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Contro l’universalismo (debole) dei diritti umani
Appunti per una nuova “politica di classe” in Italia
di Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi*
È utile mettere al centro del discorso politico l'individuo? E qual è il rapporto fra individuo e soggetti collettivi? Che ruolo svolgono le identità religiose e culturali nel processo di emancipazione? A partire dal saggio di Cinzia Sciuto, "Non c’è fede che tenga", gli autori propongono una disamina critica della teoria dei diritti umani, considerata un universalismo "falso e, soprattutto, dannoso", al quale contrappongono la necessità di una nuova politica di classe
Disclaimer. Questo è un articolo polemico. La polemica è rivolta a chi ancora oggi spaccia vecchie idee come nuove ricette nel dibattito politico sul come rilanciare la sinistra in Italia. Punto di partenza e spunto per la nostra riflessione è la ricezione complessivamente positiva che in questo dibattito sta avendo il libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli 2018), una disamina critica ben fondata e, per molti aspetti, condivisibile sull’adozione di approcci multiculturalisti in società multietniche (come potrebbe ben presto diventare la società italiana).
Tuttavia, il libro spesso acquisisce una vita propria e, con essa, anche il contenuto originario si rende indipendente, giungendo così a significare qualcosa di completamente diverso. Questo ci sembra precisamente il caso del volume sopracitato, la cui divulgazione in Italia ha suscitato un rilevante dibattito pubblico, sulla necessità di rimettere al centro del vocabolario progressista la politica dei diritti individuali. Nucleo centrale di questa tesi è la seguente proposizione: per portare avanti un nuovo e coraggioso progetto riformatore occorre rilanciare con forza la politica dei diritti umani. In particolare, diritti umani da contrapporre ad ogni forma di autorità e identità religiosa e culturale. Lo diciamo subito: a noi questo approccio non convince. Non ci sembra coraggioso e onestamente nemmeno efficace. Ma soprattutto non aggiunge nulla di innovativo nell’odierno scenario politico, incancrenitosi nella contrapposizione apparentemente alternativa tra “sovranisti” e “globalisti”. A nostro modo di vedere, la politica dei diritti individuali non solo non offre un’alternativa credibile, ma di fatto propone un punto di vista che può potenzialmente piacere, su vari aspetti, ad entrambe le fazioni. Più radicalmente, la retorica liberale dei diritti umani contribuisce a rafforzare la dicotomia conservatrice tra “nuovi” nazionalisti e “nuovi” liberali.
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Aprire la storia
di Antonio Martone
Recensione a: Fabrizio Marchi, Contromano. Critica del politicamente corretto, Zambon 2018
In un tempo in cui vengono stampati testi, nel migliore dei casi, di mera erudizione o atteggiati in maniera filosoficamente storiografica, il libro di Fabrizio Marchi segna uno scarto patente quanto potente.
Fin dalla modalità espressiva, per nulla accademica ma anzi costruita sulla base di scandagli di pensiero puntuali e concretissimi, si comprende assai chiaramente che il volume intende porsi come un documento di rottura. Insomma, abbiamo a che fare con un libro che non nasconde di voler essere interferente e contromano – appunto – rispetto al mainstream del pensiero e della prassi politica contemporanea.
In quale maniera, pertanto, Marchi intende manifestare il proprio essere eretico? Quali sono gli argomenti sulla base dei quali l’A. si spinge a sostenere la sua eterodossia rispetto all’ortodossia del nostro tempo, smascherandone così la falsa coscienza e mettendo a nudo le sue contraddizioni? E, preliminare a tutto ciò, che cosa afferma oggi il pensiero e la prassi politica dominante?
L’intero scenario politico contemporaneo, per Marchi, dal sovranismo di destra, al liberal-capitalismo interclassista e multinazionale di sinistra, appare all’A. diviso soltanto su fatti marginali e contingenti, poiché in realtà esso condivide fortemente i valori e gli obiettivi fondamentali, ossia l’appartenenza indiscutibile e a-problematica all’orizzonte del mercato capitalistico e all’attuale strutturazione delle classi.
Mentre in altre fasi storiche del capitalismo occidentale la triade Dio, Stato e famiglia costituiva un punto di riferimento fortissimo e, di fatto, con quella triade ideologica, il potere aveva assolto assai bene la sua funzione di “verità/sapere, oggi quella triade non appare più consona alla mutata condizione storica. Il capitalismo – è noto a tutti – costituisce una struttura mobile che deve la sua forza fondamentale alla capacità spregiudicatamente metamorfica. La triade di un tempo, così, si è mutata in altre parole d’ordine, finalmente adatte al contemporaneo.
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Le miserie della flat tax e gli strali dei liberisti
di coniarerivolta
Mentre il Governo inizia a calare le braghe sulla dimensione della manovra, proviamo in questo contributo a tenere alta l’attenzione sul contenuto della stessa, focalizzandoci sugli interventi previsti in materia fiscale.
Transitata nei meandri del convulso dibattito politico che ha preceduto la finanziaria di settembre, la cosiddetta flat tax, nome in codice propagandistico della riforma fiscale voluta dal governo, è infatti entrata nella Legge di bilancio in modo fortunatamente assai ridimensionato, depotenziando fortemente la sua stessa natura costitutiva. Al momento, data la transitorietà della stessa manovra finanziaria sottoposta ad una prima bocciatura dell’UE e quindi ad un iter di probabile modifica, non sappiamo se la riforma fiscale disegnata sarà davvero definitiva. Possiamo però limitarci a capirne la sostanza e a svelare, ancora una volta, la natura miserevole del dibattito che si è scatenato attorno a tale misura.
Dal mito dell’aliquota unica su tutti i redditi al 15% propagandato dalla Lega in campagna elettorale, si era al principio passati all’idea di una tassa duale con doppia aliquota al 15% fino a 75.000 euro e al 20% oltre tale soglia. Nella legge di bilancio, invece, appare una misura assai diversa, ovvero un’estensione del già esistente regime forfettario riservato ai redditi indipendenti (di lavoro autonomo o di impresa) dalla soglia di 30.000 di fatturato alla soglia di 65.000. Incerto, ma probabile, l’ampliamento del regime alla fascia da 65.000 a 100.000 euro con un’aliquota del 20% a partire però dal 2020. Insomma niente flat tax, ma una pallida flataxina o, meglio ancora, una mera modifica quantitativa del regime forfettario. Ma di cosa si tratta?
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Manovra 2019: problema di spread o di qualità?
