ma d’altronde, a pensarci bene, cosa potrebbero dire gli altri animali, se potessero esprimere qualche critica a Madre Natura? Di sicuro, tra tutti, siamo stati i più fortunati, gli unici a essersi evoluti fino a raggiungere un’autocoscienza complessa e una capacità di modificare noi stessi e il resto della natura. Pensatori come Thomas Ligotti, così come numerosi filosofi del passato, hanno messo in dubbio il fatto che la nostra intelligenza sia un beneficio, dato che comporta, come effetto collaterale, una dose di preoccupazioni non indifferenti. Non è nemmeno da escludersi che molti animali possano considerare i nostri presunti “benefici” come “maledizioni”, qualora potessero spingersi a un simile livello di consapevolezza. Ma, secondo la visione del transumanesimo, che è poi la filosofia alla base dell’accelerazione tecnologica dei nostri tempi, il nostro compito dovrebbe essere quello di potenziare l’essere umano per affrancarlo dal suo determinismo biologico, attraverso la tecnologia.
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Euro: una questione di classe
di Thomas Fazi
Ringraziando Stefano Tancredi, Robin Piazzo e Domenico Cerabona Ferrari per il bell'incontro di ieri a Settimo Torinese, riporto il testo del mio intervento, in cui rispondevo alla seguente domanda: «Un singolo Stato può “reggere” dal punto di vista economico l’uscita dalla realtà economica neoliberista dell’UE? Se “no” perché? È più opportuno un processo di riforme economiche nel contesto europeo? Come rapportarsi ai vincoli economici imposti dall’UE? Se si può “reggere” questa uscita come? Quali strategie adottare? Si deve ritornare alla propria moneta? È possibile un’alleanza economica con altri Stati dalla struttura economica più simile alla nostra?»
La prima cosa da dire è che c’è poco da scegliere. O meglio, la scelta non è se uscire dall’UE o se riformare l’UE, per il semplice fatto che quest’ultima opzione non è praticabile.
L’UE è strutturata in maniera tale da non essere riformabile, perlomeno non nel senso che auspicano gli integrazionisti di sinistra, cioè nella direzione di una riforma dell’UE in senso democratico e progressivo/sociale, men che meno nella direzione di un vero e proprio Stato federale sul modello degli Stati Uniti o dell’Australia.
Come disse il compianto Luciano Gallino poco prima di morire: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”».
Basti pensare che per “riformare i trattati” è necessaria l’unanimità di tutti e 28 gli Stati membri dell’UE. In altre parole, sarebbe necessario che in tutti e 28 i paesi dell’UE salissero al potere dei governi progressisti che condividono le stesse prospettive di riforma “di sinistra” dell’euro. Ora, non bisogna essere particolarmente pessimisti per capire perché questo non accadrà mai.
E non accadrà mai innanzitutto perché le condizioni economiche, politiche, sociali, ecc. che si registrano nei diversi Stati sono estremamente eterogenee: ci sono paesi che registrano tassi di disoccupazione estremamente bassi (come la Germania) e paesi come il nostro che registrano tassi di disoccupazione altissimi; ci sono paesi che crescono e paesi che non crescono, ecc.
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Come ci siamo ridotti così? Risvegliamoci!
di Francesco Ciafaloni
Mi è capitato di recente di leggere o rileggere alcuni testi sulla riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro scritti più o meno un quarto di secolo fa, quando si discuteva di 35 ore, di autori che mi sono familiari, come Giovanni Mazzetti (Teoria generale della necessità di redistribuire l’orario di lavoro) o Giorgio Lunghini (Introduzione a L’ABC dell’economia, di Ezra Pound).
Mi sono reso conto che alcune delle tesi sostenute dagli autori, che avevo ben presenti venti anni fa, erano come sparite dal mio orizzonte mentale negli ultimi tempi. Avevo smesso di fatto di usarle per cercare di capire quello che succede tutti i giorni. Mi sono accorto di essermi come addormentato, intontito dall’eterna ripetizione delle tesi correnti: l’eccesso di spesa pubblica, la necessità di puntare sull’innovazione tecnica e sull’industria 4.0, la possibilità che si crei, all’interno del sistema produttivo, occupazione sostitutiva di quella distrutta dall’automazione, l’ossessione e la necessità della crescita del PIL.
Venti anni fa erano vivi De Cecco, Graziani, Gallino, non c’era la resa culturale che ci sommerge ora. C’erano economisti, sociologi, storici autorevoli, che non si rifugiavano nel silenzio e avevano modo di esprimersi sui giornali maggiori. Oggi prevale l’imbarazzante ripetizione di parole senza senso, come “mercato”, inteso come il dispensatore di giudizi inappellabili di adeguatezza, positività, efficienza di qualsiasi iniziativa; “crescita” intesa come la tendenza naturale di tutti i Paesi del mondo, a meno di colpe gravi dei loro cittadini, ad aumentare il PIL più o meno del 3% l’anno; “equilibrio”, inteso come la naturale, automatica, tendenza all’equilibrio tra domanda e offerta («l’equilibrio è un caso», avrebbe ribattuto Lunghini citando Marx).
