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Guida ragionevole alla mente quantistica
di Peppe Liberti*
Le strane proprietà del mondo quantistico possono essere utili per descrivere e simulare i processi cerebrali?
Una delle cose che più fanno saltare la mosca al naso ai fisici è aver a che fare con chi sostiene che la meccanica quantistica, la migliore teoria che abbiamo a disposizione per descrivere le proprietà delle particelle, degli atomi e delle molecole, possa spiegare anche la nostra mente. Quest’idea ha la sua origine nelle riflessioni e nelle indimostrate ipotesi di alcuni tra i più grandi scienziati del secolo passato (Wigner, Von Neumann, Bohm e così via) ma è stata amplificata ogni giorno di più dal numero immane di sciocchezze veicolate da strampalati guru dei nostri tempi, da gente come Deepak Chopra per esempio, il celeberrimo neuroendocrinologo indiano, esperto di medicina ayurvedica e terapie alternative, e in genere da tutti quelli che provano a giustificare le loro credenze irrazionali facendo largo e ingiustificato uso della parola “quantistico”.
La meccanica quantistica, del resto, è una teoria strana e per molti aspetti paradossale, e fornisce una descrizione delle cose assai diversa dalla realtà a cui siamo abituati. Per esempio nel mondo degli “oggetti quantistici” non si può misurare nulla senza influenzare l’esito della misura: chi osserva – lo sperimentatore – dà sempre noia all’osservato e diventa così parte integrante dell’esperimento. Per alcuni, Eugene Wigner in particolare, ciò rappresenterebbe la prova che è la stessa mente di chi osserva che influenza, in qualche indecifrabile maniera, l’esito dell’osservazione.
A invertire il collegamento tra mente e meccanica quantistica ci ha pensato più di recente Roger Penrose, matematico e fisico britannico, che è arrivato ad affermare che la mente è quantistica e che è proprio questa la ragione per cui gli esseri umani possono fare cose che nessun computer classico sarà mai in grado di fare. Gli argomenti che ha portato a sostegno della sua tesi non hanno persuaso la stragrande maggioranza dei ricercatori.
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Ritornare a Marx
di Collettivo di fabbricato
Lo scritto che pubblichiamo qui di seguito è intitolato Ritornare a Marx. È stato recuperato scartabellando tra documenti, carte e libri conservati alla rinfusa e di cui avevamo quasi perso traccia. Strano destino quello di questo testo, destinato più volte all’oblio, e che invece continua periodicamente a circolare. Vale la pena allora ripercorrerne la genesi, visto che esso è il frutto singolare di un’elaborazione collettiva che, pur risalendo oramai a più di quindici anni fa, mantiene intatta una certa originalità e una significativa attualità.
Tra il 2001 e il 2003 un piccolo gruppo di attivisti e attiviste decide a Palermo di dedicarsi alla lettura e allo studio del primo libro de Il Capitale. Si dà pure un nome, Collettivo di fabbricato, evocando ironicamente la pellicola di Wolfgang Becker Good Bye Lenin: forse perché in quel gruppo c’era qualcuno particolarmente affezionato alla Berlino dei tempi andati, o forse perché già allora la vittoria del capitalismo suscitava quel sentimento, un misto di rabbia e rassegnazione che, dopo l’annessione della DDR, l’Anschluss, è stato definito Ostalgie.
Il Collettivo di fabbricato si proponeva di affiancare lo studio e l’elaborazione teorica all’impegno militante, coniugando, per così dire, teoria e prassi. Al contempo costituiva uno spazio di elaborazione teorica al di fuori dei tradizionali circuiti culturali accademici e dell’establishment, anche quello di sinistra.Anzi, la sua stessa esistenza si configurava implicitamente come una critica, radicale e spietata, a quei luoghi dell’elaborazione del sapere, in primis l’università, che già allora manifestavano quei segni di imbalsamata sclerosi e mummificata inutilità e immobilismo oggigiorno diventati scandalosamente evidenti.
Il collettivo si riuniva ogni due settimane nelle case dei vari componenti, si discuteva un capitolo alla volta, periodicamente ci si dedicava alla lettura di testi critici, e di volta in volta si decideva come proseguire. Quella dei seminari autogestiti era una pratica che era già stata abbondantemente sperimentata negli anni ’90 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, a partire dal movimento della Pantera.
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Dardot e Laval, “La nuova ragione del mondo”
di Alessandro Visalli
Il libro del 2009 di Pierre Dardot e Christian Laval reca come sottotitolo “Critica della razionalità neoliberista”, e svolge in quasi cinquecento pagine una lunga e meditata ricostruzione della genealogia dello sviluppo del neoliberismo nelle sue varie e diverse correnti. Si tratta di un libro che utilizza e riprende espressamente la lettura che Michel Foucault fece, nei suoi ultimi, anni del neoliberismo[1] e della sua forma di ragione[2].
Il neoliberismo riletto da Dardot e Laval è un pensiero dell’adattamento, sottilmente invertebrato, capace di pervadere ogni cosa e soprattutto produttore di nuove soggettività. Al contrario di quanto normalmente si pensa per gli autori esso non è, come il liberalismo classico, ostile alle regolamentazioni, ma è il creatore di vere e proprie strutture nelle quali l’uomo diventa una particolare (ed ‘inumana’) macchina per la competizione e per il desiderio. L’uomo neoliberale esiste solo in un universo di competizione, e si pensa come auto-governato, e quindi integralmente autonomo. Il tentativo che compie la pratica neoliberale è, in altre parole, di governare l’uomo attraverso se stesso, non contro la sua libertà, ma per mezzo di essa; di convincerlo a conformarsi autonomamente al sistema di norme idoneo alla competizione che esso stesso determina.
Ma tutto questo, bisogna notare, per gli autori, come per il loro maestro, non è un progetto di qualche macrosoggetto, sia esso una classe o un gruppo; non è disceso da un corpo dottrinario pronto, anche se molti vi hanno lavorato per anni. Esso “si è costituito lungo il filo di battaglie incerte e politiche claudicanti” (p.15). Dunque la società neoliberista, non è neppure il risultato della logica del capitale, o di uno o più rapporti di produzione, Dardot e Laval, che non sono marxisti, pensano che tutto ciò derivi sì dagli effetti della crisi degli anni settanta, ma che questa non sia principalmente economica. Pensano che, cioè, non sia questione di difficoltà di accumulazione, come ad esempio sostiene David Harvey contro il quale polemizzano, bensì sia una questione dell’emergere di un deficit di governamentalità[3].