La tesi dell’espansione restrittiva di Blanchard e Zettelmeyer e tutti i suoi limiti
di Felice Roberto Pizzuti
Manovra 2019. Spread e reazione dei mercati possono compromettere l’efficacia della manovra economica italiana? Felice Roberto Pizzuti contesta questa nuova tesi di Blanchard e Zettelmeyer e spiega che quello che conta non è lo spread ma la qualità delle misure previste
1. Nel dibattito sulla Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza (Nadef) 2018 si evidenziano contributi anche autorevoli che, tuttavia, rischiano di aumentare gli elementi di confusione che lo caratterizzano. La manovra, anche per come viene presentata dal Governo nelle trattative con l’Unione europea (UE), presenta delle criticità che ne pregiudicano l’efficacia e, nel suo insieme, mostra di non avere la visione di lungo respiro necessaria ad affrontare i problemi organici della nostra economia, approccio che sarebbe particolarmente congruo all’inizio di una legislatura “di cambiamento”. Tuttavia, le critiche che la manovra merita non dovrebbero distogliere l’attenzione dalla maggiore pericolosità insita in altri ingiustificati rilievi che le sono rivolti con i quali si cerca di riproporre la stessa concezione economica della “austerità espansiva” già rivelatasi molto dannosa non solo per il nostro paese, ma per la stessa costruzione europea la quale, peraltro, è resa sempre più necessaria dall’evoluzione degli equilibri economici e politici globali.
2. In un articolo tradotto sulla Voce.Info del 27 ottobre[1], O. Blanchard (tra l’altro, ex capo economista del FMI) e J. Zettelmeyer (tra l’altro, ex direttore generale per le politiche economiche del Ministero tedesco degli Affari economici e l’energia), attualmente entrambi membri del Peterson Institute for International Economics, sostengono che l’obiettivo della crescita del Pil perseguito dal governo italiano con l’aumento del deficit di bilancio al 2,4% non sarà raggiunto poiché l’intento espansivo sarà più che compensato dall’effetto contrario derivante dall’aumento dei tassi d’interesse provocato dalla stessa manovra.
I due autori (B&Z) concordano che “Nonostante ”strette fiscali espansive” e “espansioni fiscali restrittive” siano teoricamente possibili, una politica fiscale espansiva generalmente aumenta la produzione e una restrittiva la rallenta – anche in paesi con un alto debito pubblico”.
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La tragedia italiana
di Hans Werner Sinn
Hans Werner Sinn, anche se ormai da qualche anno in pensione, non si fa sfuggire l'occasione per commentare sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung la situazione italiana. Per il brillante economista tedesco gli italiani con i loro ricatti cercheranno di spillare quanti piu' soldi possibili ai "partner europei", ma l'ultimo atto di questa tragedia sarà l'uscita dalla moneta unica. Dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung
Si può discutere dell'attuale disputa fra UE e Italia in chiave moraleggiante e condannare i presunti eccessi italiani. Questo conflitto tuttavia può anche essere interpretato come il risultato di azioni sconsiderate di messa in comune che hanno causato dei gravi danni all'integrazione europea.
Il debito pubblico italiano è da sempre elevato e nelle banche italiane sonnecchiano da tempo delle enormi riserve di crediti deteriorati. La Commissione europea già da molti anni avrebbe dovuto regolare le banche in maniera più' severa e limitare i titoli del debito pubblico, ma non lo ha fatto. Che ora improvvisamente si agiti per un rapporto deficit/pil del 2,4 % è dovuto piu' che altro al fatto che i nuovi partiti euro-scettici in Italia si sono profilati come i concorrenti del vecchio establishment politico. E ora si vuole fare del paese un esempio per educare tutti gli altri. Dopo il rifiuto da parte del governo italiano di ridurre il deficit di bilancio, la Commissione europea potrebbe imporre delle multe pesanti. L'Italia tuttavia non sembra avere alcuna intenzione di pagare per queste sanzioni e cerca invece lo scontro aperto. Non viene piu' nemmeno invocata una soluzione amichevole. Il governo italiano è stato eletto per adottare misure radicali. E dalla popolazione italiana sarà valutato in base alla capacità di essere all'altezza di queste aspettative.
La storia dell'Italia nell'euro è una storia di crediti e garanzie pubbliche, di garanzie messe in comune e di sovvenzioni attraverso le quali il paese è stato tenuto a galla. Tutti questi aiuti hanno agito come farmaci che calmavano i mercati finanziari e la popolazione. Ma non hanno contribuito a risolvere i problemi strutturali del paese. Hanno invece distrutto la competitività dell'Italia e aumentato la dipendenza del paese dal debito.
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Cambiamento climatico: siamo l’ultima generazione che potrà combattere l’imminente crisi globale
di Angelo Romano
"Il cambiamento climatico è la sfida chiave del nostro tempo. La nostra generazione è la prima a sperimentare il rapido aumento delle temperature in tutto il mondo e probabilmente l'ultima che effettivamente possa combattere l'imminente crisi climatica globale". Inizia con queste parole la dichiarazione congiunta di 16 capi di Stato e di governi europei (firmata per l’Italia dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) per chiedere che durante la conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 24), in programma dal 3 al 14 dicembre a Katowice, in Polonia, siano adottate “norme operative dettagliate e linee guida che rendano operativo l’accordo raggiunto a Parigi tre anni fa".
Il nostro pianeta, prosegue la lettera, è vicino a un punto di non ritorno, come testimoniato dalle sempre più intense e frequenti “ondate di calore, inondazioni, siccità e frane, lo scioglimento dei ghiacciai e l'innalzamento del livello dei mari”. Le carenze delle risorse idriche e la crisi dei raccolti sono solo alcuni dei risultati immediati di questa situazione, che “ha un impatto devastante sugli esseri umani riducendoli alla fame o obbligandoli a migrare”.
Per questo motivo, sottolineano i capi di Stato, “bisogna fare di più e l'azione deve essere rapida, decisiva e congiunta. Stiamo già osservando le ricadute negative dei cambiamenti climatici” e le misure adottate dalla comunità internazionale non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi a lungo stabiliti dall’accordo di Parigi. Oltre a definire le azioni delle singole nazioni per il 2025 e il 2030, a Katowice dovranno essere enunciati gli obiettivi a lungo termine per ridurre le emissioni di carbonio e passare da fonti energetiche fossili a energie rinnovabili e raggiungere entro il 2050 l’equilibrio tra emissioni e assorbimento del carbonio. “Abbiamo l'obbligo collettivo nei confronti delle generazioni future di fare tutto ciò che è umanamente possibile per fermare i cambiamenti climatici e per rispondere ai loro perniciosi effetti”.