Eravamo abituati a distinguere tra economisti ortodossi ed eterodossi. Gli ortodossi avevano un bel sistema ma negavano l’evidenza della disoccupazione involontaria, della concentrazione della ricchezza, dell’uso del denaro per arricchirsi senza produrre.
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La cultura nel capitalismo assoluto
di Salvatore Bravo
Con la cultura non si mangia
La parola cultura ha subito un processo di deflazione del suo significato, al punto che nel 2010 il ministro dell’economia Tremonti affermò che con la cultura non si mangia. La verità torna sempre a galla malgrado i raggiri ideologici, e Tremonti ha espresso la verità del liberismo postborghese nel quale non vi è posto per il pensiero, per la formazione, ma solo per il calcolo, per il consumo dell’essere e dell’esserci.
Il giudizio ideologico di Tremonti non esaurisce i significati della parola cultura, per nostra fortuna, ma esprime l’imbarbarimento della condizione attuale. La cultura fine a se stessa o al servizio della persona è uno scandalo (dal greco skàndalon inciampo) da respingere, non si può inciampare e fermare il consumo, essa è un’ insostenibile trasgressione alla struttura economica che sta consumando l’intero pianeta (su otto milioni di specie di viventi un milione è a rischio estinzione secondo i calcoli dell’ONU).
In verità La cultura è radicale ed antitetica rispetto al capitalismo assoluto: in primis essa è portatrice di valori universali ed in quanto tali, non vendibili, in secundis l’etimologia della parola ci suggerisce il suo essere altro rispetto al tempo del capitalismo cultura (dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare»), essa è attività e temporalità della formazione, il tempo della cultura tesse il presente nel suo ordito, nella sua distensione riannoda ella continuità teleologica ciò che era disperso. Il capitalismo assoluto si esaurisce nell’immediatezza, è sciolto da ogni legame temporale e comunitario, pertanto è estraneo alla domanda sul senso, sostituita dal calcolo, dal silenzio degli enti che devono corrispondere al solo utile immediato.
Una difficile definizione
La cultura è una parola polisemica, nel corso della storia le sono stata attribuite innumerevoli significati, ciò malgrado ogni definizione si attuava in tensione con altre configurazioni simboliche.
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La natura sociale dell’Unione Europea*
di Ernesto Screpanti
Il secondo appuntamento del Maggio filosofico 2019 è per Giovedì 16 maggio alle ore 21:00, presso la Biblioteca comunale Don Milani di Rastignano e ha per oggetto l’Europa nella storia: gli Stati Uniti (capitalistici) di Europa. Infatti l’attuale Unione Europea è l’unità asimmetrica di nazioni con un “centro” e una “periferia” dove il centro esporta merci e acquista titoli pubblici “periferici” rendendosi creditore di una periferia che si indebita. Ma nell’interesse di chi? Non pare proprio in quello dei salariati sia del centro che della periferia…
L’Unione Europea non è un’unione politica con una costituzione approvata dai popoli. È un’entità statale (di fatto se non di diritto) costituita con trattati internazionali che si sovrappongo alle costituzioni nazionali tentando di demolirle (Russo, 2017). Gli organismi politici che determinano le sue politiche monetarie e fiscali sono la Banca Centrale Europa e il governo tedesco, e nessuno dei due è responsabile verso i popoli europei.
Il ruolo del governo tedesco merita di essere chiarito. Il predominio della Germania sull’economia europea si era affermato già dagli anni ’70, e divenne ingombrante dopo l’unificazione tedesca del 1990. Con la fondazione dell’Unione è accaduto che i governi di quel paese sono riusciti a conquistare per la sua industria vantaggi competitivi senza precedenti. Con le riforme Hartz (2003-2005) e le politiche fiscali restrittive, la crescita salariale è stata posta sotto controllo, completando un processo avviato già negli anni ’90. Inoltre le imprese tedesche hanno esteso le loro catene del valore verso i paesi dell’Est europeo (e in parte del Sud), dove i salari sono più bassi che in Germania. In questa maniera l’industria tedesca ha avuto un costo del lavoro che è cresciuto sistematicamente di meno rispetto a quello dei principali concorrenti, in particolare Francia, Italia e Spagna. Ciò ha permesso alla Germania di mantenere un elevato e crescente surplus commerciale, spingendo i paesi del Sud Europa verso il deficit del conto corrente (l’Italia e la Spagna fino al 2012, la Francia ancora oggi).
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Luoghi comuni. Smart city a chi?
di Giovanna Sissa e Giulio De Petra
Articolo pubblicato (pp. 59 – 66) sul primo numero di “Luoghi Comuni” (Castelvecchi Editore). Qui disponibile l’intero numero
Smart
L’aggettivo smart è stato associato a qualunque sostantivo, dal frigorifero alle reti elettriche, per indicare un miglioramento, un superamento di qualche limite. Ma se il sostantivo che diventa smart non è più un oggetto fisico, il significato ammiccante dell’aggettivo qualificativo – paradigmatico dell’innovazione digitale – diviene rarefatto. Un telefono smart si può supporre che abbia più funzioni di uno normale, così come un termometro o un palo della luce, ma che cosa è il lavoro smart, e soprattutto, che cosa è una città smart? Nessuno si permetterebbe di dire che la Roma antica, la Firenze rinascimentale o la Parigi della Belle Époque fossero città stupide, dunque erano città intelligenti: così una smart city dovrebbe per definizione essere qualcosa di più. Ma cosa?