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Un'élite liberale europea ci attira ancora verso l'abisso
di Johnathan Cook [globalresearch.ca]
Un gruppo di 30 rispettati intellettuali, scrittori e storici ha pubblicato un manifesto lamentando l'imminente collasso dell'Europa e dei suoi presunti valori illuministici di liberalismo e razionalismo. L'idea di Europa, avvertono, "sta cadendo a pezzi davanti ai nostri occhi", mentre la Gran Bretagna si prepara alla Brexit e i partiti "populisti e nazionalisti" sembrano pronti a incassare ampi successi nelle elezioni in tutto il continente.
Il breve manifesto è stato pubblicato nelle riviste europee dell'élite liberale, in giornali come The Guardian.
"Dobbiamo ora combattere per l'idea di Europa o perire sotto le ondate del populismo", si legge nel documento. Fallire significa che "il risentimento, l'odio e una pletora di infelici passioni ci circonderanno e sommergeranno".
A meno che non si possa cambiare la situazione, le elezioni in tutta l'Unione europea saranno "le più calamitose che abbiamo mai conosciuto: una vittoria per i sabotatori, la disgrazia per coloro che credono ancora nell'eredità di Erasmo, Dante, Goethe e Comenius; il disprezzo per l'intelligenza e la cultura; esplosioni di xenofobia e antisemitismo ovunque; il disastro".
Il manifesto è stato scritto da Bernard-Henri Levy, il filosofo francese devoto ad Alexis de Tocqueville, un teorico del liberalismo classico. Tra i firmatari figurano i romanzieri Ian McEwan, Milan Kundera e Salman Rushdie, lo storico Simon Shama e i premi Nobel come Svetlana Alexievitch, Herta Müller, Orhan Pamuk e Elfriede Jelinek.
Sebbene non nominati, i loro eroi politici europei sembrano essere l'Emmanuel Macron di Francia, attualmente impegnato nel tentativo di schiacciare le proteste popolari contro l'austerità dei Gilet gialli e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a presidio delle barricate per l'élite liberale contro una rinascita dei nazionalisti in Germania.
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Il Socialismo comincia a casa propria
Intervista a Costas Lapavitsas
Costas Lapavitsas – Il libro è ovviamente una critica all’UE così com’è. È una valutazione di dove si trova l’Unione, di ciò che è diventata e della sua probabile direzione. È un tentativo di affermare che la sinistra non dovrebbe avere nulla a che fare con la difesa di questo insieme di istituzioni. Dovrebbe assumere una posizione critica e respingente. Sto affermando che questo è l’unico modo per sviluppare una politica radicale in Europa, un programma economico e sociale radicale e internazionalista.
* * * *
Michael Calderbank – Il ritorno più ovvio sarebbe che le forze che minacciano di fare a pezzi l’UE – i populisti in Italia, o l’AfD in Germania – che sono anti-immigrati, di destra, se l’UE si disintegra, saranno quelle che ne trarranno benefici. Come risponderesti a questo?
Lasciatemi dire sin dall’inizio che, naturalmente, non dovremmo avere nulla a che fare con queste forze reazionarie e razziste. Dovremmo opporci a tutti loro. Ma per capire perché sono diventati così potenti e per capire cosa dovremmo fare, dobbiamo iniziare con la stessa UE. L’emergere di queste forze non è casuale. Ha a che fare con ciò che l’UE è diventata. Solo partendo da questa prospettiva possiamo capire cosa dovrebbe fare la sinistra.
Allora perché l’estrema destra è così potente e l’UE in questo stato? La prima cosa da osservare è che l’UE affronta una crisi esistenziale diversa da qualsiasi altra nel passato. Ha a che fare con ciò che è, cosa fa e quali interessi serve. È una crisi che è il risultato della profonda trasformazione da Maastricht in poi.
Maastricht è stato un momento chiave. Quello che è successo è che l’UE è emersa come un difensore intransigente del capitale contro il lavoro, un promotore del neoliberismo, con una serie molto rigida di meccanismi che si fa strada come bulldozer spianando ogni tipo di opposizione.
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Pietro Ichino e l’idea corporativa del sindacato
di Simone Fana e Lorenzo Zamponi
In una lettera al nuovo segretario della Cgil, l'ex senatore del Pd propone un'unità nazionale corporativa per la competitività globale. Una faccia nazionalista del neoliberismo che nega l'antagonismo tra lavoratori e imprenditori
Pochi giorni dopo l’elezione di Maurizio Landini a segretario generale della Cgil, l’ex senatore del Partito Democratico Pietro Ichino gli ha rivolto una lettera aperta, sul sito economico LaVoce.info. Il tema evocato da Ichino è quello dell’unità sindacale, citata da Landini nelle conclusioni al congresso. Ma si tratta di un pretesto per chiarire al nuovo segretario generale che l’establishment liberal italiano non gli perdona il recente passato battagliero, e lo aspetta al varco, invitandolo pacatamente e serenamente a omologarsi a un’idea di sindacato pacificato e addomesticato. Secondo l’ex senatore, «la Cgil ha bisogno di una correzione» e la lettera ne indica la direzione: un nuovo corporativismo aggiornato all’epoca della globalizzazione, in cui qualsiasi conflitto tra capitale e lavoro è rimosso in nome della competitività dell’Italia nel mercato internazionale, e l’interesse dei lavoratori dev’essere sacrificato all’interesse nazionale, che coincide con quello delle imprese. Un corto circuito solo apparentemente paradossale, quello tra neoliberismo globale e corporativismo nazionalista: la logica della competitività serve proprio a questo, a schiacciare gli interessi di classe in nome del supremo interesse nazionale ad attrarre capitali livellando verso il basso i diritti dei lavoratori.
Un sindacato da “correggere”
La lettera di Ichino inizia fondamentalmente chiedendo a Landini di cospargersi il capo di cenere per le battaglie portate avanti negli 8 anni passati alla guida della Fiom. Il primo consiglio è quello di lasciar perdere qualsiasi velleità di confronto con la politica, dedicandosi solo alla contrattazione in senso stretto.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’, parte quinta
‘Una questione fondamentale’: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile
di Lars T. Lih
Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice ‘Lenin respinge un travisamento delle Tesi di aprile’
Nell’aprile del 1917 Lenin sfornava articoli per la Pravda con una cadenza sbalorditiva. Uno di questi articoli, “Una questione fondamentale”, venne scritto il 20 aprile e pubblicato il giorno seguente. Un testo che successivamente avrebbe trovato il proprio posto nelle Opere complete di Lenin, dov’è oggi facilmente reperibile. Non si tratta in alcun modo di un documento misconosciuto o da riportare alla luce – e tuttavia, nel contesto di un nuovo sguardo agli eventi della primavera 1917, “Una questione fondamentale” appare come un documento notevole e rivelatore. Pertanto, l’ho ritradotto di recente e ho provveduto a fornirne un commento.
