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Marxismo e filosofia della prassi
Recensione di Giulia Dettori
Marcello Mustè: Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Viella, Lecce 2018, pp. 332, ISBN: 9788867289967
Il libro di Marcello Mustè Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci è un’interessante e approfondita ricostruzione delle origini del marxismo teorico in Italia, una questione che l’autore indaga attraverso l’analisi del pensiero di Labriola, Croce, Gentile, Mondolfo e Gramsci. Il volume si articola in due parti – la prima da Labriola a Mondolfo e la seconda interamente incentrata su Gramsci – e si serve di un’ampia bibliografia che comprende le opere degli autori presi in esame, i carteggi e diversi studi condotti in precedenza sul medesimo tema. Sulla base di questo cospicuo materiale Mustè delinea, con un criterio che cerca di essere il più possibile cronologico, una traiettoria che parte dal 1895, anno di pubblicazione del primo saggio sul materialismo storico di Labriola (In memoria del manifesto dei comunisti), per arrivare al 1935, quando Gramsci porta a termine la stesura delle ultime note dei Quaderni del carcere. È questo l’arco di tempo in cui, secondo l’autore, nasce il paradigma caratteristico del marxismo italiano, il cui tratto originale, come si evince dal titolo dell’opera, è racchiuso nella formula “filosofia della praxis”, con la quale questi filosofi hanno cercato di svolgere in termini originali e di declinare in una forma nazionale il pensiero di Marx. A fare da sfondo a questa ricostruzione è il più generale contesto storico in cui si dipana la vicenda del movimento operaio europeo, che Mustè tiene sempre presente e con cui fa dialogare gli autori trattati per mettere in evidenza come la formazione di un paradigma marxista in Italia sia strettamente intrecciata alla più ampia vicenda del marxismo teorico e ai suoi passaggi storici fondamentali (l’edificazione della Seconda Internazionale e la sua crisi, generata dalla contrapposizione tra ortodossia e revisionismo, le due guerre mondiali, la rivoluzione bolscevica e la Terza Internazionale).
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Dall'ontologia del "politico" alla teologia politica
Una riflessione a partire da Il Segreto del potere di Damiano Palano
di Epimeteo*
Questi "appunti di lettura" dedicati al volume di Damiano Palano, Il segreto del politico. Alla ricerca dell'ontologia del "politico" (Rubbettino), sono apparsi sul sito Epimeteo. Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico nel novembre 2018
La prima impressione che si prova durante la lettura di questo testo del docente di Filosofia politica della Cattolica di Milano è il piacere di reimmergersi in una corrente calda, conosciuta e antica, quella del realismo politico dei Tucidide e Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, una corrente che Palano affronta con evidente compartecipazione, ma nello stesso tempo senza alcun timore reverenziale, men che meno nei confronti di quello che è stato, dagli anni ’50 agli anni ’90, il più importante rappresentante della “scienza politica” nell’università in cui Palano insegna, ossia Gianfranco Miglio, a cui viene dedicata un’analisi approfondita nel quarto capitolo, significativamente titolato Arcana imperii, in cui il pensiero di Miglio viene esaminato nei suoi punti di forza, ma anche nelle sue profonde antinomie.
In generale, la lettura di Palano risulta particolarmente efficace nel mettere in rilievo la contraddizione che percorre l’intero arco teorico del realismo politico, ossia il conflitto tra “natura e “cultura”, tra antropologia e storia. In effetti, il realismo politico, in quanto mira alla “verità effettuale” della cosa (Machiavelli), ossia alla realtà del politico così come si dà effettivamente, tematizza come oggetto specifico l’”essere” del politico, al di là del dover essere della morale, dei “quadri valoriali”, delle ideologie e delle utopie: ecco dunque la radice di una “ontologia” del politico, che si rivela essenzialmente come relazione di “dominio dell’uomo sull’uomo”, che si dà come un portato inevitabile della “natura” dell’essere umano nella sua dimensione di continuità evolutiva con l’animale, nella sua aggressività che infine mette capo alla metafora dell’homo homini lupus.
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L’epoca della normalità del male
di Salvatore Bravo
Ci sono totalitarismi impliciti e dunque non riconosciuti che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza di linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.
Dialettica spazio-tempo
Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451, il potere economico ha assimilato il potere politico, oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).
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La teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva come teoria della politica economica
di Guglielmo Forges Davanzati*
Abstract: This paper deals with the relation between labour market deregulation and the path of employment in Italy, based on Marx’s theory of the industrial reserve army. It will be shown that the increase in labour flexibility negatively affected the employment rate in the 2000s. Moreover, it is argued that as unemployment increases, workers’ bargaining power decreases not only in the labour market but also in the political arena, allowing the Government to implement further policies of labour flexibility. The evidence confirms this conjecture
1. Premessa
Ammesso che se ne possa dare una definizione univoca, la c.d. eterodossia, in Economia Politica, non è affatto scomparsa nell’Università italiana. Ciò che realmente è scomparso è il marxismo, come diretta conseguenza del processo di depoliticizzazione del discorso economico. La deriva tecnocratica che ha prepotentemente investito la teoria economica (e l’insieme delle scienze sociali) ha generato tre esiti: i) la Storia del pensiero economico intesa come tecnica archivistica; ii) la teoria economica neoclassica declinata come tecnica econometrica; iii) parte dell’eterodossia (la teoria sraffiana) intesa come critica tecnica a una teoria neoclassica non più esistente o comunque non più dominante. Il resto è divenuto indicibile e, non a caso, questo saggio su Marx è pubblicato in una rivista di Filosofia[1].
2. Introduzione
È ben noto che Marx, opponendosi alla teoria malthusiana della sovrappopolazione assoluta, considera la sovrappopolazione relativa – o esercito industriale di riserva (EIR) – una condizione necessaria per la riproduzione capitalistica. Ed è ben noto che, opponendosi a Malthus, Marx considera la sovrappopolazione relativa come prodotto del capitalismo, non la risultante di un dato di natura: «una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Marx 1972, 82).