Se cercate una definizione di smart city ne troverete moltissime, nessuna precisa e dunque troppe. Si parla di smart city da molto tempo. Possiamo datare l’introduzione del termine alla fine degli anni Novanta ed attribuirla a IBM. Nei primissimi anni 2000 il termine smart city si afferma a partire dagli USA e si diffonde sia nel nord che nel sud del mondo, dove lo sviluppo di mega metropoli, in Cina come India, dà un forte impulso alla creazione, talvolta ex novo – di nuove città smart. In Europa si impone a cavallo dei primi due decenni del nuovo millennio. Nel report Mapping smart cities in the EU (2014) la smart city è definita «una città che cerca di affrontare le sue emergenze più significative attraverso l’utilizzo intenso e innovativo delle tecnologie digitali». La città smart, a seconda dell’ambito di utilizzo che si intende promuovere, diventa Knowledge city, sustainable city, talented City, wired city, digital city, eco-city. Le smart cities europee sono inizialmente identificate come città con almeno una iniziativa rivolta a una fra le seguenti sei caratteristiche: smart governance, smart people, smart living, smart mobility, smart economy e smart environment.
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I gilets jaunes e la stampa italiana. Lettera aperta a “il Manifesto”
Gentile Redazione de “il Manifesto”,
siamo un gruppo di italiane/i che risiedono a Parigi per ragioni di studio o di lavoro e che partecipano da ormai più di cinque mesi al movimento dei Gilet Gialli. Vi scriviamo per manifestarvi il nostro sdegno a fronte del trattamento riservato nelle pagine del vostro giornale, nella penna di Anna Maria Merlo, vostra corrispondente a Parigi, al sollevamento in atto – e in Atti – dei Gilet Gialli, nonché alla questione politica e sociale che, con inedita forza, esso continua a porre, in Francia e in Europa – dunque, potrebbe darsi, anche in Italia. Ci rivolgiamo a voi, e non ad altri quotidiani nazionali, perché convinti che “il Manifesto” sia luogo di confronto e diffusione di informazioni critiche, nonché voce delle lotte del presente. Tuttavia, malgrado alcune rare ma felici eccezioni[1], la maniera in cui il vostro quotidiano ha parlato finora del movimento francese, attraverso gli articoli dell’autrice, ha prodotto in noi sconcerto e rabbia.
Prima di entrare nel merito, e per capirci meglio, lasciateci un attimo “contestualizzare”.
Il movimento dei Gilet Gialli continua a manifestare la sua forza nell’insieme del territorio francese e in alcuni territori d’oltremare da ben venticinque sabati consecutivi: ciononostante, quando se ne parla in Italia, lo si fa soltanto basandosi sulle cifre del Ministero dell’Interno francese, dati certamente poco attendibili ad oggi.
Per comprendere come non si tratti di qualcosa di passeggero ma di una profonda trasformazione nella storia sociale e politica del paese, dovrebbe bastare, in controluce, la reazione del potere costituito: da novembre ad oggi il sovrano Macron ha dovuto reagire con due “solenni” discorsi alla nazione, una lettera indirizzata ai francesi, una lettera agli europei, e un “Gran Dibattito Nazionale”, che ha assunto il senso di un confuso rilancio, nella crisi profonda del suo governo, della sua politica “start-up”.
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La sinistra, la Cina, la globalizzazione
di Romeo Orlandi*
Riproponiamo dal numero dell’autunno 2018 di Critica marxista il saggio di Romeo Orlandi ‘La sinistra, la Cina, la globalizzazione’, con due note redazionali
Lo scontro USA Cina dentro questa globalizzazione si fa sempre più complesso e rischioso. L’ottimismo ideologico del libero mercato si era spinto irragionevolmente, coinvolgendo anche tutte le sinistre compresa la nostra, a pensare che la globalizzazione sarebbe stata di segno occidentale e che la bandiera della democrazia sarebbe sventolata a Pechino e a Shanghai. E’ successo invece il contrario, la Cina è tutto fuorché democratica ma produce sempre di più e meglio mentre l’Italia punta ancora sul fascino antiquato del made in Italy piuttosto che sull’innovazione.
I fatti mostrano la loro proverbiale ostinazione anche quando registrano gli spostamenti dei container. Sette dei primi otto porti al mondo per tonnellaggio movimentato sono in Cina; Singapore (4°) costituisce l’eccezione. Il porto europeo più trafficato è Rotterdam, confuso al nono posto tra altre posizioni asiatiche e qualche intromissione australiana e statunitense. Alcuni decenni fa la lista era molto diversa, con un predominio delle due sponde dell’Atlantico. Spuntava ancora Genova. La classifica attuale è la fotografia più nitida della trasformazione della Cina in Fabbrica del Mondo. Si potrebbe obiettare che le merci movimentate siano destinate anche al mercato locale, così da ridurre l’impatto internazionale, come se i consumi interni assorbissero questa eclatante supremazia. In realtà, la grande maggioranza delle merci cinesi si dirige verso lidi stranieri. La Repubblica popolare è infatti dal 2009 il più grande esportatore al mondo, dopo avere insidiato e poi superato agevolmente il primato della Germania e degli Stati Uniti.