Ufficialmente, questo articolo costituiva una controreplica a una critica delle Tesi di aprile, ad opera di Georgy Plekhanov, pubblicata il 20 aprile (una traduzione dell’articolo di Plekhanov si può trovare in appendice). In realtà, Lenin era meno interessato a confutare Plekhanov che a rassicurare i praktiki bolscevichi (gli attivisti di medio livello che compivano il lavoro pratico del partito). Sergei Bagdatev era appunto un praktik bolscevico, nonché un ardente sostenitore del potere al soviet; nella parte quarta di questa serie di post, abbiamo visto come egli esprimesse il timore che alcuni aspetti delle Tesi di Lenin potessero ostacolare la via all’instaurazione del potere del soviet. La sua preoccupazione di fondo riguardava le basi di classe della rivoluzione in corso: Lenin stava davvero affermando che non erano necessari i contadini come alleati, come sottinteso dalle Tesi di aprile e da svariati altri commenti? In “Una questione fondamentale”, Lenin rispondeva con enfasi a tale preoccupazione: no, non era ciò che intendeva, non lo era nel modo più assoluto.
Plekhanov sui ‘deliri’ di Lenin
Negli anni Ottanta dell’Ottocento, Plekhanov fu un pioniere nella divulgazione del messaggio di Marx, nonché nella sua applicazione alle condizioni della Russia, guadagnandosi in tal modo l’appellativo di “padre del marxismo russo”. Da allora, giocò sempre un ruolo significativo nella socialdemocrazia russa, sebbene spesso ben lontano dall’essere costruttivo.
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La moderna teoria della moneta
di Michael Roberts
I. Cartalismo e marxismo
La modern monetary theory giustifica la spesa pubblica senza restrizioni per ripristinare e sostenere la piena occupazione. Ma questa apparente virtù nasconde il suo vizio, un ostacolo molto più grande per un vero cambiamento
La teoria della moneta moderna (modern monetary theory - MMT) è diventata di moda tra molti economisti di sinistra negli ultimi anni. La nuova democratica di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez è sembra esserne una sostenitrice; e uno dei principali esponenti della MMT ha recentemente discusso la teoria e le sue implicazioni politiche con John McDonnell, cancelliere dello scacchiere ombra per il partito laburista britannico.
La MMT ha una certa trazione nella sinistra in quanto sembra offrire un supporto teorico per le politiche di spesa fiscale finanziate dall’emissione di moneta da parte della banca centrale e per far fronte ai deficit di bilancio e al debito pubblico senza timore di crisi; e quindi sostenere politiche di spesa pubblica per progetti infrastrutturali, creazione di posti di lavoro e l'industria, in diretto contrasto con le politiche mainstream neoliberali di austerità e intervento governativo minimo.
Quindi, in questo post e in altri post a seguire, offrirò la mia opinione sul valore della MMT e le sue implicazioni politiche per il movimento operaio. In questo articolo cercherò di dare una visione generale per far emergere le somiglianze e le differenze con la teoria monetaria di Marx.
La MMT si fonda sulle idee di ciò che è chiamato cartalismo [chartalism, da non confondere col cartismo, il movimento politico-sociale inglese della prima metà del sec. XIX, ndt]. Georg Friedrich Knapp, un economista tedesco, coniò il termine cartalismo nella sua Teoria statale della moneta, che fu pubblicata in tedesco nel 1905 e tradotta in inglese nel 1924. Il nome deriva dal latino charta, nel senso di un simbolo (token) o biglietto. Il cartalismo sostiene che il denaro ha avuto origine dai tentativi statali di dirigere l'attività economica piuttosto che rappresentare una soluzione spontanea ai problemi del baratto o come mezzo per simbolizzare il debito.
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Dall’aristocrazia operaia al sottoproletariato
di Dino Erba
Per nascondere la propria miseria politica e intellettuale
Quand’ero giovane, negli anni Settanta del Novecento, un tema ricorrente era il ruolo della cosiddetta aristocrazia operaia nel frenare e ostacolare il presunto processo rivoluzionario. A distanza di mezzo secolo, molte cose sono mutate sotto il cielo del capitale, e il ruolo di freno e ostacolo è passato al cosiddetto sottoproletariato. Occorre sempre un capro espiatorio sociale, per giustificare la propria (nostra) miseria politica e intellettuale.
In entrambi i casi, c’era e c’è molta confusione teorica sotto il mutevole cielo del capitale.
E, in entrambi i casi, gioca il peso del passato, nel bene e nel male.
Le due categorie sociali – aristocrazia operaia e sottoproletariato – sono strettamente connesse, sono due facce della medesima medaglia economico-sociale del capitale. Solo per facilitare l’esposizione le separo, per poi ricomporne la contraddittoria unità. Per farla breve, non ci vuol molto a capire che il sottoproletariato rappresenta gli strati bassi dei lavoratori salariati (i più sfigati), mentre l’aristocrazia rappresenta gli strati alti (i più viziati). I rispettivi orientamenti ideologici e politici dipendono dalla fase storica, e non dalle loro caratteristiche congenite (dal loro Dna, si dice oggi...).
Seguendo questo filo conduttore, cercherò di proporre una linea interpretativa.
Sottoproletariato
Che cosa sia il sottoproletariato, ce lo spiega Marx, nel capitolo 24, del Primo libro del Capitale: La cosiddetta accumulazione originaria. In breve.
In italiano, il termine è tradotto impropriamente dal tedesco Lumpenproletariat che significa proletariato straccione. La sua comparsa avvenne durante la Rivoluzione industriale, che ebbe il suo epicentro nell’Inghilterra del XVIII secolo, ma ebbe una lunga gestazione nei secoli precedenti: in Italia, Fiandre, Spagna, Francia, Germania.