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La controversia sul capitale
di Gabriel Brondino e Davide Villani
La precarietà del lavoro, la rimozione dei diritti non sono scelte inevitabili dettate delle “leggi dell’economia”. Si tratta di un attacco ai lavoratori, un tentativo di riappropriazione capitalistica
Riflettere di teoria economica viene bollato nel migliore dei casi come un “ragionare dei massimi sistemi”, inutile. Niente di più falso perché è proprio dalle teorie e dalla visione di mondo che esse incorporano, l’ideologia, che derivano le scelte politiche siano esse in ambito economico, istituzionale e politico.
L’incapacità di analizzare le ricadute politiche di certe teorie rende difficile squarciarne il velo più profondo. Negli ultimi decenni, si è affermata egemonicamente una ben precisa teoria, quella neoclassica o marginalista, adottata come unica teoria, naturale e quindi incontestabile. Eppure non è affatto così: questa è solo una delle teorie economiche ed è anche fallace sia dal punto di vista teorico sia da quello empirico, cioè della capacità di realizzarsi ed essere verificata nei fatti.
Esempio più lampante è la riforma delle riforme: quella del mercato del lavoro, il lungo processo di flessibilizzazione e liberalizzazione avvenuto in Europa negli ultimi due decenni, in Italia a partire dal Pacchetto Treu del 1997 che introdusse il lavoro interinale. Queste riforme sono state giustificate dai governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni con l’idea che alla base dell’elevata disoccupazione italiana ci fosse un’eccessiva rigidità del lavoro, in ossequio ai dettami dell’Ocse. In questo contesto le tutele sindacali, così come qualsiasi norma a difesa dei lavoratori, impedirebbero il “corretto” funzionamento del mercato del lavoro. L’idea per cui la rigidità del mercato del lavoro costituirebbe un problema ha progressivamente monopolizzato il dibattito pubblico e l’agenda politica della maggioranza dei partiti dell’arco parlamentare, almeno in Italia.
Tutte queste misure si ispirano, più o meno esplicitamente, alla teoria economica dominante (neoclassica o marginalista) per cui la rimozione delle “frizioni” e delle “rigidità” del mercato del lavoro favorirebbe il raggiungimento della piena occupazione. Reso libero il mercato, la disoccupazione sarebbe soltanto una scelta volontaria.
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Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”
di Alessandro Visalli
Questo importante, ed estremamente denso, libro di Jean-Claude Michéa parte da una conferenza del 2007 e viene portato a compimento nello stesso anno. Si tratta di un insieme di saggi brevi sulla “civiltà liberale” che compiono un esercizio di storia ricostruttiva delle idee strettamente ed indissolubilmente intrecciata ad un giudizio sulla contemporaneità. Come più volte Michéa ricorda, nessun autore del XVII secolo, o del XIX, sarebbe d’accordo con questa analisi, la vedrebbe in effetti come una perversione di una teoria che voleva ottenere altro. Ma è proprio questo il punto del nostro: la perversione, ovvero gli effetti radicalmente de-socializzanti della forma sociale liberale, è nella matrice originaria per come si è dispiegata nel suo sviluppo storico.
Michéa definisce il suo lavoro sulla base di una scelta che potrebbe essere intesa come idealista[1], o come anti-materialista: per lui è il progetto filosofico liberale, scaturito da uno specifico ambiente storico, ad aver portato alla sua ‘realizzazione logica’, ovvero alla verità secondo il suo concetto, nella società moderna. E quindi è questo ad essere l’agente decisivo del movimento storico che ha trasformato, e continua a trasformare le società, conducendole alla modernità.
L’economia è invece letta da Michéa, secondo la lezione di Polanyi[2], non come fondamento e sfera separata della società, tanto meno dipendente dallo sviluppo della tecnologia o delle ‘forze produttive’[3], ma incorporata nelle condizioni ideologiche, negli ideali sociali.
Naturalmente la filosofia liberale, nella forma storica che gli è stata attribuita originariamente da Adam Smith, Ferguson, Bastiat, Locke, etc., non aveva come intenzione di produrre la società moderna realmente esistente, con tutti i suoi effetti dissolventi il legame sociale e la sua contraddizione interna, ma ne è stato l’effetto secondo la logica del suo principio[4].
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Classi medie e proletari nel "movimento dei gilet gialli"
di Agitations
La mobilitazione proletaria e interclassista dei "gilet gialli" suggerisce che esista una rabbia che si cristallizza sotto forme e discorsi differenti a seconda dei blocchi e degli spazi, creando una sorta di atonia critica, se non degli appelli romantici ad essere popolo. Di fronte a questo movimento, non rimane altro da fare che un lavoro noioso: quello di interessarsi ad una settimana di mobilitazioni attraverso quelle che sono le strutture spaziali e demografiche che lo attraversano e che ci danno informazioni a proposito della sua composizione sociale
Sotto i gilet gialli, delle magliette gialle
Pur non essendo di massa, la partecipazione alla mobilitazione di sabato 17 novembre è stata importante (sebbene più debole di quella di sabato 24 novembre). Le modalità originali di partecipazione erano minime: indossare un gilet giallo oppure metterlo sotto il parabrezza. Nel corso di questa mobilitazione, dei proletari, vestiti da "popolo", manifestavano insieme a dei piccoli padroni e a dei piccoli sfruttatori, al punto che, a prima vista, rimane difficile capire su quali basi profonde affondasse le sue radici l'appello al blocco. Dal momento che qui non si tratta né di un semplice essere stufi delle tasse, né di una jacquerie (e questo, detto al di là dell'anacronismo di tale analogia). Fondamentalmente, questo movimento contesta la diseguale distribuzione dell'imposizione fiscale sui dipendenti salariati e sui commercianti, e ne contesta soprattutto la sua forma indiretta (IVA, aumento globale delle tasse...), ritenuto come «il più ingiusto». Tale movimento avviene in un contesto di stagnazione dei salari, delle pensioni e dei sussidi che si trovano al di sotto del livello dell'inflazione, e in un contesto di diminuzione degli aiuti (APL [sussidio abitativo], Assurance chômage [Cassa di Disoccupazione], CSG [Contribuzione Sociale Generalizzata]), allo stesso tempo in cui «il costo della vita» (alloggi, trasporti, generi alimentari) aumenta. I primi ad essere colpiti da queste inuguaglianze sono gli operai e i dipendenti delle aree suburbane e delle zone rurali, ma possiamo domandarci legittimamente se questi ultimi possono mobilitarsi rispetto a dei luoghi da bloccare che talvolta sono lontani, e mentre il costo per arrivarci potrebbe dissuadere alcuni entusiasti.