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Quello che può durare nella lotta dei Gilet Gialli
di Temps critiques
La maturazione del movimento
Quello che si può dire, è che senza trascendere dal suo punto di partenza, il movimento ha già modificato il suo anti-fiscalismo originale a favore di esigenze più sociali e generali (passando dalla giustizia fiscale dei piccoli commercianti o degli imprenditori, alla giustizia sociale). Già la lotta sul prezzo della benzina era una lotta che andava oltre la questione dell'aumento, per denunciare l'arbitrio di un prezzo senza alcun rapporto con qualsivoglia valore. I Gilet gialli non sono degli esperti economisti, ma sanno che il prezzo del barile, e quello del gas variano enormemente, sia in un senso che nell'altro, mentre il prezzo della benzina o del gas sono dei prezzi amministrati, vale a dire, dei prezzi politici. La riforma di Macron aveva una sua base materiale: il rincaro dei costi dei trasporti individuali utilizzati essenzialmente per il lavoro. Ma una semplice analisi marxista, svolta nei termini dell'aumento della difficoltà a riprodurre tale forza lavoro, mancava dell'essenziale, cioè di quello che aveva permesso di passare dal malcontento alla rivolta, vale a dire, la presa progressiva di coscienza che si tratta del «sistema» e non della «piccola causa». Nei paesi capitalisti sviluppati, dove non ci troviamo effettivamente nella situazione delle sommosse a causa della fame, la rivolta riguarda il maggior numero di persone, diversamente da come avveniva per le vecchie tasse sul carburante, come per i camionisti, o per i berretti rossi. Come avverrà successivamente, con la rivendicazione di un aumento dello SMIC [salario minimo interprofessionale di crescita], il movimento vuole innanzitutto sostituire all'arbitrio dello Stato, o a quello dei prezzi di monopolio, una sorta di «prezzo equo », alla Proudhon.
Un'unità che si costruisce...
Il movimento non si basa affatto su un'unità di rottura (per esempio, un'unità direttamente anticapitalista, dal punto di vista ideologico), bensì su un'unità di esistenza a partire dalla condivisione delle condizioni materiali e sociali, perfino anche politiche, percepite come degradate.
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L’egemonia della paura
di Martino Avanti
Finita l'era dei compromessi forzati, l'attuale equilibrio mondiale fatto di finanziarizzazione e debito si regge sulla demonizzazione dell'altro da sé
La crisi economica iniziata nel 2008 è una crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Il capitale, come forza sociale onnicomprensiva, come disciplina sulla società e sulla natura, appare sempre meno in grado di riprodurre adeguatamente la sua base sociale e naturale. Stiamo tuttavia perdendo la capacità di cogliere l’intreccio tra storia e geopolitica alla base dell’avvitamento disfunzionale del capitalismo. La cosiddetta “scuola di Amsterdam”, nel combinare marxismo (gramsciano) e relazioni internazionali ci permette di afferrare questi nessi strutturali. La recente pubblicazione di Transnational Capital and Class Fractions (curato da Overbeek e Jessop) ne offre un quadro d’insieme a quarant’anni dai primi lavori. Quanto segue ne presenta, integrandoli con l’analisi del presente, i concetti teorici più innovativi, concentrandosi principalmente sull’opera di Kees Van der Pijl.
Concetti onnicomprensivi di controllo
L’egemonia è una forma di dominio di classe che si basa sul consenso piuttosto che sulla forza; consenso che è attivo tra i gruppi che fanno parte del blocco sociale unificato da uno specifico concetto onnicomprensivo di controllo (neoliberalismo/liberalismo corporativo) e passivo per chi non ne fa parte ma manca della forza di modificarlo o concepire il mondo diversamente. Nelle fasi egemoniche, la società nel suo complesso assimila i principi e il modus operandi su cui riposa il dominio della frazione dominante, considerandoli normali.
Non è tuttavia il capitale in generale, quello con la “C” maiuscola, a esercitare l’egemonia, bensì una specifica frazione del capitale totale (produttivo/finanziario/commerciale), i cui esponenti sviluppano quelle che Gramsci chiamava filosofie spontane.
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Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta
di Sergio Marotta
Dal debito pubblico alla rottura dell’unità nazionale. Tutti i rischi del Regionalismo differenziato
Dalle Regioni al federalismo differenziato
Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Eppure lo statista di Melfi non fu ascoltato, come non lo furono Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo, tutti uniti nell’opposizione all’ordinamento regionale.
Passò la linea del siciliano Gaspare Ambrosini che introduceva una forma di Stato organizzato in Regioni in cui si teneva insieme l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti locali. Alla fine la formula dell’art. 5 dei Principi fondamentali risultò la seguente: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento»[1].
Impiegati gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per passare all’attuazione, con vent’anni di ritardo, degli ordinamenti regionali, si procedette, poi, a un quindicennio di riforme della pubblica amministrazione che iniziarono con la legge sull’ordinamento degli enti locali, la 142 del 1990, che prese il nome dell’allora potentissimo ministro dell’Interno, il democristiano Antonio Gava.
Venne, quindi, il turno delle varie leggi Bassanini dal nome del ministro della Funzione pubblica che le elaborò e, a più riprese, le portò all’approvazione del Parlamento. La prima fu la legge 59 del 1997 che doveva realizzare il federalismo a Costituzione invariata. Era il tempo in cui imperava il verbo della sussidiarietà come forma di avvicinamento del luogo della decisione pubblica al livello più prossimo alla collettività di riferimento. ‘Sussidiarietà’ era la parola magica per realizzare un’azione amministrativa più efficiente, più efficace e più economica.
