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Marchionne? Ha sacrificato la Fiat per salvarne i padroni
Gabriele Polo intervista Gianni Rinaldini
“Marchionne non ha salvato la Fiat, l'ha sacrificata per salvarne i proprietari. Del resto era stato assunto per questo, quindi ha fatto un ottimo lavoro, dal punto di vista degli eredi Agnelli”. Gianni Rinaldini fa uno sforzo di laicità: dopo il lutto per l'uomo, l'ex segretario generale della Fiom prova a superare la generalizzata santificazione del manager, fornendo il proprio punto di vista su chi è stato sua controparte e trarre un bilancio sugli esiti industriali, sindacali e sociali della fu maggiore impresa privata italiana targata Torino; ora gruppo americano con la testa a Detroit, quotata a Wall Street, sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra: “Assunto per gestire l'uscita della Fiat dall'auto, evitare il fallimento del gruppo che avrebbe travolto gli Agnelli – più di cento eredi, divisi in numerose famiglie e importanti cognomi – e arrivare al pareggio di bilancio, Sergio Marchionne ha svolto fino in fondo il compito che gli era stato assegnato. Salvando Exor, i suoi azionisti. E la Chrysler, grazie a Obama. Per poterlo fare ha sacrificato la Fiat, penalizzato gli stabilimenti italiani e soprattutto i suoi operai”.
* * * *
Marchionne arriva in Fiat nel 2003 e diventa amministratore delegato nel giugno 2004, dopo la morte di Umberto Agnelli e lo scontro della famiglia con Morchio che voleva diventare presidente oltre che a.d. del gruppo. Da allora è stato anche la tua controparte. Che impressione ne hai tratto?
Stabiliva rapporto diretti, senza alcuna formalità, andava al sodo – anche brutalmente – con un'idea molto precisa ed esplicita di “comando aziendale”; con i suoi collaboratori come con le sue controparti. Per questo ci fu chiaro fin da subito quale fosse il suo mandato: salvare la proprietà – chi l'aveva ingaggiato – dal disastro del gruppo Fiat riducendo il peso dell'auto fino a liberarsene, arrivando al pareggio di bilancio e permettere alla famiglia di muoversi più liberamente sul terreno della finanza, dell'immobiliare, delle assicurazioni.
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La questione dell'immigrazione
di Alessandro Pascale
“Una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all'accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori.” (Vladimir Lenin, da “L'Imperialismo, fase suprema del Capitalismo”)
La necessità di un approfondimento storico-politico
Quello che segue è un tentativo di ragionare sulla questione migratoria. Non si pretende di essere esaustivi ma di affrontare nel merito un tema su cui le sinistre hanno finora mostrato un'incapacità diffusa nella propria elaborazione e proposta politica.
Per un maggiore, necessario, approfondimento si rimanda all'opera “In Difesa del Socialismo Reale” (disponibile su www.intellettualecollettivo.it), ed in particolar modo alla parte storica riguardante “Le cause profonde del sottosviluppo africano” (vol. II, pp. 335-423), all'analisi della contemporaneità in “Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale (vol. II, pp. 1214-1345) e alle conclusioni (vol. II, pp. 1352-1362). Soprattutto in queste ultime pagine si trova un collegamento tra il dramma della fame del mondo, l'evoluzione delle diseguaglianze mondiali, la questione ambientale e un primo approccio sulla questione migratoria inquadrata nella sua globalità.
In quell'occasione ho mancato di articolare ulteriormente la questione, ritenendola risolta dall'evidenza dal quadro delineato fino a quel momento. Il carattere politico preminente che ha assunto la questione in Italia (e non solo) necessita però ulteriori riflessioni e articolazioni, che non pretendono di essere esaustive ma che intendono entrare nel vivo di un tema che è purtroppo diventato, grazie alla forza dei media e alla scaltrezza politica del reazionario Ministro dell'Interno Salvini, prioritario per la gran parte dell'opinione pubblica. Articolerò quindi la questione in cinque punti.
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La cura del linguaggio 3. Sovranità, sovranismo e sciocchezze
di Dante Barontini
Un fantasma si aggira per l’Europa. Il fantasma del sovranismo.
Ci perdonerete la parafrasi dell’immortale incipit di Marx, ma poche parole recenti hanno avuto successo quanto questa, anche se praticamente nessuno sa darne una definizione univoca, linguisticamente fondata. Eppure se chiedete a chiunque chi siano i “sovranisti” tutti ve ne indicheranno uno. Probabilmente molto diverso da altri che condividono l’identico stigma. “Quelli lì, insomma, no?”.
Proviamo a fare quel che ogni “bravo giornalista” fa quando si trova davanti a un termine ambiguo: consulta il dizionario. Siccome cerchiamo l’eccellenza – o l’incerta certezza di non scrivere fesserie – siamo andati a vedere sul dizionario più prestigioso, quello Treccani, per trovare una definizione scientifica..