La sequenza logica che se ne ricava rasenta la banalità espositiva: i porti movimentano i container, che trasportano le merci, prodotte dalle fabbriche, generate dagli investimenti, stimolati dalle opportunità. Sembra di assistere alla famosa cantilena Alla fiera dell’Est.
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Vento dall'Est
La nuova via della seta
di Giovanna Baer
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente cinese XI Jinping hanno firmato a Roma il 23 marzo scorso un importante Memorandum d'intesa tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative (BRI), un enorme programma di investimenti cinesi in infrastrutture lungo la cosiddetta Via della Seta: una definizione che comprende diverse antiche rotte commerciali, terrestri, marittime e fluviali di circa 8.000 chilometri, lungo le quali fin dai tempi di Erodoto si sono snodati gli scambi culturali e commerciali tra Oriente e Occidente. La firma del Memorandum ha reso la visita di Xi particolarmente attesa e rilevante. I media ne hanno ampiamente seguito la cronaca e discusso, per la magnitudine del progetto - in termini di portata economica e di durata temporale - ma soprattutto perché l'Italia è il primo Paese del G7 a partecipare ufficialmente alla BRI, e questa partnership potrebbe modificare la politica estera e mettere in crisi la storica alleanza con gli Stati Uniti - lasceremo da parte in questa analisi la questione della rete 5G perché articolata e meriterebbe un articolo a sé.
One Belt One Road
Nel settembre del 2013 Xi Jinping ha tenuto un discorso in Kazakistan, all'università di Nazarbaev, dal titolo suggestivo: "Promuovere l'amicizia fra i nostri popoli e lavorare insieme per creare un luminoso futuro" (1). Vi sottolineava che "per forgiare legami economici più stretti, migliorare il livello di cooperazione ed espandere lo spazio di sviluppo nella regione euroasiatica, dovremmo scegliere un approccio innovativo e unire gli sforzi per costruire una cintura economica lungo la Via della Seta. Potremmo iniziare con investimenti in singole aree e congiungerle nel tempo per connettere l'intera regione".
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Robin contro l’output gap
di Carlo Clericetti
Altro che Robin Hood, il nostro eroe è Robin Brooks. Che non è un ribelle che vive nascosto, anzi: è – pensate un po’ – un economista mainstream. Laurea a Yale, master alla London school, poi Fondo monetario (8 anni) e Goldman Sachs. E ora è capo economista all’Iif, Institute of International Finance, che magari non è molto conosciuto dal grande pubblico, ma è tra le più importanti lobby della finanza: basti sapere che ha rappresentato le banche nei negoziati sul regolamento di Basilea 3 e i creditori in quelli sul debito greco del 2011-12. Insomma, un personaggio che si muove nelle stanze del potere, il potere vero.
E come mai ci piace tanto? Perché ha iniziato una battaglia contro l’utilizzo, da parte della Commissione europea e del Fondo monetario, dell’output gap, che è uno dei meccanismi infernali utilizzati per dare giudizi sull’economia di un paese e decidere i limiti della sua politica di bilancio. Brooks ha persino coniato un acronimo, CANOO, che sta per Campaign against Nonsense Output Gaps, ossia Campagna contro gli insensati output gaps, e produce grafici che mostrano come questo parametro sia completamente sballato e il suo utilizzo abbia effetti devastanti sulle politiche economiche.
Prima di mostrarveli ricordiamo in breve che cosa sia l’output gap. Quando un paese è in recessione, la grande maggioranza degli economisti, sia pure con varie sfumature, concordano sul fatto che la politica di bilancio debba essere espansiva, ossia che lo Stato debba spendere di più per sostenere l’economia. Negli anni passati non c’era questo largo consenso, ma questa è un’altra storia che sarebbe troppo lungo raccontare. Però siamo solo all’inizio del problema, perché, secondo la teoria economica dominante, la maggiore spesa può avere effetto solo quando il paese in questione è al di sotto del suo prodotto potenziale, cioè quello che si otterrebbe se tutti i fattori della produzione – lavoro, capitali – fossero utilizzati al meglio. Altrimenti, quella maggiore spesa non farebbe altro che far aumentare il debito e scatenare l’inflazione.
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Osare dichiarare la morte del capitalismo, prima che ci trascini tutti con sé
di Francesco Piccioni
Questo fulminante articolo di George Monbiot, apparso sul Guardian qualche giorno fa, pone il problema del superamento del capitalismo in termini ultimativi. E’ apparentemente paradossale che sia un pensatore liberal a porre la questione in termini tanto drammatici, ma a noi sembra invece assolutamente normale.
Se “è l’essere sociale a determinare la coscienza, non viceversa”, allora si può arrivare a conclusioni identiche pur partendo da premesse totalmente differenti. Naturalmente bisogna pensare con coerenza ed onestà intellettuale, senza cercare “soluzioni ad hoc” che riducano la difficoltà di far coincidere andamento oggettivo del mondo e desideri individuali o collettivi. Il “princìpio speranza”, insomma, è l’anticamera della disperazione.