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Una stima degli effetti della manovra e delle alternative possibili
Stima degli effetti della manovra economica e simulazione di manovre alternative
di Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
Stima Manovra Economica. Con diverse tecniche di stima dei moltiplicatori degli stimoli fiscali mostriamo che la manovra economica del governo per il 2019 ha un impatto molto modesto sulla crescita perché trascura gli investimenti, non presenta un disegno di politica industriale e non muta le condizioni del lavoro. Al contrario, una diversa composizione della manovra, anche a saldi invariati ma con risorse dimezzate sulle misure-simbolo e corrispondenti maggiori investimenti, avrebbe raddoppiato l’impatto positivo sulla crescita. Inoltre, portando il deficit al 2,4% e spostando le risorse aggiuntive sugli investimenti, tutte le stime mostrano che l’impatto espansivo sarebbe addirittura triplicato
La necessità di una manovra espansiva
Nella seconda metà del 2018, le medesime tensioni internazionali che hanno determinato un rallentamento della crescita in Germania e Francia hanno spinto l’Italia nella recessione, complici i gravi deficit di competitività dell’apparato produttivo e infrastrutturale del Paese, il cronico sottofinanziamento degli investimenti pubblici e privati nonché la crescente precarizzazione del lavoro che contribuisce al ristagno dei consumi. In questo scenario, monta la preoccupazione che la manovra economica del governo possa avere un profilo espansivo insufficiente. Per cominciare, la manovra economica non ha impresso un cambiamento di direzione significativo alla politica delle finanze pubbliche rispetto agli anni dell’austerità. A riguardo, il governo sembra avere scontato un deficit di capacità politica in Europa e in particolare nel confronto con la Commissione Europea. Infatti, anziché proporre una manovra incentrata sul rilancio degli investimenti pubblici e sulle politiche industriali, che avrebbe potuto riscuotere consensi in altri Paesi e registrato minori resistenze presso la Commissione Europea, il governo ha presentato una manovra caratterizzata da un deficit incrementato al 2,4% del pil e finalizzato a un aumento della spesa corrente e dei trasferimenti. Successivamente, per evitare la procedura sanzionatoria, il governo ha dovuto ridurre il deficit al 2,04% del pil, riportando i valori della finanza pubblica pressoché in linea con quelli registrati nel 2018.
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La guerra fra metropoli e periferie
La Francia, i gilet gialli e la crisi della sinistra
di Carlo Formenti
Fra le tesi che ho sostenuto ne “La variante populista” – e rilanciato nel mio nuovo libro, “il socialismo è morto. Viva il socialismo” (Meltemi) – ve n’è una che ha suscitato critiche particolarmente aspre: mi riferisco all’affermazione secondo cui il conflitto di classe, nell’attuale fase di sviluppo capitalistico, si manifesta soprattutto come antagonismo fra flussi e luoghi. L’idea di fondo è che il capitalismo globalizzato e finanziarizzato – fatto di flussi sempre più veloci di merci, servizi, capitali e persone che ignorano i confini politici e geografici – opprime e sfrutta i territori – laddove resta confinata la stragrande maggioranza dell’umanità che non gode delle chance di mobilità fisica e sociale riservate alle élite – dai quali estrae risorse senza restituire nulla in cambio.
Constato ora che questa tesi trova conforto nei lavori di un geografo francese, Christophe Guilluy, di cui ho recentemente letto due importanti lavori: “La France périphérique” e “No society. La fin de la classe moyenne occidentale” (entrambi pubblicati da Flammarion). Queste due opere, segnalatemi da un amico di Podemos, aiutano più di tutte le idiozie proferite da media, politici ed “esperti” a comprendere il fenomeno dei gilet gialli (ma anche il voto americano per Trump, l’esito del referendum inglese sulla Brexit e il trionfo elettorale dei “populisti” italiani). Nelle pagine seguenti descriverò sinteticamente le argomentazioni dell’autore, riservandomi di commentarle nelle righe conclusive.
In primo luogo, Guilluy critica la rappresentazione dei conflitti che da qualche anno dilaniano le maggiori società occidentali in termini di antagonismo fra popolo ed élite, alto e basso, super ricchi e gente comune (l’1% contro il 99%, secondo lo slogan lanciato da Occupy Wall Street e ampiamente ripreso da populismi di destra e di sinistra). Se le cose stessero davvero così, argomenta Guilluy, le élite sarebbero già state spazzate via, la verità è che, se sono ancora al potere, non è solo perché possono contare sulla loro tradizionale egemonia culturale, ma perché i loro interessi coincidono con quelli di un buon terzo della popolazione.
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‘La bestia è l’azienda, non il fatto che abbia un padrone’*
Commento al quinto capitolo del Capitale
di Massimiliano Tomba**
Abstract: The first chapter of the third section of Capital, Volume 1, constitutes in many ways an Archimedean point of the entire work. In this chapter the many theoretical questions investigated in the first section are reconfigured from the perspective of the labor-process and valorization-process, acquiring a new political color. In my reconstruction, by putting the use-value at the center, I explore the diverse theoretical layers of this chapter in light of their political implication
È opportuno partire dall’inizio. E quindi, ancora una volta, dalla merce e dal valore. Non però nella formulazione che troviamo nell’incipit del Capitale, ma dalle Glosse a Wagner del 1882, dove incontriamo un Marx maturo, che ha attraversato per intero il suo personale work in progress sulla nozione di «valore». In queste glosse, Marx afferma, contro Wagner, che nel Capitale non è partito da concetti e neppure dal concetto di «valore», e che non procede deduttivamente da un concetto all’altro, ma è partito dalla merce nella sua concretezza (Konkretum der Ware)[1]. Purtroppo questa pagina non è stata tradotta nell’edizione degli scritti inediti di Marx curata da Tronti, perché Tronti nelle Glosse fa un po’ di selezione e la salta. Ma qui Marx afferma una cosa importante: «Io non ho preso le mosse da concetti ma dalla merce nella sua concretezza». Credo che questa affermazione permetta alcune riflessione sulla sua natura non hegeliana e sul modo di argomentazione e di esposizione di Marx nel Capitale. Cosa significhi l’espressione «merce nella sua concretezza»? Significa un’accentuazione del valore d’uso della merce, un modo di procedere nettamente diverso da quello hegeliano, nonostante gli svariati tentativi di leggere i primi capitoli del Capitale assieme alla Scienza della Logica di Hegel. Si potrebbe dire, per usare un termine di Adorno, che Marx privilegia il «rudimento metalogico» del concetto o, in altre parole, invece di prendere le mosse dall’‘essere’, come fa Hegel per mettere in moto la prima triade di essere-nulla-divenire, Marx parte dal qualcosa (etwas) nella sua concretezza. In questo «rudimento metalogico» c’è un’insistenza sul non identico come ciò che eccede la concettualizzazione e la sua sussunzione all’identico, nel caso della merce, il valore. La differenza, per dirla in gergo filosofico, è che se nella Scienza della Logica Hegel parte dall’immediatamente indeterminato, da ciò che è privo di ogni determinazione, e questo permette ad Hegel di dare inizio alla catena deduttiva, Marx ha un incipit contrario: prende le mosse dalla concretezza della merce, da ciò che, nella sua non identità, si presenta come eccedenza rispetto al concetto.