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Le origini intellettuali della rivoluzione italiana: il ‘68 e la sua genesi
di Michele Filippini
Abstract: Il ‘68 italiano, rispetto allo stesso movimento in altri paesi europei, si caratterizza per la sua lunga durata e per la sua particolare intensità. Si tratta infatti di un movimento che ha prodotto effetti potenti e duraturi sulla società italiana per almeno un decennio, con un impatto ben visibile nella persistente memoria storica dell’evento che si ripresenta anche ai giorni nostri. Ma lo scoppio del ‘68, come le conquiste sociali e legislative degli anni ‘70, devono le loro condizioni di possibilità a una rottura, politica ma soprattutto teorica, che si è verificata in precedenza, all’inizio degli anni ‘60. Risalire alla genesi della rottura dell’immaginario conservatore degli anni ‘50, oltre ad essere un’operazione di storia intellettuale, può essere utile per indagare come emerge la “novità teorica”, in questo caso attraverso una rottura con la tradizione tesa però alla sua riattivazione
1. Il movimento, la politica, la teoria
Se si dovesse scegliere la più rilevante tra le particolarità del ‘68 italiano rispetto al ciclo globale di mobilitazioni di quell’anno, questa sarebbe probabilmente la sua durata. La stessa storiografia ha ripetutamente identificato come “lungo ‘68” il decennio successivo a quell’evento, sottolineando più che la ripetizione – assai diverse sono infatti le fasi, le pratiche, i protagonisti – una specie di effetto a catena che permette di risalire a quella rottura per spiegare le profonde trasformazioni ideologiche, culturali e politiche avvenute in Italia negli anni ‘701. Quella rottura aveva però avuto nel decennio precedente un periodo di incubazione caratterizzato dall’accumularsi di fenomeni nuovi – lo sviluppo economico accelerato, la scolarizzazione crescente, l’emigrazione dal sud al nord del paese – che avevano creato contraddizioni e conflitti. Ha quindi qualche ragione chi fa risalire l’origine della rottura sessantottina al protagonismo giovanile nella rivolta del luglio ‘60 contro il governo Tambroni, alla ripresa del conflitto operaio con gli elettromeccanici a cavallo tra il ‘60 e il ‘61, ai tumulti di Piazza Statuto contro la Uil del ‘62 o alla grande stagione di lotta per i rinnovi contrattuali degli anni ‘62-‘632.
Anche dal punto di vista delle mobilitazioni studentesche, le prime occupazioni universitarie si hanno in Italia in anticipo rispetto al trend internazionale: già nel ‘66 alla Sapienza di Roma (dopo la morte dello studente Paolo Rossi) e a Sociologia a Trento (per il riconoscimento della nuova laurea); nel ‘67 la Cattolica a Milano, Palazzo Campana a Torino, la Statale a Pisa, ancora Trento, poi Napoli, Venezia, Milano Statale e Architettura. Il movimento dura poi a lungo anche dopo l’anno degli studenti3, scomponendosi e ricomponendosi all’interno dei nuovi gruppi extraparlamentari e attraverso esperienze più o meno fortunate di collegamento con i lavoratori (in particolare a Torino) di nuovo in lotta dall’autunno ‘69.
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Ancora sui Gilet gialli
di Michele Castaldo
Pur se continua la lotta dei Gilet gialli è già possibile cominciare un primo bilancio e tentare di intravedere alcune linee di tendenza per il futuro. Partiamo dalle risposte fornite da Macron alle loro richieste. Le misure promesse con un decreto legge sono sostanzialmente 3:
♦ Completa defiscalizzazione degli straordinari. Già era previsto di tagliare i contributi sociali a carico dei dipendenti e dei datori di lavoro;
♦ Aumento dello stipendi minimo di 100 euro al mese senza ricarico per i datori di lavoro;
♦ Defiscalizzazione completa delle pensioni sotto i 2000 euro mensili.
Come dire: un medicamento peggiore del male, come versare del sale su una ferita. Ma si sa, i reazionari sollevano un macigno per farselo ricadere poi sui piedi, per dirla con il vecchio e saggio Mao. In realtà si tratta di provvedimenti che non tengono per niente in conto la natura della protesta in atto, e per essere ancora più espliciti diciamo che si tratta di misure “novecentesche”, cioè di chi analizza i fatti odierni con le lenti del passato, molto simili – per fare un paragone e rendere l’idea – agli 80 euro di Renzi che gli spianarono sì la strada per la vittoria elettorale alle elezioni europee, ma poi fu affossato di lì a poco dal nuovo che avanzava. Non a caso quel nuovo che è emerso in Italia – il M5S – sta lanciando una ipotesi di accordo politico ai Gilet gialli mettendo a disposizione la propria piattaforma Rousseau. Sul movimento nazionalista di Salvini, anch’esso “nuovo”, ci occuperemo a parte.
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L’Europa a destra
Steve Bannon e The Movement: la Lega delle Leghe
di Matteo Luca Andriola
Ai “numerosissimi termini politici, [...] nomi di correnti politiche o ideologiche, modi di concepire la vita politica e termini tipici del linguaggio parlamentare” (1), trasferiti dal lessico d’oltralpe a quello italiano dalla Rivoluzione francese a oggi, si è aggiunto con prepotenza quello di sovranismo, che nel 2017 la Treccani ha definito la “posizione politica che propugna la difesa o la conquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione” (2). Una definizione demonizzata dall’establishment e dalla stampa mainstream e considerata sinonimo di neofascismo o di “stupido” nazionalismo (3), ma che, se presa così com’è, non denota necessariamente un’identità di destra, specie davanti a concetti come quello di sovranità popolare, presente anche nella Carta costituzionale italiana, all’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Principi che, teoricamente, dovrebbero essere nel dna della sinistra tutta.
Il processo d’integrazione europea però, che gradualmente la sinistra progressista ha fatto proprio, interiorizzando sia la narrazione propagandistica – la pace, il progresso ecc. – sia l’impostazione economica neoliberista, ha favorito lo sviluppo di movimenti nazional-populisti di destra, lasciando la stessa sinistra spiazzata perché sprovvista di una visione alternativa a quella liberista.
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La Cina, gli Stati Uniti e gli altri - III
Verso la guerra fredda nel Mar Cinese meridionale?
di Michele Nobile
1. 2008-2011: cresce la tensione nel Mar cinese meridionale
A partire dall’inizio della Grande recessione nel 2008 e dai primi mesi del 2009 la politica marittima della Rpc nella regione del Mar cinese meridionale è stata caratterizzata da un atteggiamento fortemente nazionalista, dall’intensificazione dei controlli e della repressione di attività che considera illegali nelle acque di cui rivendica la sovranità, da misure amministrative e dichiarazioni politiche considerate provocatorie dalla maggior parte dei governi della regione, da azioni coercitive e confronti fisici a rischio di degenerare in scontri armati con le Filippine e il Vietnam. Obiettivamente un insieme di fatti in contrasto con l’idea di costruire un «mondo armonioso» e con la proposta di una nuova «via della seta» marittima, che dovrebbe concretizzarsi in iniziative di «sviluppo congiunto»; insieme allo sviluppo delle capacità di interdizione d’area ciò ha generato l’idea che la Rpc punti a controllare stock e flussi del Mar cinese. La preoccupazione si è estesa a tutta l’area del Pacifico, dall’Indonesia fino all’India. I primi effetti politici si manifestarono nel 2009 e, poco dopo, nella «svolta» verso l’Asia e il Pacifico di Obama.