Monbiot parte dall’ambiente, mentre noi comunisti siamo storicamente sempre partiti dallo sfruttamento del lavoro. Entrambi i termini – lavoro umano e natura – si pongono allo stesso tempo come risorse e limiti del capitale. Il capitalismo usa questi fattori per crescere, ma arrivaoggettivamente al punto in cui un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento di queste risorse diventa fisicamente impossibile e quindi si apre la crisi del sistema di produzione capitalistico.
Sul piano dello sfruttamento del lavoro umano – unica fonte da cui è possibile estrarre plusvalore– il limite viene approssimato proprio in questi anni con lo sviluppo dell’automazione. Un robot fa le stesse cose di un operaio o di un impiegato, lo fa in modo più veloce e preciso, non sciopera e non protesta mai (basta fare la manutenzione…), non va retribuito. Peccato che non compri nulla. Il massimo di capacità produttiva coincide dunque con la tendenziale distruzione dei consumatori.
Salta qui una delle contrapposizioni ideologiche che hanno fatto la fortuna del neoliberismo negli ultimi 40 anni, quella tra consumatori e lavoratori; per cui bisogna(va) ridurre al minimo il costo del lavoro (salario, contributi previdenziali, stato sociale, diritti, ecc) per abbassare al massimo i prezzi, conquistare i consumatori e battere la “concorrenza”.
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L’insegnamento non è una missione, ma un compito sociale
di Carlo Scognamiglio
Nutro il sospetto che siano molti, moltissimi, gli insegnanti disorientati dall’imprevedibile dinamica trasformativa delle linee guida ministeriali o delle raccomandazioni europee, in merito al significato pubblico dell’istruzione. Uno smarrimento comprensibile, perché a tratti la nostra scuola appare resistente a ogni cambiamento, mentre in altre fasi tutto sembra correre, sebbene in modo scomposto. Mi interessa solo in parte, adesso, l’individuazione delle ragioni di un simile disorientamento. È però vero che sempre più, nella società a frammentazione attentiva in cui siamo immersi, è necessario fermarsi a riflettere, analizzare documenti e normative in costante aggiornamento, formarsi e confrontarsi e – come raccomanda Werner Herzog – bisogna leggere, leggere, leggere.
Sono importanti le connessioni tra passato e presente, tra politica e pedagogia, tra ragione ed emozione. Il lavoro dell’intellettuale è proprio quello di annodare i fili isolati, di approfondire e poi recuperare una visione d’insieme. E l’insegnante, mi piace ricordarlo, è – e deve rimanere – un intellettuale.
Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, un docente e una giornalista, hanno recentemente deciso di riaprire un discorso pubblico sulla pedagogia gramsciana, con un libro intenso, edito da “L’asino d’oro” (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, 2018), impreziosito da una breve ma bella prefazione di Marco Revelli.
Lavorare sui testi di Gramsci non è facile, e non è sbagliata l’idea di liberarsi dallo smarrimento di cui scrivevo in apertura, attraverso l’ancoraggio a un solido pilastro della tradizione culturale italiana, che fu egli stesso maestro, e molta cura dedicò al tema dell’educazione. È del tutto evidente l’intenzione dei due autori di ridefinire un orizzonte categoriale e ideale noto (sebbene dimenticato) per fronteggiare alcune superficialità del dibattito pedagogico contemporaneo. L’operazione, in tal senso, riesce e non riesce, nonostante la bellezza del libro. Proverò a soffermarmi su tre passaggi-chiave del testo, per poi provare a raccogliere in sintesi l’effetto.
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Capitale e Fascismo
di Thomas Meyer
Editoriale [*1] del n°16 della rivista Exit!, maggio 2019
«Se, come è purtroppo possibile, noi dobbiamo perire, facciamo almeno in modo di non scomparire senza essere prima esistiti. Le forze considerevoli che dobbiamo combattere si apprestano ad annientarci; e certo esse possono impedirci di esistere pienamente, cioè di imprimere al mondo il suggello della nostra volontà. Ma c'è un settore in cui esse sono senz'altro impotenti. Esse infatti non possono impedirci di sforzarci a comprendere con chiarezza l'oggetto dei nostri sforzi. Se non ci sarà dato di realizzare ciò che vogliamo, potremo almeno averlo voluto, e non solo desiderato alla cieca. D'altra parte, la nostra debolezza può certo impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza che ci schiaccia.»