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Crisi economica e disordini mondiali
di Michel Husson
Dieci anni dopo il crollo della Lehmann Brothers, si moltiplicano i contributi, attorno a due questioni: come è successo? Può succedere di nuovo? Ma quasi tutti sono centrati sulle derive della finanza, passate o future. Il punto di vista adottato qui è leggermente diverso, poiché cerca di identificare le radici economiche dei disordini mondiali. Il suo principio guida è il seguente: l’esaurimento del dinamismo del capitalismo e la crisi aperta dieci anni fa conducono a una globalizzazione sempre più caotica, portatrice di nuove crisi, economiche e sociali*.
1. Il capitalismo senza fiato
Il dinamismo del capitalismo poggia in definitiva sulla sua capacità di ottenere incrementi di produttività, in altre parole di far crescere il volume di beni prodotti per ora lavorata. A partire dalle recessioni generalizzate del 1974-75 e del 1980-82, gli incrementi di produttività si sono tendenzialmente rallentati. Siamo passati da ciò che alcuni hanno chiamato «Età dell’oro» (per sottolineare la natura eccezionale del periodo) al capitalismo liberista, oggi minacciato da una «stagnazione secolare». Durante quel periodo, il capitalismo ha ottenuto il risultato spettacolare di ripristinare la redditività, nonostante il rallentamento degli incrementi di produttività illustrato nel grafico 1 [1].
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Non è l’ignoranza a generare diffidenza per la scienza, ma il burionismo
di Francesco Coniglione
Nelle polemiche sulla scienza in Italia si sono contrapposte come figure paradigmatiche da una parte Barbara Lezzi, dall’altra Roberto Burioni; la prima come la rappresentante politica adeguata dell’ignoranza che alberga negli italiani in merito alle questioni scientifiche, il secondo come la sana e autorevole voce della scienza, che dovrebbe risvegliare dal sonno dogmatico gli italiani e distoglierli da insane idee antiscientifiche. Il presupposto di questa rappresentazione è che la scienza fa fatica a farsi strada a causa della indigenza culturale degli italiani che, educati a base di retorica e materie letterario-umanistiche, non riescono proprio a capire nulla di scienza; come si suol dire, proprio “non ce la fanno”, nonostante gli eroici sforzi di divulgazione degli Angela. E la terapia è semplice: massicce dosi di tecnologia, scienza, matematica, da somministrare nelle scuole e in ogni occasione.
Purtroppo questa rappresentazione è falsa, non tanto perché Burioni sia un cattivo scienziato o un ciarlatano (anzi non mettiamo in discussione la sua competenza e caratura scientifica), ma perché a monte di tale quadro v’è una carenza di riflessione sulle origini della diffidenza verso la scienza e sul modo in cui questa dovrebbe essere comunicata. E inoltre, non è affatto vero che sia una peculiarità italiana l’ignoranza scientifica e l’atteggiamento di rifiuto verso la scienza, essendo questo un problema che esiste da decenni e del quale si sono occupati i governi nazionali e gli organismi internazionali, sin dal momento in cui è stata impostata la Strategia di Lisbona (2000). Già in questa occasione era emersa la consapevolezza della necessità di riannodare i nessi che legano democrazia, pubblico e scienza, in quanto «l’immagine che gli europei hanno della scienza si è deteriorata rispetto al passato.
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L’Europa difende i risparmi delle famiglie (e allora lo spread?)
di Thomasmuntzerblog
In questi giorni, in Francia, alcune decine di migliaia di persone hanno protestato in maniera auto-organizzata in seguito all’aumento dei prezzi del carburante. La protesta coinvolge in larga misura persone che abitano in zone periferiche delle grandi città e non possono fare a meno di spostarsi in macchina per andare a lavorare. Ciò che trovo più ipocrita della misura del governo francese è la giustificazione secondo cui bisogna disincentivare le persone dal prendere o comprare la macchina perché inquina. Credere alla giustificazione verde del provvedimento denota infatti una certa superficialità, per il semplice fatto che chi è obbligato a utilizzare la macchina, continuerà a prenderla se non viene potenziato il trasporto pubblico prima di tassare macchine e/o carburanti. L’unico effetto quindi sarà quello di impoverire queste persone senza alcun beneficio per l’ambiente. Sarà un effetto collaterale o è il vero fine del provvedimento? Per capirlo bisognerebbe tornare ai fondamentali…
Invece di occuparci delle vicissitudini d’oltralpe vorremmo però affrontare tre storielle bizzarre che trovano molto spazio nei media nostrani e che meritano un po’ di attenzione:
1) l’innalzamento dello spread è dovuto alla perdita di fiducia dei mercati;
2) l’Europa garantisce i risparmi delle famiglie italiane;
3) un deficit eccessivo mette a rischio la stabilità dell’intera Eurozona.
Stando a queste storielle, il governo dovrebbe retrocedere sulle cifre della manovra e obbedire a Moscovici. Dovrebbe farlo
1) per riguadagnare la fiducia dei mercati e finanziare la sua spesa;
2) salvaguardare i risparmi;
3) non mettere in pericolo l’Eurozona,
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URSS, una storia che non possiamo rimuovere
di Fabio Ciabatti
Sviluppo e declino dell’economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios 2018, pp. 365, € 29,75
Di fronte alla rapida dissoluzione dell’URSS, con il classico senno di poi, il senso comune liberale ha decretato che la crisi era inevitabile e iscritta sin dall’inizio nelle fondamenta di un sistema sostanzialmente contronatura. Questione chiusa. E con ciò si è preteso di chiudere anche ogni prospettiva di modifica radicale degli assetti politico-economici dominanti. Che ci piaccia o no il crollo dell’Unione Sovietica ha dato un contributo essenziale a consolidare la convinzione che “non c’è alternativa” al sistema capitalistico. Non è un caso che di fronte alla crisi iniziata nel 2008, la più grave dopo quella del ‘29, siano state proposte solo pallide repliche di un riformismo keynesiano. Per tornare a parlare in modo credibile di una ipotesi di trasformazione reale sarebbe stata necessaria un’elaborazione collettiva della vicenda storica dell’Unione Sovietica. La questione, invece, è stata sostanzialmente rimossa. Ci sono però delle lodevoli eccezioni tra cui la redazione di Countdown che ha curato la raccolta di saggi dal titolo Sviluppo e declino dell’economia sovietica.