Ricostruendo la successione degli eventi si possono distinguere due periodi: il primo coincide con gli ultimi anni della presidenza di Hu Jintao (Segretario generale del Pcc dal 2002 al 2012 e Presidente della Rpc dal 2003 al 2013), e del primo ministro Wen Jiabao; il secondo corrisponde ai primi anni della presidenza di Xi Jinping (Segretario generale del Pcc dal novembre 2012 e Presidente della Rpc dal marzo 2013; ma già vice Presidente dal 2008) e del primo ministro Li Keqiang. Volendo essere ottimisti è possibile che nell’estate del 2018 sia iniziato un terzo periodo di conciliazione tra Rpc e Asean, dagli esiti assai incerti.
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La Storia della Sussunzione
di Collettivo EndNotes
Questo è un periodo di crisi catastrofica per il capitale, però, allo stesso tempo, è anche un periodo in cui i vecchi progetti programmatici della classe operaia non si vedono da nessuna parte. Questo fatto ineludibile ci obbliga a ricostruire quelle che sono le discontinuità fra il passato ed il presente. Comprendere cos'è che distingue il periodo attuale può aiutarci a «seppellire i cadaveri» delle rivoluzioni fallite del XX secolo, e dare così eterno riposo agli spiriti erranti che continuano a perseguitare ancora la teoria comunista.
La posta veramente in gioco, relativa alla periodizzazione, è la questione di sapere dove finisce il passato e dove comincia il presente. L'identificazione delle rotture storiche e delle discontinuità ci aiuta ad evitare l'implicita metafisica di una teoria della lotta di classe, in cui alla fine ogni specificità storica viene ridotta all'eterno ritorno dello stesso. Tuttavia, le periodizzazioni possono apparire facilmente, non come il riconoscimento di vere e proprie interruzioni reali, ma piuttosto come se fossero l'imposizione arbitraria di uno schema astratto sulla densa trama della storia. Per ogni linea di rottura che viene tracciata, si possono individuare dei resti, o dei residui, di un'altra epoca storica che sembrano rifiutare la periodizzazione. Ragion per cui, soddisfatti in quanto simili dichiarazioni di rottura non possono assolutamente reggere, potremmo sentirci autorizzati a ripiegare sulla confortevole idea seconda la quale in realtà non cambia mai niente. Ma dal momento che consiste in questo la differenza rispetto allo scettico, ecco che è lo storico stesso a dover assumere la certezza predefinita del buon senso.
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Il caso Battisti e la guerra civile degli anni '70
di Alessandro Pascale
La cattura di Cesare Battisti riapre una pagina torbida e ancora misconosciuta del nostro Paese, quella degli anni ’70, definiti “gli anni di piombo”. Il Totalitarismo liberale che ci governa ha già messo in campo tutte le sue armi per distogliere l’opinione pubblica dai fallimenti dell’attuale Governo in carica e utilizzare strumentalmente il caso per dare la propria versione della Storia. La retorica populista si salda strettamente con il perbenismo borghese e democristiano su cui si è chiusa la Prima Repubblica e costruita la Seconda. Cesare Battisti non è che un pretesto per riattizzare l’odio verso il grande nemico storico: il comunismo. Poco importa che Battisti sia stato o meno genuinamente comunista. Indifferente è il fatto che non sia rappresentativo del marxismo, da lui e da altri “terroristi rossi” ampiamente frainteso. Battisti è stato elevato dalla borghesia a simbolo del comunismo e del peggio offerto in tal senso dalla sinistra degli anni ’70. Mentre Parigi brucia da settimane e l’Occidente si avvia da anni lentamente al suo declino, l’obiettivo vero è rinfocolare l’immagine sempre più sbiadita del fallimento di ogni alternativa al sistema presente. Il rimedio proposto è scontato: ravvivare un’identità “democratica” fondata sulla legalità, sulla pace sociale, sull’odio razziale e sull’associazione al terrorismo per chiunque metta in discussione il regime sociale vigente: il capitalismo.
Il caso Battisti diventa così un passo ulteriore per bombardare il popolo con una nuova ondata di revisionismo storico, marcando chiaramente i colpevoli dei peggiori epiteti: assassini, terroristi, violenti, comunisti, fanatici, rivoluzionari, pazzi, ecc. Al gioco delle armi di distrazioni di massa vince chi offre di più nella sagra delle semplificazioni.
I borghesi l’hanno chiamato “terrorismo rosso” perché banalmente hanno vinto loro, e hanno potuto imporre tale etichetta con la complicità dell’intero ordine “democratico”, compresi quei comunisti che avevano scelto la strada della via democratica al socialismo, illudendosi che il sistema potesse cambiare con le urne.
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Un patto per Paderno Dugnano
di Il Pedante
Fa scalpore in questi giorni la firma apposta da Beppe Grillo accanto a quella dell'ex premier Matteo Renzi in calce a un «patto trasversale per la scienza», promosso dai professori Guido Silvestri e Roberto Burioni. Già. Perché, in effetti, la scienza e l'antiscienza sono un grave problema nel nostro Paese, almeno tanto quanto lo era il traffico nella Palermo di Johnny Stecchino. L'iniziativa non serve insomma a nulla e quindi, per la legge ormai nota, se non serve a nulla serve a qualcos'altro. E non ci vogliono grandi esegesi per capire che qui si dice la scienza per dire le vaccinazioni, un po' come si direbbe l'universo per dire Paderno Dugnano. Perché oggi usa così: per riscattarsi dalla miseria semantica la si prende larghissima e si tirano in mezzo gli archetipi eterni. Si scomodano i venti cosmici per parlare di peti.