(Simone Weil, da "Oppressione e Libertà", 1934) [*2])
«Chi non vuole parlare del capitale dovrebbe tacere sul fascismo». Oggi, questa frase di Horkheimer è ancora valida, e dovrebbe essere ampliata dell'altro: chi non vuole parlare della costituzione feticista della società della dissociazione-valore, dovrebbe tacere anche a proposito delle lotte sociali. Non c'è dubbio che la «costituzione sociale» si trova sempre più al centro dell'attenzione, soprattutto vista nel contesto della vittoria elettorale di Donald Trump avvenuta due anni fa. Sono molti quelli che, in questo processo, hanno criticato il fatto che la «classe operaia» avesse smesso da tempo d'occupare un posto centrale, e che ora ci fosse una classe media di sinistra concentrata sulla «politica identitaria» e sulle «questioni LGBT», ragion per cui i lavoratori e le lavoratrici avrebbero optato per Trump. Queste critiche possono essere corrette nella misura in cui la borghesia di sinistra si è, di fatto, poco interessata alla «sotto-classe sociale», ai lavoratori poveri, la cui miseria è diventata ormai da tempo innegabile (i senzatetto, gli anziani che raccolgono bottiglie per convertirle in pochi euro fanno ormai parte del quotidiano) ed ha raggiunto anche la classe media. Tuttavia, sono fuori strada coloro che pretendono che il razzismo abbia la sua vera causa nell'impoverimento di questi ultimi anni, come a più riprese ha sottolineato la nazional-sociale Sarah Wagenknecht.
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Accumulazione di capitale e ruolo dell’innovazione
di Maurizio Donato
La dinamica valorizzazione – svalorizzazione nel rapporto tra innovazione e accumulazione
Nel primo trimestre del 2019 il ‘valore’ mondiale delle obbligazioni a tassi negativi è tornato ad avvicinarsi ai livelli massimi toccati nell’estate del 2016. Da allora, a riportare in alto i tassi nominali spingendo al rialzo anche i rendimenti delle obbligazioni è stata unicamente la ripresa nelle aspettative di inflazione. Questo obiettivo, una maggiore inflazione, è stato al centro dell’impegno delle banche centraliche dal 2009 hanno iniettato quasi 20mila miliardi di dollari attraverso numerose politiche espansive. Ma evidentemente una politica monetaria pure ultra-accomodante non serve o non basta: i problemi dell’economia sono ‘reali’.
Secondo gli economisti del periodo classico, affinché possa ripartire il meccanismo di accumulazione, una parte significativa del capitale in eccesso sulle possibilità medie di valorizzazione deve essere svalutato o distrutto, non solo capitale nella sua forma monetaria, ma capitale costante, merci nella loro duplice natura di valori d’uso e valore tout-court, e capitale variabile, la forza-lavoro pagata al suo valore, la cui svalutazione continua sta comportando conseguenze almeno altrettanto paradossali e ben più tragiche dei tassi di interesse negativi.
Non performing capital
Nel succedersi dei cicli economici è normale che una parte dello stock di capitale esistente resti interamente o parzialmente inattiva, mentre il resto viene valorizzato ad un saggio di profitto inferiore al massimo teorico possibile proprio a causa della pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo. Una parte dei mezzi di produzione, del capitale fisso e del capitale circolante periodicamente cessa di agire come capitale, una parte delle imprese produttive in azione resta inoperosa; la direzione della traiettoria, il segno del rapporto tra valorizzazione e svalorizzazione, dipende dalla forza della concorrenza che decide quale e quanta frazione del capitale globale debba nei diversi casi particolari essere condannata all’inoperosità.
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L’albero filosofico del Ténéré
di Fernanda Mazzoli
Recensione di Salvatore A. Bravo: L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve, Ed. Pétite Plaisance, 2019
Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.
L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.
La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte terza
Lettera da lontano, correzioni da vicino: censura o rimaneggiamento?
di Lars T. Lih
Pubblichiamo la parte terza di questo scritto di Lih, l'unica che mancava dei sette che il sito Traduzioni marxiste ha meritoriamente messo in rete e che a suo tempo non eravamo riusciti a reperire. In ogni caso in fondo all'articolo abbiamo inserito l'elenco completo con i link
L’interpretazione corrente del bolscevismo nel 1917 basata sul concetto di “riarmo del partito” è una narrazione avvincente e altamente drammatica, che può essere riassunta, grosso modo, nel modo seguente: il vecchio bolscevismo era stato reso irrilevante dalla Rivoluzione di febbraio, i bolscevichi in Russia si trovarono in affanno sino al ritorno di Lenin, il quale provvedette al riarmo del partito, e quest’ultimo, successivamente, si divise riguardo a questioni fondamentali nel corso di tutto quell’anno. L’unità del partito venne infine restaurata – quantomeno in una certa misura – dopo che gli altri principali esponenti bolscevichi cedettero alla superiore forza di volontà di Lenin. Solo in tal modo il partito intraprese quel riarmo che lo dotò di una nuova strategia, una strategia che proclamava il carattere socialista della rivoluzione – una condizione essenziale della vittoria bolscevica in ottobre.
Osservatori con punti di vista politici significativamente contrastanti avevano tutti le loro ragioni per sostenere una qualche versione della narrazione del riarmo [1]. Questa sembrò trovare duplice conferma quando, negli anni Cinquanta, divenne noto che la versione della prima lettera da lontano di Lenin, pubblicata dalla Pravda nel marzo 1917, era stata pesantemente emendata, con la rimozione di circa un quarto del testo. Fatto divenuto la base di un vivido e persuasivo aneddoto su come i bolscevichi di Pietrogrado, esterrefatti e impauriti, avrebbero censurato Lenin, il loro stesso vozhd [guida, leader, n.d.t.].