I curatori del volume hanno un consolidato gusto per la provocazione nei confronti delle più radicate convinzioni della sinistra. Cosa che traspare dal giudizio che viene dato dei soviet nell’articolo di Paolo Giussani: “Strumenti di lotta e sistemi di riferimento per la massa dei lavoratori, erano del tutto estranei al funzionamento dell’economia” e dunque non potevano essere altro che organismi adatti a un “rivoluzionamento politico”.1 La presa del potere da parte di un governo rivoluzionario è però soltanto la premessa per la gestione associata dei produttori dell’apparato produttivo e distributivo. Per raggiungere questo scopo occorrono forme politiche adeguate che dovrebbero essere elaborate, almeno in parte, nel corso della presa del potere politico.
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Cose che si devono sapere sulla bocciatura europea della manovra italiana
di Andrea Fumagalli e Roberto Romano
Mercoledì 21 novembre 2018 la Commissione Europea ha bocciato la manovra economica italiana per il 2019. È la prima volta che succede da quando, nel 1999, si è costituita l’Unione Monetaria Europea. L’accusa è di violare le norme relative al controllo del bilancio pubblico. Non si fa riferimento al rapporto deficit/Pil (il cui livello viene fissato al 2,4% negli obiettivi del Def italiano, quindi al di sotto del livello massimo consentito dal Patto di Stabilità – 3%) ma al mancato rispetto del rapporto debito/Pil (il cui limite massimo del 60% è più che doppio nel caso italiano), con l’argomentazione che proprio per l’elevato debito pubblico, l’Italia deve intraprendere politiche di forte riduzione anche del rapporto deficit/Pil. Se, quando l’euro è nato, 20 anni fa circa, il 30% dei paesi non rispettava quest’ultimo parametro (Italia, Grecia, Belgio…), oggi il loro numero è più che raddoppiato (alla lista si sono aggiunti Spagna, Portogallo, Francia…). Eppure, è l’Italia il primo paese a rischiare la procedura di infrazione. In questo articolo si analizzano le ragioni del pregiudizio europeo sull’Italia – che non debbono fare dimenticare le ombre sulla manovra italiana stessa.
* * * *
In un recente articolo pubblicato su Effimera relativo al “Grande business sul debito italiano” e in un contributo di Giovanni Giovannelli, si era posta la necessità di indagare non solo le cause dell’incremento dello stesso debito e le pretese delle autorità europee di “governare” il debito italiano, ma anche affrontare il secondo punto dello scontro in atto tra governo gialloverde e Commissione europea. Ovvero non solo il target del 2,4% del rapporto deficit/Pil ma le stime della crescita economica italiana del 2019, che tale target dovrebbero garantire.
Lo facciamo ora, limitandoci solo alle previsioni di crescita per il 2019.
Secondo il Def governativo, l’economia italiana dovrebbe crescere nel 2019 all’1,5%. Tale crescita dovrebbe rendere realistico un rapporto deficit/Pil in crescita ma non superiore al 2,4%.
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Armi di distrazione di massa
Ipocrisie, decerebramenti, spopolamenti
di Fulvio Grimaldi
“La storia della nostra razza e ogni esperienza individuale sono cucite dalla prova che non è difficile uccidere una verità e che una bugia detta bene è immortale”. (Mark Twain)
https://vimeo.com/300013842 (link a una miaa intervista sulla Grecia realizzata da Patrick Mattarelli. Per aprire il link la password è Ful18vio)
Femminicidi. Non solo.
Metto le mani avanti, ricordando che ho dedicato gran parete di un mio documentario, visto da migliaia di persone, al femminicidio, massima espressione della violenza sulle donne. Se ora dico che al momento parrebbe che, schiacciati a terra e ridotti a pezzetti dall’uragano politico-mediatico sulla violenza sulle donne, noi uomini dobbiamo convincerci che, come tali, uccidiamo a gogò, ma non ci ammazza mai nessuno e che, in nessun caso, potremmo avanzare l’inaudita pretesa di essere, a volte, anche noi vittime. Non delle donne, di qualche donna. Sfido la crocefissione morale se dico che questa, come molte altre ondate di unanimismo di classe femminista, fin dagli anni della Grande Contestazione, potrebbe nutrire il sospetto di trattarsi, nell’intenzione dei noti amici del giaguaro, di grande operazione di distrazione di massa? Ho detto sospetto, non certezza. Vediamone gli spunti.
Fatta salva la sacrosanta protesta contro gli ottusi reazionari e facilitatori delle mammane che puntano a rimettere in discussione la 194 e mettere le zampe sull’autodeterminazione delle donne, abbiamo assistito a un tripudio di ipocrisia. Proprio come quella, del tutto analoga e inserita dalle note manone nella stessa strategia, che vede perorare l’accoglienza universale dei migranti e vituperare chi vi avanza qualche riserva. Come quella che nota lo svuotamento di un’Africa e di un Medioriente infestati da guerre innescate ad arte, o assegnati a multinazionali predatrici, e i relativi traffici di gente da spostare da più o meno nobili trafficanti. Svuotare l’Africa, far tracimare l’Europa mediterranea.
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La questione della transizione nell’era del capitale globale
di Lorenzo Procopio
Riflettere oggi sulla questione della transizione dal capitalismo al comunismo per ripartire da Marx e ribadire l’unicità del processo di trasformazione rivoluzionario. Ripensare la transizione anche per criticare, dal punto di visto del marxismo rivoluzionario, quelle tesi del neo-operaismo che ipotizzano di superare il capitalismo attraverso lo sviluppo della moneta del comune
Trattare oggi il problema della transizione potrebbe apparire un’inutile disquisizione accademica senza alcun legame con la realtà che ci troviamo quotidianamente a vivere sotto il tallone di ferro imposto dalla borghesia e del suo omologante “pensiero unico”. Il problema della fase di transizione dal capitalismo al comunismo, che in passato è stato oggetto di frammentarie quanto appassionate discussioni tra i massimi teorici del movimento comunista, oggi è quasi del tutto ignorato anche da chi si richiama al marxismo rivoluzionario. Lo sforzo teorico che stiamo compiendo in questi ultimi anni e l’attenzione su alcuni punti qualificanti e nodali della questione transizione hanno la funzione di rompere l’assordante silenzio e rappresenta, a nostro avviso, un fattore importante che potrebbe permettere la ripresa della discussione sull’argomento e contribuire in tal modo a rilanciare il progetto dell’alternativa comunista. Riprendere il filo del discorso sulla transizione appare altrettanto importante per contrastare alcune tesi, attualmente in voga nelle file del variegato mondo neo-riformista e neo-operaista, che ipotizzano addirittura la possibilità di costruire un circuito monetario alternativo a quello capitalista, finalizzato a sostenere lo sviluppo del “comune-ismo”. Ci riferiamo nello specifico al filone neo-operaista che, tra le altre cose, arriva a sostenere la tesi che nel capitalismo bio-cognitivo, in cui il comune, ossia
“il rapporto dialettico, tra parola e lingua, ovvero tra lavoro vivo e lavoro morto incorporato nello stesso corpo/essere umano, esito della pratica del linguaggio e della relazione soggettiva e umana, la combinazione tra animale che sa parlare e animale politico che definisce la natura umana1”,
subisce una sussunzione vitale al capitale, si aprono potenzialmente degli spazi per la creazione di circuiti monetari (vedi le cripto monete) alternativi a quelli del capitale, che, se adeguatamente sostenuti e sviluppati, potrebbero creare i presupposti per un superamento dello stesso modo di produzione capitalistico.