La falsa sineddoche ce la spiega Beppe quando fa un esempio di pregiudizio antiscientifico contro cui si dovrebbe lottare: quello «relativamente ad un certo vaccino o modalità di vaccinazione della popolazione». Uno a caso, naturalmente. Come deve essere un caso che tra le centinaia di migliaia di chimici, fisici, astronomi, medici, matematici, geologi, biologi, etologi, agronomi, paleontologi, filologi e altri scienziati che danno lustro al nostro Paese, il patto sia stato partorito da tale Roberto Burioni, omonimo di quel signore che lotta per «i vaccini» come si lottava nel secolo XII per la conversione dei Mori, e da Guido Silvestri, accreditato come consulente del Movimento 5 Stelle in tema di vaccinazioni e ricercatore negli USA per lo sviluppo di un vaccino anti HIV.
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PIL: storia di un grande seduttore, o della macchina celibe
di Antonio Bisaccia
Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente,
voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto.
Martin Scorsese, The Departed- il bene e il male
Durante l’ondata di contestazione che ha avuto luogo in Francia tra novembre e dicembre 2018, conosciuta come «gilets jaunes», sono emerse le rivendicazioni più diverse. Un contestatore ha detto ai giornalisti: “È urgente preoccuparsi del benessere dei cittadini. Si deve parlare finalmente di potenziale interno di felicità e non del prodotto interno lordo. Ecco che cosa migliorerebbe la produttività. Oggi non si parla più di felicità, ma di remunerazione degli azionisti”.
Frase che, nella sua immediatezza, trafigge il cuore del Pil (se ne avesse uno) per gettare un’ombra immensa “sul numero più potente del mondo” e sul suo sex-appeal.
Il cosiddetto Pil, Prodotto interno lordo, è appartenuto per molto tempo al rango degli arcani che interessavano solo un piccolo gruppo di esperti, come una formula della fisica.
Da qualche tempo, invece, scalda anche gli animi di un pubblico più vasto.
A ragione, direbbe Lorenzo Fioramonti. Il culto del Pil ha prodotto secondo lui un disastro. Il suo libro -che usa criticamente una poderosa mole di letteratura tecnica- è un lungo e stimolante j’accuse sugli effetti devastanti di quello che all’inizio -negli anni Trenta- doveva essere una semplice statistica per aiutare il governo degli Stati Uniti a uscire dalla “grande depressione”. Oggi invece le pubblicazioni trimestrali delle cifre del Pil hanno preso in ostaggio tutte le economie del mondo, e dunque tutte le società: compresa, quindi, anche la vita di ogni cittadino.
In un libro sorprendentemente (vista la materia!) leggibile e stilisticamente accattivante -perché scritto con passione- l’autore ripercorre la storia del Pil e le critiche che gli sono state rivolte -in primis da colui che l’aveva inventato: un paradosso che Fioramonti sottolinea più volte.
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Tempo di lavoro e salario
di Carla Filosa*
Abstract: The aim of this article is to clarify the meaning of «wage» and «labour-power» concepts, according to Marxian analysis. The feature of the labour-process as human action aimed at the production of use-values is first highlighted. It is the everlasting nature-imposed condition of human existence. Indeed, the process of creating surplus value is nothing but the continuation of the boundless producing value process. Thus, the prolongation of the working-day beyonds the limits of the natural day – encroaching on all life’s time – has mainly the purpose of realizing increasing surplus value in the labour-power consumpition (i.e. during the commodities production). The “mistery” of poverty – nowadays contended as an enemy – is principally due to a generally known law that the longer the working days the lower the wages are. Indeed, the reproduction of labour-power mass as over-population is the mandatory outcome of the capitalist accumulation general law. Current migration flows show that the existence of huge quantity of (unemployed) human being is a precious disposable reserve army, independently than the limits of the actual increase of population, as a mass of human material always available to be exploited. This paper will deeply discuss about these issues, remarking also the existing differences between wage and (basic) income as well as the different typologies of wage (material, real, relative and nominal). Finally, the strict connection between wage, labour-power value and surplus value, will be validated
1. Forza-lavoro al tempo del salario
Il concetto di «salario» è stato deliberatamente rimosso attraverso la stessa rarefazione del termine. Molti giovani del III millennio non ne hanno mai sentito parlare, e ricevono, per loro semplicemente, «denaro» – ovvero una «paga» (wage) – in cambio di lavoro, meglio “lavoretto” o “job” (posto di lavoro, incarico, compito) normalizzato, anche senza neppure un contratto, senza mansionario o orario, senza assunzione, senza neppure percepire, né sospettare di dover conoscere, quanto altro tempo di vita viene loro richiesto per ottenere quel compenso magari nemmeno pattuito, ma solo forzosamente accettato. Altri, giovani e non, sono costretti a erogare lavoro gratuito nella speranza di ottenerne uno retribuito in una prospettiva non definibile, ma ignorano di costituire, in diverse fasi, quella quota oscillante dell’«esercito di riserva» di cui Marx analizzò, già quasi due secoli fa, la necessità vitale per il sistema di capitale.
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Francia: Atto IX, ovvero l’attualità della rivoluzione
di Giacomo Marchetti
La settimana che ha preceduto l’Atto IX della mobilitazione dei GJ è stata caratterizzata da un notevole innalzamento dei toni da parte dell’entourage macroniano
Ad aprire le danze era stato lunedì sera, su TF1, il ministro Edouard Philippe, che aveva annunciato l’introduzione di nuove misure legislative di stampo repressivo contro il diritto a manifestare, ribattezzate “leggi anti-casseurs”.
Oltre a questa era stata assicurata una “ultra-fermezza” contro l’“ultra-violenza dei manifestanti”, attuando tra l’altro per l’Atto IX il dispiegamento di 80.000 agenti in tutto l’Esagono.