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La grande crisi di Podemos
Cuarto Poder intervista Manolo Monereo
In questa intervista del 4 febbraio a Cuarto Poder Manolo Monereo — di recente dimessosi dalla direzione nazionale di PODEMOS — ci parla della crisi profonda che viveil movimento. La recente sconfitta elettorale in Andalusia, la mossa scissionista di Íñigo Errejón, lo scollamento tra base e vertice, la debolezza organizzativa e un certo burocratismo nel regime interno... Tutti fattori che per Monereo spiegano questa crisi, non senza dimenticare, aggiungiamo noi, l'appoggio esterno che UNIDOS PODEMOS (la coalizione tra Podemos e Izquierda Unida) continua a fornire al governo Sanchez, malgrado questo sia ligio non solo alle direttive europee ma pure a quelle di Trump
D. La scorsa settimana non hai partecipato al Consiglio Cittadino di Statale (CCE) [la direzione politica nazionale di PODEMOS, ndt] che si è svolto per risolvere il problema della crisi aperta a Podemos nella Comunità di Madrid. [In vista delle elezioni amministrative della capitale del prossimo maggio Íñigo Errejón, in dissenso con Pablo Iglesias e rompendo de facto con PODEMOS, ha dichiarato di sostenere la lista "Más Madrid" dell'attuale sindaca Manuela Carmena, ndt].
R. Non ho partecipato perché mi sono dimesso mesi fa. Mi sono dimesso perché sapevo che i metodi sbagliati e le modalità di organizzazione dei dibattiti hanno sempre serie conseguenze. Nella mia vita politica ho imparato una cosa, le crisi reali sono causate, più che da fattori ideologici o di programma, dai metodi e dagli stili del lavoro di partito. PODEMOS ha uno stile di lavoro che non è all'altezza delle sue sfide. Per dirla senza mezzi termini, a Vistalegre II [il secondo congresso di PODEMOS, del febbraio 2017, ndt] abbiamo posto fine alle frazioni, non che una di esse si mangiasse tutte le altre. Ciò si ottiene generando organicità, creando organismi di dibattito politico, adottando regole chiare affinché questo possa svolgersi, approfondendo il dibattito. Questo non è il metodoche viene utilizzato in PODEMOS e ciò ha delle conseguenze.
Faccio un esempio. In generale, il CCE si riunisce e il segretario generale compie una brillante analisi politica, parla per tutto il tempo che ritiene necessario e poi ci concede tre minuti per intervenire. Nessuno sa cosa sia stato approvato, è come se fossimo una ONG in cui il direttore fa una buona analisi di ciò che accade, ma poi non ci sono verbali, documenti o risoluzioni politiche. È un dibattito che non genera impegni. Il funzionamento dell'organismo è pregiudicato e non vi è alcun dibattito politico.
La politica è dibattuta nelle frazioni e nei media. Non esiste una deliberazione democratica da cui emergano consenso e dissenso, maggioranze e minoranze. Non si vota.
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La critica della democrazia borghese in Rosa Luxemburg
di Michael Löwy
Come ha scritto Michael Löwy,i Freikorps che uccisero Rosa Luxemburg – la “fondatrice del Partito comunista tedesco (Lega Spartachista)” -, erano una “banda di ufficiali e militari controrivoluzionari” che rappresentava il “futuro vivaio del partito nazista”[1].
Furono inviati a Berlino dal ministro socialdemocratico Gustav Noske per stroncare la rivolta spartachista e sconfiggere il tentativo di una rivoluzione in Germania. Per ricordare la filosofa rivoluzionaria polacca, a cento anni dalla sua morte, Tysm pubblica un testo di Löwy che sottolinea la vitalità della sua lezione.
Ringraziamo Löwy per averci concesso di pubblicare questo testo, inedito in lingua italiana, apparso originariamente sul numero 59, 2016 della rivista francese Agone. Un’altra versione* è pubblicata in Löwy, Rosa Luxemburg. L’étincelle incendiaire, Montreuil, Le temps des cerises, 2018.
L’approccio estremamente dialettico di Rosa Luxemburg allo Stato borghese e alle sue forme democratiche le permette di sfuggire tanto agli approcci social-liberali (á laBernstein), che negano il loro carattere borghese, quanto a quelli di un certo marxismo volgare, che non tengono in considerazione l’importanza della democrazia. Fedele alla teoria marxista dello Stato, Rosa Luxemburg insiste sul suo carattere di “Stato di classe”. Ma aggiunge immediatamente: “[questo]non dovrebbe essere preso nel suo significato rigido, assoluto, bensì in un senso dialettico”.Che cosa significa? Da una parte, che “nell’interesse dell’evoluzione sociale [lo Stato] assume diverse funzioni di interesse generale”; ma allo stesso tempo che “lo fa esclusivamente perché e fintantoché questi interessi e l’evoluzione sociale coincidono con gli interessi della classe dominante”[1]. L’universalità dello Stato è quindi severamente limitata e, in larga misura, negata dal suo carattere di classe.
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Venezuela, 5S e quant’altro..... Non basta un clic
di Fulvio Grimaldi
Da anni ricevo, sul blog, in Facebook e in posta, commenti, a volte di consenso, a volte di virulente dileggio, sulla mia posizione sul Movimento 5 Stelle. Che, come i meno strabici, hanno perfettamente capito, è di frequentazione da fuori (resto iscritto esclusivamente all’Ordine dei Giornalisti), di condivisione in parola e immagine di molte sue battaglie, di sostegno alle cose che mi paiono buone (e a volte senza precedenti, le più osteggiate dall’unanimismo globalista destra-sinistra) e di critica a quelle che considero meno buone, o del tutto sbagliate. Il lancio della prima pietra, però, lo lascio ad altri. A quelli, dotati di grande humour, che si dicono senza peccato.
Landini, molto rumore per nulla
Viene in mente, per la portata anche simbolica di tutta una sinistra terrorizzata dal minimo bagliore esterno al quadro delle compatibilità, tale Landini Maurizio. Lo ricorderete da mille comparsate tv, agitato fracassone in maglietta della salute, a testa bassa contro i padroni e una segretaria CGIL troppo remissiva. Ricorderete la sua “coalizione sociale”, fondata a Bologna in un mattino del 2015 e svaporata prima che calasse il sole e prima che potesse, come anticipato, spostare di 180 gradi a sinistra la barra del barcone Italia zeppo di naufraghi, che però non se li fila nessuno, non fanno parte di nessuna filiera di trafficanti. Poi le cose andarono nel verso giusto sindacato unitario e patto dei produttori con la Confindustria. Tarallucci e vino tra Landini e Camusso sulle spoglie di un ceto lavoratore cui erano passati sopra, mentre il sindacato assisteva dalla Tribuna, gli scarponi chiodati dei tempi che corrono: guerre, neoliberismo, austerity, i salari più bassi d’Europa, spazzati via tutti i diritti costati secoli, carcere. botte e morti.