Ecco come viene generalmente raccontata questa storia: ai primi del marzo 1917, subito dopo la caduta dello zar, Lenin esponeva la propria reazione agli sconvolgimenti russi in quattro cosiddette Lettere da lontano, servendosi delle succinte notizie di cui disponeva in Svizzera. Ma i bolscevichi di Pietrogrado si mostrarono assai scandalizzati da quanto espresso nelle Lettere di Lenin, e questo a causa di audaci innovazioni in fondamentale rottura col vecchio bolscevismo. Il turbamento suscitato dall’audacia di Lenin nei redattori della Pravda fu tale che questi rifiutarono di pubblicare tre delle Lettere da lontano, e anche la sola che venne effettivamente diffusa subì pesanti censure, con tagli che ne sfiguravano l’essenza del messaggio.
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Unicredit e il destino delle banche europee
di Vincenzo Comito
Il destino di Unicredit si lega alla crisi delle tedesche Commerzbank e Deutsche Bank e alla possibile fusione con Société Générale. La punta dell’iceberg del riassetto del sistema bancario europeo e mondiale
Unicredit al centro dell’attenzione
Non capita di frequente che delle banche italiane si parli con molto rilievo nella stampa internazionale, se non in occasione di possibili crisi delle stesse. Ma in queste settimane le vicende di Unicredit sono state al centro dell’attenzione del mondo politico e finanziario europeo ed oltre; e questo, oltre che per la pesante multa comminata dagli Stati Uniti alla banca (alcune delle cui filiali, in particolare quella tedesca, avrebbero infranto le sanzioni all’Iran e ad altri Paesi),anche per il suo interesse all’acquisizione della tedesca Commerzbank e/o (non è chiaro) per una possibile fusione con la francese Société Générale, nonché infine per una possibile multa che potrebbe essere comminata all’istituto dalla Commissione Europea per una supposta violazione delle norme antitrust, sempre da parte della filiale tedesca (la violazione avrebbe peraltro interessato anche altre sette banche del nostro continente).
Partendo in particolare dalle citate ipotesi di fusione, si può cercare di sviluppare qualche ragionamento più ampio intorno allo Stato e alle prospettive delle grandi banche del nostro continente.
L’ipotesi di acquisizione
L’Unicredit, come del resto più in generale il sistema bancario italiano, sono usciti da poco da una grave crisi. A suo tempo l’istituto aveva avviato una strategia di grande espansione all’estero, in Europa e nel resto del mondo, che era arrivata a toccare anche le lontane steppe dell’Asia centrale; tali sviluppi (insieme alla crisi economica del nostro Paese, con i conseguenti grandi strascichi di crediti inesigibili),avevano condotto dei gravi guasti nei bilanci aziendali, mentre l’istituto, solo da poco, è tornato alla normalità attraverso un durissimo piano di ristrutturazione ed un fortissimo aumento di capitale.
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Sull'alternanza scuola-lavoro
di Salvatore Bravo
La verità del capitalismo assoluto
Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo, il capitalismo eguaglia in nome del valore di scambio, demofobico per necessità, addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio, ovvero attraverso l’addestramento al lavoro nell’istituzione scolastica, si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di una imprecisa quantità di denaro, obolo per il consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino1 :
”Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci”.
L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale, si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. E’ necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.
Formare alla plebe
L’integralismo economicistico nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente.
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Venezuela o di un giardino di casa alquanto riottoso
di Gianfranco Greco
“La corda è sempre più tesa e può rompersi (o essere rotta) in qualsiasi momento, trascinandoci in un caos ben più pericoloso di quello libico.” (Manlio Dinucci, Il Manifesto 16 aprile 2019)
Che uno scadente comico da avanspettacolo si possa autoproclamare presidente della “Republica de Venezuela” ci può anche stare. L’area caraibica è stata interessata, nel corso di una storia più che decennale da episodi di tal genere. Guaidò ne è l’ultimo sguaiato esempio. Ci sta invece un po’ meno che a schierarsi col presidente in carica, Maduro, ci sia, oltre alla Cina e Russia, la Turchia di Erdogan. Un po’ di sconcerto lo suscita in quanto oggetto di riferimento è un alleato storico degli Stati Uniti, membro tra i primi della Nato, nonché solerte cane da guardia posto ai confini meridionali dell’ex Unione Sovietica. La crisi dei missili di Cuba – ottobre 1962 – scoppiò in conseguenza del dispiegamento sull’isola caraibica, da parte dell’URSS, di missili balistici proprio in risposta a quelli dispiegati dagli States in Turchia. L’attuale contesto sembra offrirci una riedizione di quella crisi laddove l’arrivo in Venezuela di due aerei militari russi unitamente ad un centinaio di soldati è visto dall’amministrazione Trump come una sorta di attentato alla sempreverde dottrina Monroe. Una dottrina a cui opportunamente riferirsi per contrastare la crescente penetrazione russa e cinese in Venezuela. La criticità della fase attuale può ingenerare un certo comparativismo tra i due eventi anche se, per meglio decifrare questa nuova realtà, interviene un elemento che ha connotato il cinquantennio appena trascorso: i due blocchi in cui allora era diviso il mondo non esistono più.