Per ciò che concerne i provvedimenti legislativi, si tratta di un pacchetto di misure come la possibilità di sanzionare chi non rispetta l’ “obbligo” di comunicazione di una manifestazione in Prefettura, di trasformare l’occultamento del viso in reato penale, di introdurre la “responsabilità civile dei casseurs” rispetto agli eventuali danneggiamenti che si verificano in una manifestazione e, da ultimo, l’istituzione di un database di manifestanti a cui verrebbe interdetta la partecipazione alle manifestazioni sul modello – come detto espressamente dal ministro – della diffida per gli eventi sportivi. Tutte cose che in Italia conosciamo bene, ma che messe in campo in Francia danno la misura della trasformazione della “democrazia” in qualcosa di molto meno apprezzabile…
Un progetto di legge depositato dal capo-gruppo dei LR, Bruno Retailleu, discusso lo scorso autunno al Senato, servirebbe da base per questa ennesima stretta repressiva, e verrebbe discusso all’Assemblea Nazionale ai primi di febbraio.
Sui provvedimenti annunciati si è aperta una ampia discussione d’opinione tra esperti di diritto rispetto ai punti di criticità che solleva, soprattutto in merito alla lesione di un diritto fondamentale e dell’accesso allo spazio pubblico – cosa ben diversa dalla possibilità di assistere, a pagamento, ad un avvenimento sportivo in un impianto chiuso – per cui la già più che discutibile tecnica della “diffida” (daspo, in Italia) non potrebbe essere “traslata” sul piano dei diritti politici tout court.
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Vicoli ciechi e cambiamenti storici
di Eros Barone
La grande verità della nostra epoca (conoscerla non è ancora tutto, ma senza conoscerla non potrà mai trovarsi nessun’altra verità di una qualche importanza) è che il nostro continente sprofonda nella barbarie poiché i rapporti di proprietà sono vincolati con la violenza ai mezzi di produzione.
Bertolt Brecht
1. Un governo reazionario senza opposizione
Come ho avuto modo di rilevare in un articolo precedente,1 a mano a mano che la crisi politica della borghesia italiana si va intrecciando con il destino dell’attuale governo, acquista una crescente plausibilità, come criterio interpretativo, la nozione gramsciana di crisi organica delle classi dominanti italiane.2 Dal punto di vista oggettivo, il destino del governo Salvini-Di Maio è, peraltro, inestricabilmente connesso con gli irrisolti problemi economici del paese e con le principali questioni della nostra società (quella operaia, quella meridionale, quella industriale, quella scolastica, quella vaticana ecc.). Questioni che una coalizione divisa su tutto, tranne che sulla necessità di aggredire i migranti e gli operai in lotta, non potrà mai né impostare né tanto meno risolvere.
Ma va anche detto che il governo non ha un’opposizione che lo contrasti o lo condizioni in qualche modo, data l’irrilevanza politica di Leu e il disfacimento progressivo del Pd. Così, dopo aver abborracciato una finanziaria clientelare e averla imposta al parlamento senza alcun dibattito per via della ‘trattativa a perdere’ sul livello del deficit condotta con i burocrati della Commissione Europea, non senza un notevole scialo di sorrisi emorroidari a uso e consumo del pubblico dei ‘mass media’, dal presidente del consiglio, Conte, e dal ministro dell’economia e delle finanze, Tria, l’esecutivo adesso arranca, lacerato da divergenze profonde ma non insanabili, stante l’inconsistenza dell’opposizione nel parlamento e il vasto consenso di cui esso gode nel paese.
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La dialettica marxiana come critica immanente dell’empiria
di Stefano Breda*
Abstract: The paper aims to show that a materialist understanding of the method followed by Marx in his critique of political economy requires going beyond both the traditional logical-historical interpretation of dialectics and the logical-systematic interpretation developed within the Neue Marx-Lektüre
1. Un campo di tensione teorica
La questione della specificità del metodo dialettico seguito da Marx nella sua critica dell’economia politica rispetto a una dialettica idealista è stata al centro di accesi dibattiti fin dalla prima pubblicazione del primo libro del Capitale. L’inconsistenza della celebre metafora del capovolgimento attraverso la quale Marx definiva il rapporto tra il suo metodo dialettico e quello di Hegel è stata convincentemente messa in luce da Althusser (1965, 87 ss.), il quale, però, non ha fornito alcuna vera alternativa complessiva. Indicazioni più concrete si possono trovare in alcune fondamentali intuizioni di Adorno e nella loro elaborazione da parte della Neue Marx-Lektüre, la nuova lettura di Marx sviluppatasi in Germania a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Se si seguono tali indicazioni, il rivoluzionamento della dialettica da parte di Marx non consiste in un capovolgimento di soggetto e predicato rispetto alla sua forma hegeliana, bensì nel riconoscimento del fatto che la dialettica tout court non è che l’espressione filosofica di quegli specifici rapporti sociali in cui soggetto e predicato si presentano oggettivamente capovolti: i rapporti capitalistici (cfr. Reichelt 1970, 81)[1]. Se dunque la dialettica, nella sua forma hegeliana, presenta un mondo capovolto, non la si rimette coi piedi per terra rovesciandola in quanto sistema di pensiero, ma svelandone l’oggettivo radicamento nei rapporti capitalistici e criticando un rovesciamento operante in tali rapporti. Da rovesciare, al più, sono allora i rapporti sociali materiali, non la dialettica: essa va piuttosto demisticizzata, de-naturalizzata, individuandone i presupposti storicamente determinati. Molto più appropriata di ogni immagine legata al capovolgimento è dunque un’immagine legata alla delimitazione: «la forma dialettica d’esposizione è corretta solo se conosce i propri limiti» (MEGA II.2, 91)[2], ovvero i punti nei quali la dialettica, da explanans, diviene essa stessa parte dell’explanandum, in quanto prodotto storico bisognoso di una spiegazione altrettanto storica.
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Rosa Luxemburg
Nel centesimo anniversario dell’assassinio
di Michele Nobile
1.
Rosa Luxemburg morì il 15 gennaio 1919, assassinata poco dopo Karl Liebknecht da elementi dell’esercito tedesco. Non furono gli unici a cadere in quel gennaio berlinese: la stessa sorte toccò, nei combattimenti e nelle esecuzioni sommarie, a molte decine di operai, dirigenti sindacali rivoluzionari e militanti socialisti che si erano lanciati in rivolta, reazione a una deliberata provocazione del governo che, si badi, era un governo socialdemocratico, un governo della sinistra.