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L’ideologia della casa in proprietà e le catene dorate del capitale
di Eros Barone
I poeti vivono in un mondo immaginario, e così anche il signor Sax, il quale s'immagina che il padrone d'immobili abbia "raggiunto il grado supremo d'indipendenza economica" ed abbia "un ricovero sicuro", "diverrebbe capitalista e sarebbe assicurato contro i pericoli della disoccupazione o dell'inabilità al lavoro dal credito immobiliare, che sarebbe a sua disposizione" ad ogni momento.
Friedrich Engels, La questione delle abitazioni.
Non ho mai toccato un soldo. Ho posseduto solo una vecchia Ritmo e questo ai milanesi non dovrei dirlo visto che a Milano chi non ha neppure una casa in proprietà è considerato un poveraccio.
Armando Cossutta, Una storia comunista.
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“Investire nel mattone”: miti e realtà di un mercato monopolistico
In Italia, dove a lungo la cultura marxista ha discusso intorno ai processi di formazione di un nuovo blocco storico, non solo è mancata quasi del tutto un’analisi del blocco storico dominante, ma continua a mancare un’analisi adeguata della complessiva questione delle abitazioni come essenziale cerniera del blocco di potere dominante. Fatta questa premessa, resta tuttavia da aggiungere che qui non si intende offrire al lettore un’analisi compiuta di quello che si potrebbe definire “il blocco edilizio”, ma solo alcune linee introduttive ad una siffatta analisi, cercando, sia pure in modo schematico, di individuare le stratificazioni economiche e sociali che ne fanno parte o sono in qualche modo subordinate a questo “blocco”, e i legami, anche di carattere sovrastrutturale, che sono condizione del suo radicamento e della sua conservazione.1
Orbene,la consistenza economica e le ramificazioni del blocco fondiario, industriale e finanziario dell’edilizia appaiono evidenti, sol che si consideri come, nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore sia tuttavia nettamente privatistico. Dal punto di vista della produzione e della proprietà, il settore dell’edilizia è infatti tra i più privatizzati della nostra economia.
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Aprire gli occhi, leggere la crisi
di Sandro Moiso
Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00
Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.
Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra parte del mondo l’economia cinese inizia a dare i primi segnali di cedimento, mentre la guerra dei dazi tra USA e Cina aggiunge ulteriori preoccupazioni sullo stato “reale” dell’economia mondiale e allo stesso tempo per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre scorso è stato il peggiore dal 1931, ovvero dalla Grande Depressione!1 Inoltre “le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi […] Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila”.2 Così che al World Economic Forum di Davos, tra il 22 e il 25 gennaio, in sostituzione di tre rappresentanti assenti di altrettanti pezzi da novanta dell’establishment economico occidentale (Macron impelagato tra gilets jaunes e affaire Benalla; Theresa May incastrata tra un Parlamento ribelle e una possibile hard Brexit e Trump e la delegazione americana che hanno colto l’occasione dello shutdown federale per non prendervi parte), ha preso posto un’unica autentica convitata di pietra: la recessione mondiale.
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Venezuela. “C’è una sinistra complice con il golpe contro Maduro”
Rino Condemi intervista Luciano Vasapollo
Intervista a Luciano Vasapollo. Economista e militante della Rete dei Comunisti, da anni segue le vicende politiche ed economiche dell’America Latina. Abbiamo chiesto a Luciano Vasapollo di commentare una intervista sulla situazione in Venezuela comparsa su Il manifesto che ci ha colpito, in negativo. Nelle argomentazioni e nei presupposti di quella intervista al sociologo Emiliano Teran Mantovani, abbiamo intravisto lo spettro della subalternità della sinistra in Europa alla campagna di legittimazione del golpe e di delegittimazione del governo bolivariano di Maduro. Un brutto segnale che merita una replica a tutto tondo.
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Puntuale come un temporale in autunno, anche il Manifesto non si è tirato indietro dal coro “a sinistra contro Maduro”. Sabato 2 febbraio ha pubblicato una intervista sul Venezuela a Emiliano Teran Mantovani, dell’università di Barcellona e sociologo dell’università venezuelana, esponente di una sinistra ecologista e indigenista molto europea . In questa intervista ci sono valutazioni pesanti contro il governo Maduro. Cosa indica questo atteggiamento?
Sul ruolo e sulle responsabilità della “sinistra italiana”, dai partiti ai media, Manifesto compreso, non ho dubbi nel vedere nuovamente subalternità alla preparazione di una nuova “guerra umanitaria” al servizio di un sempre più cinico e inumano capitalismo.
Alla sinistra eurocentrica e colonizzatrice non interessano più gli investimenti sociali, nella sanità, nell’istruzione, sulle abitazioni e nelle politiche pubbliche sulle risorse che hanno caratterizzato Maduro e il Venezuela o le rivoluzioni e i processi progressisti in America Latina, ma si piega alla logica delle democrazie occidentali. In queste prevalgono la ricerca dei profitti e la proprietà privata, gli unici investimenti sui quali non si alza mai veramente la voce sono quelli a carattere militare. Vedo, sempre più una sinistra eurocentrica e sempre più filo imperialista, con partiti e stampa schierati per l’ennesima guerra umanitaria, l’ossimoro e l’ambiguità che abbiamo vista all’opera in questi venti anni.
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Blockchain per il bene comune?
Come utilizzare Blockchain per evitare la tragedia dei commons
di Andrea Pannone
La Blockchain è nata per lo scambio di criptovalute come Bitcoin, ma può essere molto utile anche per affrontare il problema della scarsità dei beni comuni
1. La ‘novità’ di blockchain
Negli ultimi mesi è cresciuta esponenzialmente tra studiosi e politici l’attenzione su blockchain – la tecnologia nata per facilitare lo scambio online di criptovalute come Bitcoin[1] – quale strumento per coordinare e rendere efficienti un’ampia varietà di transazioni decentralizzate non intermediate da soggetti terzi. In termini estremamente semplificati una blockchain è un libro mastro, ovvero la base fondamentale della contabilità, condiviso da una rete decentralizzata di computer per l’archiviazione digitale e il tracciamento dei dati associati a un prodotto o servizio lungo tutta la catena del valore (ossia dalla fase di produzione fino al consumatore/utilizzatore).