Ma anche la mitica enciclopedia italiana, su questa parola, alza bandiera bianca. Citiamo:
sovranismo s. m. Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione.
«Dove il necessario affievolimento di sovranità degli Stati a favore di un ordinamento sovrastatuale non tocca minimamente l’unità politica degli Stati-nazione. Solo da noi si riesce a sposare un “sovranismo” anti-europeo con una devolution anti-nazionale». (Andrea Manzella, Repubblica, 13 novembre 2002, p. 1, Prima Pagina)
«Brexit è la vittoria non del popolo, ma del populismo. […] È la rivincita, in tutto il Regno Unito, di coloro che non hanno mai sopportato che gli Obama, Hollande, Merkel e altri esprimessero la propria opinione su quello che essi si accingevano a decidere. È la vittoria, in altri termini, del “sovranismo” più stantio e del nazionalismo più stupido. È la vittoria dell’Inghilterra ammuffita sull’Inghilterra aperta al mondo e all’ascolto del suo glorioso passato». (Bernard Henry Levy, Corriere della sera.it, 27 giugno 2016, Politica, traduzione di Daniela Maggioni)
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Sulla sortita dell’Onu di inviare propri ispettori in Italia contro il razzismo
di Michele Castaldo
In tempi caotici – come quelli che stiamo attraversando in questi anni - succede di tutto, addirittura che l’Onu che ha garantito il bombardamento contro mezzo mondo da parte dell’Occidente, vuole inviare ispettori in Italia per verificare il livello di razzismo e di discriminazione nei confronti degli immigrati. Una vera e propria perla di difesa dei diritti umani. Com'è possibile, si sta capovolgendo il mondo? Ma come, un vero e proprio covo di briganti (come Lenin chiamava La società delle Nazioni che precedette l’Onu) che diventa all'improvviso un club di misericordiosi votati alla provvidenza umana? Bah, vacci a capire qualcosa.
In realtà la ragione di una simile iniziativa ha motivi ben più reconditi dell’accertamento di razzismo da parte delle istituzioni e del popolo italiani, perché le iniziative del governo giallo verde, attraverso il suo ministro degli interni, il ruspante Matteo Salvini, rischiano di fare più danni delle intenzioni da cui muovono.
La questione degli immigrati si pone in questo modo: per le potenze economiche occidentali è indispensabile che: a) affluiscano milioni di proletari per metterli in concorrenza con quelli indigeni, ridurre così drasticamente il costo della manodopera e tenere il passo con la concorrenza che avanza in modo spregiudicato particolarmente dall’Asia; b) fornire ai milioni di proletari impoveriti d’Africa una valvola di sfogo – il deflusso, appunto, verso l’Europa – per ridurre le tensioni nei propri paesi ed evitare in questo modo la possibilità di rivolte generalizzate che sconvolgerebbero i già precari equilibri dell’intero sistema su cui si regge il modo di produzione capitalistico. L’Onu è chiamato in causa per garantire che ciò avvenga in modo equilibrato.
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Scontri in France Insoumise sull’immigrazione: Kuzmanovic vs Autain
di Alessandro Visalli
Ci si avvicina alle elezioni europee, in Francia c’è una soglia di sbarramento al 5% che in questo momento sono sicuri di superare solo Macron (oltre 20%), Le Pen (altro 20%), France Insoumise (da 12 a 14%) e i gollisti (al 14%). Le altre forze socialiste e comuniste, ed i verdi, sono vicino o sotto la soglia, quindi rischiano. In questo quadro France Insoumisse sta cercando di aprire le sue liste[1], lasciando disponibili quindici posti per la sinistra socialista di Emanuel Maurel ed al movimento di Chenènement. Come valuta qualche osservatore, si tratta di un tentativo di allargare anche alle classi medie (‘riflessive’) che erano state lasciante sullo sfondo nel precedente posizionamento su periferie e classi popolari.
Una spia di questo movimento è l’aspro scontro che ha visto coinvolto il Responsabile esteri all’inizio di settembre a partire da due articoli su Obs. Djordje Kuzmanovic ha scritto un articolo di appoggio alla svolta della Wagenknecht e la deputata Clémentine Autain lo ha duramente attaccato. Il risultato è che Mélenchon ha preso le distanze.
Leggiamo questi articoli.
Il primo articolo sostiene che “Il discorso di Sahra Wagenknecht è di salute pubblica”; il rappresentante di Insoumisse, che a luglio era presente ad un incontro a Roma, insieme ad un deputato tedesco molto vicino alla Wagenknecht, con il gruppo di Fassina e con Senso Comune[2], inizia con una narrativa molto familiare, attaccando con tutta evidenza Mitterrand[3], sostiene che trenta anni fa la socialdemocrazia ha deliberatamente scelto di costruire un’Unione Europea liberale, rinunciando a difendere le classi lavoratrici. Quindi si è schiacciata sulle posizioni della destra liberale, dalla quale però doveva differenziarsi elettoralmente. Allora si è concentrata su questioni che non sono specificamente ‘di sinistra’, ma liberali-radicali: femminismo, diritti LGBT, migranti.