Con Rosa Luxemburg scompariva la mente più lucida della teoria e della pratica rivoluzionaria nell’Europa occidentale nei primi due decenni del XX secolo, l’unica a potersi confrontare ad armi pari con Lenin e Trotsky.
A una mente brillante che nel modo migliore argomentò la ragione della rivoluzione socialista corrispondeva una passione inesauribile nel mettere al centro dell’azione dell’avanguardia politica organizzata il movimento sociale dei lavoratori, la dinamica delle loro lotte, la maturazione di una coscienza di classe rivoluzionaria attraverso l’esperienza diretta e l’auto-organizzazione della classe. Lottò perché la politica socialista fosse realmente un tutt’uno con la lotta di classe, intesa come movimento di auto-emancipazione sociale. Sostenne con coerenza ineguagliata la democrazia socialista come fine e come mezzo della lotta politica.
Le implicazioni storiche di quelle esecuzioni - e in particolare di Rosa Luxemburg - furono gravissime. Retrospettivamente portarono un colpo mortale alla direzione socialista e alla possibilità di realizzare la rivoluzione nel Paese più avanzato d’Europa. Quattordici anni dopo lo Stato capitalistico tedesco, la cui ricostruzione si ergeva sulla repressione di quel moto berlinese, si sarebbe denominato Terzo Reich.
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L’euro, un’idea insensata
di Ashoka Mody
Intervistato da Tim Black di “Spiked”, Ashoka Mody – professore di economia a Princeton e già dirigente presso il Fondo monetario internazionale – conferma quello che gli economisti sanno, ma la stampa spesso nega: l’euro è stata fin dall’inizio una pessima idea sia economica sia politica. La rigidità intrinseca dei tassi di cambio, le folli regole fiscali, il dominio delle nazioni forti che impongono regole riservate a quelle deboli, creano i presupposti per la divergenza economica e l’inimicizia politica tra le nazioni, anziché promuovere prosperità e pace come propagandano i sostenitori del progetto europeo. Non sono quindi i populisti a essere euroscettici: sono gli euristi che vivono in una bolla di irrealtà, ignorando i più elementari ragionamenti economici e politici
“Si è trattato di uno sforzo un po’ solitario”, dice Ashoka Mody – professore di economia presso l’Università di Princeton, e già vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale (Fmi) – parlando di ”Eurotragedia: un dramma in nove atti”, la sua brillante, magistrale storia della Ue e dello sviluppo dell’eurozona. “La gran parte dell’establishment europeo” continua Mody “o ha tentato di ignorare o ha contestato quelli che mi sembrano principi e dati economici assolutamente basilari”.
È facile capire perché l’establishment europeo potrebbe essere stato incoraggiato a farlo. Eurotragedia è un atto d’accusa all’intero progetto europeo postbellico, una dissezione meticolosa e abrasiva di tutto quello che è caro all’establishment europeo. Ed è anche un attacco allo stesso establishment, al pensiero di gruppo dei suoi membri, ai loro deliri, alla loro arroganza tecnocratica. Inoltre, tutto questo viene dal principale rappresentante del Fmi in Irlanda durante il suo salvataggio dopo le crisi bancaria post-2008 – una persona cioè che ha visto dall’interno i meccanismi fiscali della Ue.
Spiked ha intervistato Mody per capire meglio la sua analisi critica del progetto europeo, i difetti fatali dell’eurozona e perché l’integrazione europea sta dividendo i popoli.
* * * *
Spiked: Lei pensa che il suo lavoro su Eurotragedia sia stato solitario perché, dopo la Brexit e altri movimenti populisti, l’establishment Ue è al momento molto arroccato sulla difensiva?
Ashoka Mody: Sono sicuro che in parte la ragione è questa. Ma penso che la natura dell’intero progetto sia molto difensiva. Pensate alla dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, che mise le basi per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio due anni dopo – disse che una fonte comune di sviluppo economico doveva diventare il fondamento della federazione europea.
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Protezionismo e delocalizzazioni: perché la politica di Trump è sbagliata
di Fabrizio Antenucci
I dazi introdotti da Trump non contrastano le delocalizzazioni perché non colpiscono le imprese con residenza fiscale negli USA. Sarebbe meglio agire su un altro aspetto: controlli dei movimenti di capitale
Da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, il protezionismo è tornato ad essere un argomento di estrema attualità. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale, il nuovo presidente degli Stati Uniti si è rivolto ai lavoratori della manifattura promettendo di recuperare posti di lavoro nel territorio nazionale, affermando che ogni decisione riguardante commercio, tasse, immigrazione, e affari esteri sarebbe stata “presa a vantaggio dei lavoratori americani e delle famiglie americane”. Stando alle sue intenzioni, le misure protezionistiche avrebbero dovuto da un lato disincentivare le aziende a delocalizzare la produzione, e dall’altro ad imporre barriere al commercio internazionale. Cosa è successo dall’inizio del suo mandato?
Le misure commerciali prese dalla nuova amministrazione vedono coinvolte soltanto indirettamente la Cina e l’Unione Europea: si tratta di dazi imposti su alcune categorie di beni, senza alcun riferimento a specifici paesi. Tali misure, che rivelano preoccupazione per una eccessiva sofferenza dell’economia statunitense nella competizione internazionale, non sono affatto una novità. D’altronde, il saldo delle partite correnti risulta perennemente in negativo dall’amministrazione Reagan. È opinione diffusa, a tal riguardo, che un saldo commerciale negativo rifletta un peggioramento dello stato di salute delle imprese, contribuendo inoltre alla perdita di posti di lavoro. In effetti, a partire dalla fine degli anni ’70, il settore manifatturiero statunitense ha registrato una forte contrazione occupazionale, coinciso di fatto con il peggioramento del saldo delle partite correnti (Borjas et al., 1992). Si tratta di fenomeni entrambi verificati in concomitanza di un progressivo processo di apertura al commercio estero avviato con la ratifica di diversi accordi internazionali tra cui il GATT (Tokyo Round 1973-79, Uruguay Round 1986-1994) e il NAFTA (1994), fino alla costituzione della World Trade Organization (WTO) nel 1995.