La blockchain può essere considerata una tecnologia che appartiene alla categoria delle tecnologie Distributed Ledger, ossia un insieme di sistemi concettualmente caratterizzati dal fatto di fare riferimento a un registro distribuito, governato in modo da consentire l’accesso e la possibilità di effettuare modifiche da parte di più nodi di una rete (vedi figura sotto).
Come suggerisce il nome una blockchain è organizzata in una sequenza lineare di piccoli insiemi di dati crittografati chiamati “blocchi”, che contengono gruppi di transazioni con data e ora (timestamp). Ogni blocco contiene un riferimento al suo blocco precedente e una risposta a un puzzle matematico complesso, che serve a convalidare le transazioni che contiene[2]. Nella sua forma più elementare la blockchain serve come mezzo per registrare, in modo sicuro e verificabile, un particolare stato di cose che è stato concordato dalla rete (Wright & De Filippi 2015). Come tale, la blockchain può essere utilizzata in qualsiasi sistema che comprende informazioni preziose, inclusi denaro, titoli, azioni, diritti di proprietà intellettuale e persino voti o dati di registro di identità (Davidson et al., 2016; Tapscott & Tapscott, 2016)[3]. Osserviamo che la necessità di crittare i dati deriva proprio dal fatto che tutto quello che viene registrato su una blockchain è visibile a tutti i nodi della rete e quindi se si registrassero informazioni sensibili senza essere critptate esse diventerebbero pubbliche.
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C’è vita su Marx
di Marco Palazzotto
Una carrellata delle pubblicazioni, uscite nel duecentenario dalla nascita di Marx, che analizzano il pensiero maturo del filosofo tedesco e ridanno centralità alla sua critica dell'economia politica
L’anno appena trascorso sarà ricordato per il bicentenario della nascita di Karl Marx. Sono stati pubblicati in tutto il mondo numerosi scritti per ricordare le idee e la vita di uno dei più importanti pensatori della storia dell’umanità. Considerata la varietà e quantità degli argomenti affrontati in questi testi, ho cercato un fil rouge che li accomunasse, affinché se ne potessero ricavare delle riflessioni utili per analizzare il presente. Tale filo comune è il pensiero maturo di Marx e pertanto l’urgenza di riprendere la critica marxiana dell’economia, sorvolando, per ragioni di spazio e tempo, sulle pubblicazioni biografiche.
Marx, come sappiamo, ha vissuto gli ultimi anni intento a scrivere e a studiare in vista dell’opera che considerava la più importante e più faticosa. Soltanto una minima parte del suo lavoro sarà completata, e ciò che restituirà ai posteri è il primo libro del Capitale. Secondo e terzo libro saranno pubblicati postumi (dopo un personale rimaneggiamento) dall’amico e compagno di una vita Friedrich Engels. Tale opera – con i suoi scritti preparatori (come i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, noti anche come Grundrisse, e Per la critica dell’economia politica) e i manoscritti successivi – rappresenta la testimonianza e l’eredità di un intellettuale che ha voluto disvelare le leggi che regolano il modo di produzione capitalistico.
Diversamente dall’approccio di un marxismo storicista, umanistico e progressista, che mette al centro la “politica”, come quello che ha caratterizzato buona parte del pensiero novecentesco italiano, è fondamentale agganciare l’analisi della società moderna ai rapporti di produzione. Lo sfruttamento capitalistico – e la conseguente estrazione del valore utile all’accumulazione – non risiede negli apparati politici e in genere “sovrastrutturali”, ma è connesso al comando del lavoro nei processi produttivi. Se vogliamo palesare questi rapporti di sfruttamento, per combatterli, occorre studiare e capire l’economia di mercato, riprendendo oggi la marxiana critica dell’economia politica e restaurando, di conseguenza, una scienza del nuovo capitale, senza d’altra parte cadere in interpretazioni prettamente economicistiche.
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Lo sciopero generale in Francia, prime valutazioni
di Giacomo Marchetti
Lo sciopero generale di 24ore proclamato da CGT e Solidaires è stato un primo passo importante di convergenza su tutto il territorio dell’Esagono tra “la marea gialla” ed il mondo sindacale, dopo che vi erano stati importanti segnali unitari nei mesi precedenti a Marsiglia, Tolosa e Bordeaux.
Nel soddisfatto comunicato di bilancio della giornata – “5 Febbraio. Convergenza delle lotte riuscita” – la CGT afferma che hanno partecipato alle mobilitazioni, svoltesi in circa 200 città, 300.000 persone.
A Parigi sarebbero state 30.000 le persone che hanno partecipato secondo gli organizzatori, 18.000 per le forze dell’ordine.
La centrale sindacale francese afferma :
“Questa giornata ha permesso, attraverso gli scioperi nel pubblico e nel privato, di rinforzare e di rendere comuni le lotte sociali. In diversi dipartimenti; la CGT è attiva nella preparazione di riunioni intersindacali con il fine di prolungare la mobilitazione. Già da ora, la CGT è il vettore propositivo attraverso l’organizzazione dei martedì di “emergenza sociale”, i quaderni di espressione popolare, i dibattiti pubblici e l’8 marzo”.
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Le manifestazioni svoltesi sul territorio nazionale organizzate da CGT e Solidaires, a cui si sono aggregati alcuni settori di FO – senza che ci fosse una adesione a livello confederale di questa sigla – e della FSU (il maggior sindacato degli insegnanti), hanno visto sfilare insieme “giacche gialle” e “giacche rosse”, di fatto rompendo quel muro di diffidenza reciproca che aveva caratterizzato precedentemente, almeno in parte, i rapporti tra i gilets Jaunes e militanti sindacali.
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La tesi di sinistra contro i confini aperti
di Angela Nagle
Com’è stato possibile che in questi ultimi anni la sinistra sia diventata propugnatrice delle tesi open border, nate all’interno dei circoli anarco-capitalisti e da sempre sostenute dai think tank della destra economica radicale? Come può non rendersi conto che la libertà di migrare, lungi dall’essere un diritto inviolabile dell’uomo, non è altro che una delle quattro libertà fondamentali di circolazione alla base della dottrina economica neoclassica – nello specifico quella della forza lavoro – e che come tale viene fortemente sostenuta proprio dal grande business? Questo lungo articolo tratto da American Affairs, cerca di spiegare i sommovimenti storici e culturali – che gettano come sempre le radici nella svolta reazionaria neoliberale degli anni ’80, innescata dalle politiche di Reagan e della Tatcher – che hanno prodotto questa mutazione antropologica della sinistra, passata dalle tradizionali posizione anti-immigrazioniste legate al movimento operaio e sindacale all’accettazione dogmaticamente moralistica dei confini aperti.