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L’Italia nella crisi dell’eurozona
di Antonio Lettieri
Molte cose potranno accadere dopo l’accelerazione della crisi che ha seguito la svolta politica nel nostro paese. Non è facile prevederne gli esiti. Ma qualcosa è già successo. Una lunga e sfortunata fase politica dell’eurozona è al tramonto. E sarà difficile rimpiangerne la fine, dopo un decennio perduto
Apparentemente, l’attacco della Commissione europea contro il governo italiano non ha senso. L'argomento riguarda il livello del deficit di bilancio per il prossimo anno. Nel corso del confronto col governo italiano sembrava che la Commissione potesse accettare un deficit dell'1,9% del PIL. Non è andata così. Com’è noto, il progetto di bilancio definitivo presentato dal governo italiano prevede un deficit di bilancio per il 2019 del 2,4 per cento.
Il deficit in questione
C'è una spiegazione? Circa un terzo del deficit è finalizzato a scongiurare l'aumento dell’IVA , un vecchio vincolo assunto dai governi passati per non incorrere nelle sanzioni della Commissione europea. Circa un altro terzo del deficit è stato stanziato per finanziare il reddito di cittadinanza a beneficio dei cittadini che vivono in condizioni di estrema povertà - a condizione che accettino una delle tre offerte di lavoro provenienti dai centri per l’impiego adeguatamente rafforzati.
Un’altra parte importante del deficit è destinata alla spesa pensionistica, con l’obiettivo di consentire alle persone di almeno 62 anni e con 38 anni di contributi di poter accedere alla pensione - una disposizione mirante nelle intenzioni anche a creare mezzo milione di posti di lavoro a favore di giovani disoccupati. Una quota minore del disavanzo è destinata a incrementare il capitolo di spesa precedentemente destinato a investimenti pubblici per circa 15 miliardi rimasti inattivati.
Perché, per la prima volta nella storia dell'UE, la Commissione europea ha respinto un progetto di bilancio, minacciando di aprire una procedura di infrazione contro l’Italia?
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I lunghi anni Sessanta, non ancora finiti?
di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino
Introduzione a Revolution in our Lifetime, conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, a cura di Emiliana Armano e Raffaele Sciortino, ed. Colibrì, 2018
Non voglio parlare di me, ma seguire il secolo, il rumore e l’evolvere del tempo
Osip Mandel'štam
Molto è già stato scritto sul Sessantotto, di memorialistica come di analisi storico-politica, eppure a distanza di anni quel processo-evento continua a sollecitare domande e a dividere i fronti tra chi l’ha vissuto ma anche tra chi si occupa o è attivo nei movimenti sociali. Evidentemente ha lasciato qualcosa d’irrisolto, e di rilevante a tutt’oggi, se non altro perché è stato l’ultimo movimento di ribellione radicale a scala globale1.
Che cosa ha spinto i giovani degli anni Sessanta, nei più differenti contesti, alla militanza politica attiva? Quali strade, quali punti di svolta e convinzioni maturarono a supporto delle loro scelte? E che cosa ha permesso ad alcuni, pochi, di loro di diventare poi marxisti e comunisti eretici? Quali le conseguenze per i loro percorsi nei decenni successivi? E soprattutto, a distanza di oramai cinquant’anni, che cosa ci dice tutto ciò oggi per interpretare e intervenire nel presente?
Attraverso alcune conversazioni con il marxista statunitense Loren Goldner, questo libro ricostruisce il processo di politicizzazione di un giovane militante della Nuova Sinistra statunitense degli anni Sessanta, che nel 1968 partecipò all’occupazione del campus di Berkeley (è l’episodio evocato nell’immagine di copertina). Da questo racconto la conversazione si estende poi a temi che continuano ad essere meritevoli di approfondimento teorico e politico. In che maniera il movimento del Sessantotto è maturato come fenomeno globale? Quali i problemi che dovette affrontare e come cercò di risolverli? Che cosa ci dicono oggi i legami che all’epoca si strinsero, o non si strinsero, tra le lotte studentesche e quelle delle altre molteplici componenti sociali che costituivano il movimento? Ma, soprattutto, quali le rotture e quali le continuità con i cicli di lotta precedenti e successivi? Sono alcune delle questioni di fondo che vengono sollevate o per lo meno evocate.
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“L’ho sempre saputo”
Un viaggio ai confini del tempo e della storia
di Vincenzo Morvillo
È in uso, tra i grandi giornalisti bellamente accomodati alla mensa del potere, recensire, con lodi sperticate, mediocri libercoli scritti da potenti politici, ricchi signori del mondo o importanti “intellettuali” di regime, dai quali ottenere, in comodato d’uso, il diritto di parola, subordinato alla vendita della propria coscienza, della propria dignità, della propria libertà.
Noi ci pregiamo, invece, di recensire, da queste pagine, L’ho sempre saputo – ultima fatica letteraria di Barbara Balzerani, edita da DeriveApprodi – e di accomodarci accanto a questa donna che, insieme ai suoi compagni delle Brigate Rosse, quei potenti, quei signori e quegli intellettuali – tutti pateticamente rinserrati nella celebrazione narcisistica del proprio Ego smisurato – ha fatto tremare, per oltre un decennio, mettendone a ferro e fuoco le ragioni e, con esse, il sistema di rapporti di produzione e conoscenza, su cui si fondava – e ahimè, purtroppo, continua a fondarsi – il loro arrogante privilegio di comando.