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L’euro non è un errore di calcolo
di coniarerivolta
Lo scorso 1° gennaio l’euro ha compiuto i suoi primi venti anni di vita. Dovremmo ormai aver maturato la giusta consapevolezza su come giudicare l’attuale progetto di integrazione europea, culminato nell’unione monetaria del 1999: oltre alle venti candeline, l’Unione Europea ha spento qualsiasi possibilità di attuazione di politiche emancipatorie per le classi meno abbienti e ha contribuito in maniera decisiva alla depoliticizzazione delle decisioni di politica economica, ormai dipinte quasi esclusivamente come scelte tecniche. Una cosa, tuttavia, non è riuscita ancora a spegnere a distanza di due decenni: anche in sedi apparentemente più illustri del bar sotto casa, qualcuno si chiede ancora perché la parità dell’euro sia stata fissata a 1936.27 lire, asserendo contestualmente che la situazione di arretratezza economica e sociale in cui versano da anni i paesi periferici, Italia in primis, sia stata in gran parte generata da un cambio ‘sbagliato’.
Semplificando, il tasso di cambio ci indica quante unità della nostra moneta occorrono per acquistare una unità della moneta di un altro Paese. Perché ci occorre acquistare valuta estera? Ad esempio, se avessimo intenzione di acquistare un telefonino da un produttore americano, questo vorrà essere pagato in dollari statunitensi (che potrà ad esempio usare per andare a cena in un ristorante di New York, dove difficilmente saranno accettati euro), e pertanto avremo la necessità di ‘cambiare’ i nostri euro in dollari: di fatto, staremmo cedendo euro in cambio di dollari ad un dato tasso di cambio. Nell’ipotesi che un telefonino sia venduto a 800 dollari, dovremmo pertanto disporre dell’equivalente in euro di quegli 800 dollari, cambiarli da un intermediario (ad esempio, una banca) al tasso di cambio corrente, e una volta ottenuti i dollari (anche se questo passaggio non lo vediamo materialmente, avviene nei terminali degli intermediari) effettuare l’acquisto del telefonino.
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Dove sbaglia la “sinistra sovranista”
di Fabrizio Marchi
Ho letto questo articolo di Carlo Formenti https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/14088-carlo-formenti-l-ideologia-antistatalista-e-l-autodistruzione-delle-sinistre.html che è in buona parte condivisibile.
Tuttavia mi pare che nella sua posizione così come in quelle dei vari esponenti della neonata “sinistra sovranista” ci sia un eccesso di enfasi nei confronti dei concetti di nazione e di patria. Non è un caso che l’autore concluda l’articolo con una citazione del subcomandante Marcos che difende lo stato nazionale contro il tentativo di distruggerlo da parte del grande capitalismo transnazionale.
Ma è soltanto l’ultima in ordine di apparizione. Fino ad ora il più gettonato negli ambienti della suddetta sinistra sovranista è stato sicuramente Palmiro Togliatti, storico leader del PCI che – pur essendo “cosa” completamente altra rispetto a Marcos per cultura, formazione politica e contesto storico-politico – sosteneva la necessità di difendere e rafforzare lo stato nazionale che in Italia – è bene ricordarlo – scaturiva dalla guerra di liberazione contro il nazifascismo ed era il risultato di una gigantesca mediazione tra forze politiche nazionali e internazionali assai diverse che portò al “varo” della Costituzione Italiana.
Ora, la funzione delle citazioni è quella di individuare quei precedenti storici (autorevoli…) con i quali rafforzare e “giustificare” le proprie posizioni, specie quando queste sono tacciate dagli avversari di essere pericolose, ambigue o addirittura reazionarie. A mio parere è un atteggiamento di debolezza e non di forza, perché se si è veramente convinti delle proprie opinioni non c’è necessità di ricorrere ai suddetti “precedenti”, anche perché la storia e la politica non funzionano come la giurisprudenza e ciò che poteva essere valido per il passato potrebbe non esserlo più per l’oggi. Ma non è questo il punto che volevo ora trattare (e mi interessa anche poco).
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Rivoluzione in occidente e vincolo europeo
Riflessioni a margine di Sovranità o barbarie di Fazi e Mitchell
di Domenico Moro
Recentemente è uscito in libreria Sovranità o barbarie di Thomas Fazi e William Mitchell (Meltemi editore, euro 20, pp. 315). Si tratta di un testo che raccomandiamo a chi sia interessato non solo ai temi dell’Europa, ma anche alla ricostruzione di una sinistra adeguata alla realtà attuale. A differenza della maggioranza dei testi sull’euro e sulla Ue, Sovranità o barbarie non parla solo di economia o soltanto di diritto e istituzioni europei. La riflessione che vi viene svolta è interdisciplinare, offrendo una articolata sintesi delle implicazioni dell’integrazione europea, oltre che per l’economia, per lo Stato e le sue istituzioni, per i concetti di nazione e identità nazionale e soprattutto per la democrazia. Di semplice lettura, grazie a una prosa scorrevole e molto chiara, è un testo, però, mai banale, che guida il lettore attraverso un intreccio di questioni complesse e controverse, che riguardano il “che fare”. Per questo, Sovranità o barbarie è soprattutto un libro politico, nel senso più ampio del termine, e va letto a più livelli, che, anche se a volte implicitamente, investono tre questioni principali:
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La descrizione dei meccanismi e le implicazioni su economia e politica dell’integrazione europea, coniugate alla critica al sovra-nazionalismo legato alla mondializzazione;
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La critica dell’atteggiamento della sinistra europea degli ultimi trenta o quaranta anni rispetto alla mondializzazione e all’integrazione europea;
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La questione della definizione di una politica di sinistra efficace nei Paesi avanzati, ossia le specificità di quella che Gramsci chiamava la “Rivoluzione in Occidente”.
Oggettivamente, “Sovranità o barbarie”, partendo dalla questione europea, va a investire la questione più complessiva di quale sia, in Europa, la politica da adottare da parte delle classi subalterne e del lavoro salariato su un piano strategico, a fronte a una delle maggiori sconfitte storiche della sinistra.
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