Se nel 1962 la Turchia si sarebbe mai sognata di schierarsi con Russia e Cina, nel 2019 questo avviene in quanto, nel frattempo, le dinamiche capitalistiche ingenerate da una crisi di sistema, che tuttora perdura, hanno provocato sconquassi tali da sancire la fine del bipolarismo russo-americano, la successiva consunzione dell’unipolarismo a “stelle e strisce” nonché il prorompere di un multipolarismo che ha ridisegnato ruoli e strategie con l’entrata in scena di nuovi attori globali. Ciò comporta conseguenzialmente la messa in discussione ed il progressivo ridimensionamento di egemonie ritenute fino a poco tempo addietro incontestabili.
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Ideologie, superstrutture, linguaggi nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci
di Fabio Frosini (Università di Urbino)
«Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale, in quanto rivoluzionario. La verità è che le ideologie sono risibili quando sono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare confusioni, ad illudere e asservire le energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è estraneo a queste energie. […] Ma come rivoluzionario, cioè uomo attuale di azione, non può prescindere dalle ideologie e dagli schemi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione»1.
1. Che cosa è il marxismo ortodosso?
Il punto di attacco per un’esposizione del nesso tra ideologia e superstrutture nel pensiero di Gramsci non può che essere il modo in cui questo nesso interviene nell’elaborazione del marxismo suo per un verso, per un altro nella più ampia e generica discussione teorica e culturale in corso in Italia e in Europa nei primi decenni del Novecento. Sul primo versante, ciò che sopratutto caratterizza l’approccio gramsciano è l’insistenza sul carattere non univoco dell’ideologia, sul suo poter essere cioè tanto nascondimento e illusione della situazione reale, quanto conoscenza vera.
Gramsci si inserisce cioè nella discussione marxista sull’ideologia mettendone profondamente in discussione l’accezione canonica, depositatasi nella definizione engelsiana di «falsa coscienza» (falsches Bewusstsein)2.
Sul secondo versante, della discussione teorica e culturale nello scenario italiano e continentale, l’intervento di Gramsci è di polemica contro le concezioni caricaturali del materialismo storico, patrocinate – a partire dagli anni Venti – sopratutto da Benedetto Croce e tendenti a ridurre la nozione di “superstruttura” a un mero epifenomeno della “necessità” economica, di un’“Economia” sostanzializzata che opera come un “dio ascoso”, muovendo tutti i fili della storia.
Questa duplice incombenza – riscattare il marxismo dalla liquidazione crociana e sviluppare in positivo una teoria dell’ideologia come fatto irriducibile a mera “falsità” gnoseologica – è parte di una strategia di contrasto a quello che Gramsci considera il fenomeno duplice e correlato: la volgarizzazione del marxismo come coprodotto della sua espansione di massa, e il lungo ciclo del revisionismo, avviato nell’ultimo lustro dell’Ottocento da Bernstein, Croce, Sorel, e proseguito con grande lucidità e determinazione da Croce (con oscillazioni congiunturali) per tutto il primo trentennio del Novecento, come strategia borghese di riconquista dell’iniziativa egemonica.
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La politica economica degli equilibristi ed illusionisti
di Civil Servant
Molte delle previsioni catastrofiche sulle conseguenze del reddito di cittadinanza e di “quota 100” diffuse da vari organismi internazionali si basano su un uso piuttosto spregiudicato del paradigma dell’equilibrio economico generale, lo stesso che è stato impiegato negli ultimi anni per decantare le virtù delle riforme restrittive delle pensioni e della liberalizzazione del mercato del lavoro.
Un esempio di questa impostazione è il recentissimo rapporto dell’OCSE sull’Italia (OECD, Economic Surveys, Italy, aprile 2019), che suggerisce di perseguire la crescita economica, il benessere e l’inclusione sociale attraverso un programma di riforme dal lato dell’offerta, che aumenterebbero la capacità produttiva potenziale dell’economia. Secondo l’OCSE, queste misure sarebbero più che sufficienti a compensare gli effetti recessivi di un piano di riduzione del debito pubblico che prevede avanzi primari dal 2% al 3,3% del PIL ogni anno. Un cardine del programma di riforme proposto è il rafforzamento degli incentivi al lavoro, con l’abolizione di quota 100 e la riduzione dell’importo del reddito di cittadinanza al 70% della soglia di povertà relativa, combinata con politiche attive più energiche e con la riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori a basso salario e sui secondi percettori di reddito del nucleo familiare.
Queste raccomandazioni discendono dall’uso di una classe di modelli denominati DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium), largamente utilizzati per simulare gli effetti complessivi dei provvedimenti di politica economica, basati sull’ipotesi che i mercati tendano spontaneamente verso una situazione di equilibrio che può essere favorita rendendo prezzi e salari più flessibili. Su questi modelli pesa lo scetticismo manifestato dal premio Nobel Robert Solow che, pur essendo un economista molto ortodosso, nel 2010 sostenne davanti ad una commissione del Congresso americano che i DSGE non superavano neanche lo “smell test”.
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