Una donna forte, caparbia, finanche dura, ma non certo priva di quella tenerezza di sguardo e predisposizione alla fratellanza – sociale, mai clericale – con i reietti ammassati nelle periferie delle megalopoli, con i deportati delle banlieue, con i plebei delle baraccopoli di tutti i Sud del pianeta, che ne hanno fatto, ieri, una guerrigliera comunista; oggi, una scrittrice dalla sensibilità lacerante e crudele, dal tratto realistico e magico, dallo stile scarno e spigoloso, seppur ricercato nell’uso di una parola dai profondi echi simbolici e di costrutti densi di coltissime risonanze; e dall’impronta inequivocabilmente marxista.
Fratellanza e tenerezza, dunque, si diceva, alimentate nel silenzio sofferto delle ingiustizie del mondo. Un mondo oppresso dal furore distruttivo del capitale e del profitto, e di cui a pagare dazio sono, da sempre, proprio i dannati della terra.
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Alcune precisazioni sull'anti-lavoro
di Bruno Astarian
[hicsalta-communisation.com, dicembre 20161 ]
Introduzione
Sul concetto di anti-lavoro regna una certa confusione. Nemmeno il mio opuscolo Aux origines de l’anti-travail (Échanges et Mouvement, Parigi 2005) vi sfugge. La confusione consiste nel non specificare in maniera sufficiente questo concetto. Essa porta, da un lato, a collocare nella categoria dell'anti-lavoro alcuni comportamenti, come l'indolenza del lavoratore salariato che cerca generalmente di fare il meno possibile, oppure il fatto di preferire al lavoro la disoccupazione (indennizzata) o la vita ai margini. Queste pratiche di rifiuto del lavoro, di resistenza, sono vecchie come il proletariato, e non definiscono l'anti-lavoro moderno. Dall'altro, la confusione consiste nel ricondurre alla categoria dell'anti-lavoro delle pratiche di resistenza allo sfruttamento che in realtà sono pro-lavoro, come ad esempio il luddismo. Ora, io ritengo sia meglio riservare il termine «anti-lavoro» alle lotte della nostra epoca (a partire dagli anni intorno al '68), le quali indicano che il proletariato non è più la classe che si affermerà nella rivoluzione come la classe del lavoro egemonico, come la classe che renderà il lavoro obbligatorio per tutti e sostituirà la borghesia alla direzione dell'economia.
Per meglio comprendere la specificità che bisogna accordare al termine «anti-lavoro», è necessario rimettere la questione in una prospettiva storica. Precisiamo che in questa sede ci interesseremo alle lotte che si svolgono in fabbrica, contro le modalità abituali del rapporto fra i lavoratori ed i loro mezzi di produzione (assenteismo, sabotaggio, indisciplina in generale).
1. Il luddismo
Il luddismo viene spesso identificato con una reazione spontanea e rabbiosa degli operai inglesi dell'inizio del XIX secolo, contro l'introduzione di nuovi macchinari. Il fatto che abbiano distrutto delle macchine fa pensare a certe forme moderne di sabotaggio, in particolar modo nell'ambito del lavoro alla catena di montaggio. Questa valutazione, tutt'altro che esatta, spiega il fatto che il luddismo venga talvolta assimilato all'anti-lavoro.
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Argentina: torna il liberismo. Se ne era mai andato?
di Roberto Lampa
Per capire il ritorno prepotente della crisi economica in Argentina vanno analizzate le scelte scellerate del governo di centro-destra di Macri ma anche i limiti del cosiddetto ciclo progressista (o populista) dei governi Kirchner
“Argentina di nuovo a rischio: possibile default in stile 2002” (Il Sole 24 Ore, 4 settembre)
“L’Argentina sprofonda nella crisi” (Financial Times, 26 settembre)
“Gli investitori farebbero bene a stare alla larga dall’Argentina” (Wall Street Journal, 4 ottobre)
Tra titoloni apocalittici e resoconti di stampa sempre di più simili a necrologi, l’Argentina è tornata prepotentemente a far parlare di sé. Nell’ultimo anno il valore del peso argentino è precipitato più di ogni altra valuta al mondo (il tasso di cambio con il dollaro è aumentato del 122%), la produzione industriale è in caduta libera (-5,6% in agosto), la disoccupazione è ormai prossima al 10% (nonostante le controverse statistiche argentine considerino occupati anche i titolari di partite Iva e coloro i quali percepiscono un sussidio di lavoro), e ben il 30% della popolazione è tornata a vivere sotto la soglia della povertà. Se da un lato ciò non può certo sorprendere i lettori più attenti delle tormentate vicende latino americane (negli ultimi 200 anni, ben sette sono stati i default argentini), dall’altro rimane molto difficile spiegare come sia stato possibile che un paese con un debito estero prossimo allo zero passasse a mendicare un accordo di oltre 50mila milioni di dollari – per di più firmato in condizioni emergenziali e a dir poco sfavorevoli – con il Fondo Monetario Internazionale, in meno di tre anni.
Tra le conseguenze del default del 2001, il più grande della storia del capitalismo (causato dall’impossibilità del paese di far fronte ad un’enorme mole di debito emesso in dollari statunitensi e che aveva ridotto oltre il 50% dei suoi abitanti a vivere sotto la soglia di povertà), ve ne era stata infatti almeno una (parzialmente) positiva: il sostanziale divieto per l’Argentina di emettere bond nei mercati finanziari internazionali fino a che non fosse stato raggiunto un accordo con tutti i creditori vittime dei c.d. tango bond.
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Francia, novembre 2018: altro che ‘900
di Michele Castaldo
“Così dunque il tempo modifica la natura del mondo, […]Impotente a produrre ciò che prima poteva, ma capacedi creare quel che prima non poteva”
Tito Lucrezio Caro
Che succede in Francia? Una protesta spontanea di comuni cittadini che indossano gilet gialli come segno di identificazione e scendono in piazza bloccando strade, autostrade, centri urbani e addirittura depositi di carburante e raffinerie. Il motivo è fornito dall’aumento del prezzo dei carburanti, ma poi strada facendo diventa un movimento di opposizione contro le élite e contro la riduzione del potere d’acquisto, contro le tasse e le imposte, i salari troppo bassi e i servizi pubblici non abbastanza efficienti. Altrimenti detto: è lo scoppio improvviso di un malessere che covava sotto la cenere.
Sgomento e frustrazione fra i commentatori dei notiziari, la stampa è allarmata, cominciano le solite girandole delle tavole rotonde e dei talk show e l’attenzione si focalizza immediatamente su due questioni: a) un movimento improvviso; b) un movimento senza leader. E si cerca immediatamente un paragone con il movimento che per oltre un secolo ha caratterizzato la lotta degli oppressi e sfruttati in Occidente, quel movimento che fu catalogato come novecentista, ovvero quello che partì come Quarto stato nella Francia repubblicana, in Inghilterra, poi successivamente negli Usa e così via, fino all’esaurirsi con la fine degli anni ’80, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Urss.