Il grande business e le lobby del libero mercato, per promuovere aggressivamente i propri interessi, hanno creato un culto fanatico a difesa delle tesi open border – un prodotto fatto proprio da una classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che fa i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e salvaguardare le proprie carriere. La sinistra liberale ha rivenduto il prodotto aggiungendovi il ricatto morale e la pubblica vergogna nei confronti dei popoli, accusati di atti inumani verso i migranti. Eppure, una vera sinistra dovrebbe tornare a guardare alle proprie tradizioni e cercar di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea impoverimento per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di cervelli in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri dell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri, riprendendo il controllo degli stati, delle politiche commerciali e del sistema finanziario globale.
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Fine di un’epoca
di Vladimiro Giacché*
La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e i profitti nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema
Per capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione della precedente: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime).
Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Saltano alcuni fondi speculativi e banche specializzate. La crisi si diffonde in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30.
Ma perché la crisi è stata così grave?
In primo luogo, i mutui subprime erano solo uno degli elementi costitutivi di un enorme edificio finanziario costruito in 30 anni. Nel 1980, la somma di tutte le attività finanziarie globali equivaleva approssimativamente al prodotto interno lordo (PIL) globale. Alla fine del 2007, il rapporto tra queste attività e il PIL (eufemisticamente chiamato anche “profondità finanziaria”) era del 356%.
In secondo luogo, questa ipertrofia finanziaria non era una malattia in sé, ma un “farmaco” (al tempo stesso) contro un’insufficiente valorizzazione del capitale e contro la massiccia sovrapproduzione di capitale e merci nel triangolo del capitalismo maturo (USA, UE e Giappone).
A questo punto dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’70, abbiamo registrato una crescita sempre più bassa e tassi di investimento in calo, in particolare in Giappone e nell’Europa occidentale. Ciò ha comportato un calo globale dei tassi di investimento rispetto al PIL mondiale, nonostante l’enorme aumento degli investimenti in molti paesi in via di sviluppo, specialmente in Cina. È interessante notare che l’ipertrofia della finanza e del credito, cioè del “capitale capitale produttivo d’interesse” (Karl Marx), si sviluppa parallelamente alla caduta degli investimenti.
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Una filosofia applicata e sensibile
Introduzione a Gorz
di Françoise Gollain
Presentiamo qui la traduzione dell’intro al libro di Françoise Gollain sul pensiero e il percorso anche esistenziale di André Gorz. Il libro, dal titolo “André Gorz – Une philosophie de l’emancipation”, uscito recentemente in Francia per le edizioni Harmattan, investe 50 anni di storia sociale filtrata attraverso la ricca e variegata esperienza di André Gorz, pensatore anomalo della sinistra ma quanto mai stimolante e attuale, specie in un momento come questo dove sembra sia diventato impossibile elaborare una strategia capace di opporsi al dominio della merce e del capitale, e alla loro devastante crisi. Particolarmente importante, dal nostro punto di vista, l’interesse manifestato da Gorz, nella parte finale della sua vita, verso la Wertkritik (Critica del valore), cioè quella corrente di pensiero il cui esponente di punta è stato Robert Kurz e di cui noi, redattori dell’Anatra di Vaucanson, cerchiamo di farci portavoce.
Françoise Gollain è dottoressa in sociologia e specialista del pensiero di Gorz. Ha collaborato con la rivista Entropia. Insegna alla Open University di Cardiff. Vive tra la Francia e il Galles [redazione].
Figura di punta dell’ecologia politica e critico radicale del lavoro, Gérard Horst, alias André Gorz, ha saputo coniugare le qualità del giornalista (sotto lo pseudonimo di Michel Bosquet) con quelle del saggista visionario. Voce singolare durante mezzo secolo di dibattito in seno ad una sinistra affrancata da un marxismo sclerotizzato ma (al tempo stesso) non chiusa al meglio dell’eredità marxiana, raggiunse una sicura autorevolezza anche come teorico.
Per questo, potrebbe a prima vista sembrare sorprendente tramandarlo alla posterità come filosofo, nella misura in cui il fondamento filosofico della sua riflessione non viene in primo piano nelle opere più conosciute al grande pubblico, fatta eccezione per Il traditore.1
Gorz inoltre rivendicava lui stesso la sua mancanza di professionalità e si riconosceva fra i “cani sciolti” della filosofia, che non trovano né pubblico né editori e che possono praticarla solo applicandola a questioni socio-economiche. Coltivando la “non-appartenenza” in ragione di una storia personale tormentata, si è concesso solo lo statuto di filosofo “naufragato”, mancato (verunglückt).2 Questo epiteto non riesce comunque a rendere conto del fatto che la sua extraterritorialità accademica rappresentava in realtà per lui non solo un punto nevralgico ma ancor più e forse soprattutto una risorsa , come testimonia questa affermazione: “La verità è che io sono un tuttofare, un maverick.3
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La secessione dei ricchi e la questione nazionale
di Raffaele Cimmino
Il 15 febbraio prossimo rappresenta la dead line oltre la quale, se le cose andassero come auspicano i governatori di tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – ci sarà il voto al Senato, a favore o contro ma senza possibilità di emendamenti, sul regionalismo differenziato. Si tratta di un percorso iniziato coi i referendum consultivi sull’autonomia svoltisi in Lombardia e Veneto il 22 ottobre 2017. Le due consultazioni sull’attribuzione di condizioni particolari di autonomia con l’attribuzione delle risorse necessarie hanno avuto esito positivo. L’Assemblea regionale dell’Emilia Romagina, il 3 ottobre 2017, ha invece approvato una risoluzione per l’avvio del procedimento finalizzato alla sottoscrizione dell’intesa con il Governo richiesta dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Il regionalismo differenziato è arrivato al traguardo con il governo Conte ma è una pratica istruita dal governo Gentiloni, che, pochi giorni prima delle elezioni del 4 marzo, tramite il sottosegretario Gianclaudio Bressa, ha sottoscritto una preintesa con ognuna delle tre regioni. Largamente simili, questi accordi prevedono all’art. 2 una durata decennale. Saranno immodificabili per dieci anni se non vi sarà il consenso a modificarli della regione interessata.
La devoluzione alle regioni riguarda le 23 materie previste dal terzo comma dell’art. 117, tra cui: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione Europea.Le preintese stabiliscono all’articolo 4 che le relative risorse andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione sulla base “di fabbisogni standard superando la spesa storica, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”. Stabiliscono anche, senza meglio specificare, che “Stato e Regione, al fine di consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti, potranno determinare congiuntamente modalità per assegnare, anche mediante forme di crediti d’imposta, risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese”.
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