A mio parere fanno bene a preoccuparsi i pensatori e intellettuali filo-sistema, perché siamo ad una straordinaria svolta storica, si avete capito bene, una straordinaria svolta storica, lontana anni luce dal ‘900 e dalle sue mobilitazioni affluenti nei confronti di un sistema – un modo di produzione – che cresceva, e una parte di esso, il proletariato, chiedeva quota parte per il suo contributo allo sviluppo.
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La falsa sfida di Lega&Cinquestelle all'Unione europea
E la vera sfida da lanciare al governo, all'Ue e ai "mercati"
di Il cuneo rosso
Ci siamo: la Commissione europea boccia la finanziaria del governo Salvini/Di Maio e i due demagoghi a pettinfuori (o quasi) giurano: non retrocediamo di un millimetro. Su tutto possiamo transigere, sulla difesa dei poveri e dei pensionandi no. Prima i proletari! Salvini-Di Maio/Lega-Cinquestelle in armi contro la perfida UE, dunque. Avanti fino in fondo, sia quel che sia. E boia chi molla.
Che c'è di vero in questa sceneggiata meneghino/napoletana?
Per l'essenziale, nulla.
Perché:
1) il Fiscal Compact, il patto strangolatorio inserito in Costituzione che impone il pareggio di bilancio e il dimezzamento del debito di stato, non viene in alcun modo messo in discussione. Anzi non viene neppure nominato;
2) perché il Def (Documento di economia e finanza) del governo in carica garantisce per i prossimi anni l'avanzo primario; garantisce cioè, al pari dei precedenti governi, che lo stato spenderà meno di quanto incasserà. E lo farà per tutelare al meglio i suoi grandi creditori-piranha (quest'anno incassano 62 miliardi di interessi), cioè proprio i famigerati mercati e/o investitori, quelli di cui i "nemici" Juncker e Moscovici sono portaborse e portavoce;
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Una critica del capitalismo per il XXI secolo
Con Marx, oltre Marx: il progetto teorico del gruppo «Exit!»
di Gruppo Exit!
A partire dalla fine degli anni '80, si assiste, su scala mondiale, all'agonia del marxismo, del socialismo, del movimento operaio e dei movimenti di liberazione nazionale. Per quel che riguarda il classico Stato sociale borghese, ormai è andato in rovina, e lo ha fatto nello stesso momento in cui il paradigma keynesiano è diventato solo una nostalgia insieme ai regimi dello «sviluppo» del Terzo Mondo , che crollano in quelle che sono le loro varianti filo-occidentali. Il vecchio antagonismo: riforma o rivoluzione, che è stato dominante in seno alla sinistra, non ha più senso, dal momento che lo sviluppo ed i movimenti sociali non condividono più alcun orizzonte comune. Dappertutto, i resti delle istituzioni rimaste a seguito delle vecchie lotte sociali rivendicative issano la bandiera bianca della capitolazione. Il concetto di «riforma sociale» si è trasformato nel suo contrario, ed è stato semanticamente investito dalla controriforma neoliberista che, poco a poco, liquida quelle che sono state le acquisizioni sociali, il sistema previdenziale ed i servizi pubblici. Il paradigma neoliberista non è più un punto di vista particolare, bensì costituisce un consenso che va al di là dei partiti e che penetra in gran misura la sinistra. E la resistenza diventa sempre più debole. Anche i grandi scioperi e i pochi movimenti sociali che esplodono qua e là si concludono regolarmente con la sconfitta e la rassegnazione. Sembra che il capitalismo abbia vinto su tutta la linea. E non solo in quanto potere repressivo esterno, ma anche all'interno dei soggetti stessi. La pretesa «legge naturale» del mercato, e l'universalità negativa della concorrenza, nonostante le loro devastanti conseguenze, umilianti ed insopportabili, vengono viste come se fossero delle condizioni insuperabili dell'esistenza umana. Più appare chiaro che quest'ordine sociale planetario equivale all'autodistruzione sociale ed ecologica, più gli individui si aggrappano con tutte le loro forze alle categorie ed ai criteri di questa forma negativa di socializzazione, che ormai hanno interiorizzato.
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Scuola e lavoro: l’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato
di Anna Angelucci
Mi convince molto l’affermazione con cui Roberto Ciccarelli, autore di Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, apre le sue riflessioni: “Siamo tutti in alternanza scuola lavoro. Non solo il milione e mezzo di studenti delle scuole superiori obbligati a partecipare a un nuovo esperimento sociale, il più grande nella storia della scuola italiana”[1].
Siamo tutti in alternanza scuola lavoro: perché è altissima la percentuale di giovani e meno giovani, in Italia – diplomati, laureati, specializzati – che vivono in una condizione di precarietà professionale, che svolgono attività sottodimensionate rispetto alle proprie qualifiche e titoli di studio; lavori spesso occasionali o su richiesta, quasi sempre sottopagati e non di rado non remunerati, soprattutto quando si tratta di lavoro intellettuale, con rapporti a brevissimo termine (3 mesi la media), privi di tutele contrattuali nel presente e di prospettive di prosieguo nel futuro. E che nell’alternanza tra un lavoretto e un altro (un Mc Job e un Bullish Job, come efficacemente vengono definiti oggi lavori dequalificati o del tutto inconsistenti) continuano a collezionare esperienze formative potenzialmente spendibili nel mercato del lavoro: nella neolingua contemporanea si chiama ‘lifelong learning’, società dell’apprendimento costante, ma è una specie di giostra impazzita dell’accreditamento costante da cui non si può mai scendere.
Un milione e mezzo di studenti coinvolti in un massiccio esperimento sociale, davvero il più grande nella scuola italiana, di cui si possono mettere a fuoco i contorni e le implicazioni – in termini di cause e effetti – soltanto ampliando il contesto storico, economico, antropologico in cui si colloca questa gigantesca operazione biopolitica (per dirla con Foucault) o psicopolitica (per usare le parole del filosofo coreano Byung-Chul Han) di formazione dell’homo oeconomicus fin dai banchi di scuola, del soggetto auto-imprenditore, del battitore senza reti di protezione in competizione anche con se stesso, dell’essere umano come unità produttiva, dell’individuo, bambino e adolescente, configurato, psichicamente prima che professionalmente, come un’autopoietica start up.
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