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Gli statuti di Potere al popolo
di Alessandro Bartoloni
Comparazione dei principi ispiratori, del funzionamento delle assemblee territoriali e di quello delle degli organi nazionali di Potere al popolo secondo i due statuti redatti dal Coordinamento nazionale provvisorio
Il 9 settembre sono state pubblicate le due bozze definitive degli statuti di Potere al popolo elaborate in seno al Coordinamento Nazionale Provvisorio (CNP). Salvo auspicabili ripensamenti, i due documenti saranno sottoposti a votazione elettronica, insieme agli eventuali emendamenti il 6 e 7 ottobre. A votare potranno essere tutti coloro che hanno compiuto 14 anni ed hanno aderito al manifesto politico, versato la quota di 10 euro e compilato il relativo modulo tramite la piattaforma informatica.
Gli statuti elaborati sono due e questo è il primo e principale segno di debolezza e di inadeguatezza dell’attuale gruppo dirigente che, portandoci alla conta su testi contrapposti invece che su alcune questioni tramite emendamenti, rischia di sfasciare quanto di buono costruito fin qui. Due documenti contrapposti che non sono accompagnati da nessun documento politico - quando logica vorrebbe che la discussione sull’organizzazione segua quella sulla politica e non viceversa - e a cui non si sa quanti emendamenti è possibile presentare e come. Senza considerare che a Roma e forse altrove, stanno emergendo statuti alternativi.
Per quanto riguarda il contenuto dei documenti, entrambi presentano un’introduzione politica cui segue la struttura organizzativa [1]. Questo primo capitolo compara i principi politici; in altri due capitoli comparerò la struttura organizzativa sui territori e quella nazionale, consapevole che, parafrasando Marx, ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di statuti.
I principi
La prima parte del primo documento è intitolata “natura e finalità”. In essa apprendiamo che Potere al popolo è sia un “movimento” sia una “libera associazione” ma non è un partito. L’esclusione formale del riferimento al partito si rende necessaria per permettere il doppio tesseramento, vale a dire ai militanti di altri partiti di aderirvi (non potendosi normalmente aderire a due partiti, come invece succede per i sindacati).
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Il mondo sottosopra. Appunti geopolitici
di Sandro Mezzadra
Intervento introduttivo alla prima sessione della scuola estiva 2018 Resistenze molteplici, Passignano sul Trasimeno, 13 settembre 2018
a. Il tema e l’obiettivo di questa prima sessione della scuola estiva
Ci ritroviamo a Passignano in un contesto politico profondamente mutato rispetto alle scorse edizioni della scuola estiva di Euronomade, in Italia così come a livello globale. E scontiamo un sostanziale disorientamento, in particolare nel nostro Paese, di fronte a una destra ogni giorno più aggressiva, capace di consolidare il proprio consenso attorno ai naufragi nel Mediterraneo, alla diffusione capillare del razzismo, alla caduta di un ponte. Non abbiamo soluzioni da offrire, ma siamo convinti che il tempo del disorientamento debba cedere il passo al tempo di una ricerca e di una sperimentazione condivisa tanto sul terreno della teoria quanto sul terreno delle pratiche politiche. E riteniamo che un contributo essenziale a questa ricerca e a questa sperimentazione debba venire da un tentativo di analizzare il mutamento radicale che si sta determinando negli equilibri (e negli squilibri) globali: solo collocandola all’interno di questo “mondo sottosopra”, la stessa congiuntura italiana risulta comprensibile nei suoi tratti di fondo – e, questa è la nostra scommessa – nella sostanziale fragilità dei suoi assetti.
Questa sera vorremmo da una parte cominciare ad avanzare e a verificare alcune ipotesi sugli scenari globali emergenti, proponendo dall’altra alcuni criteri di metodo per l’analisi della dimensione “geopolitica”: l’assunzione della tensione tra “geopolitica” e “geoeconomia” (tra confini territoriali e frontiere del capitale) come asse centrale della nostra discussione e la convinzione che oggi più che mai le forme assunte dall’ordine e dal disordine globale – la riorganizzazione degli spazi politici ed economici nonché le tensioni tra essi nella globalizzazione – sono una variabile cruciale per qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell’esistente, indipendentemente dalla scala su cui questo progetto si esercita in prima battuta.
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"Ong, il cavallo di Troia del capitalismo globale"
di Sonia Savioli
Presentiamo con molto piacere un editoriale di Sonia Savioli, autrice di "Ong, il cavallo di troia del capitalismo globale", edito da Zambon. Libro che consigliamo caldamente di leggere, rileggere e approfondire nel dettaglio. Il libro che mancava, finalmente c'è: all'interno troverete molte delle risposte che cercavate
Pare che un certo numero di paesi africani non voglia più i nostri abiti usati. Che ingrati! Perché voi pensavate forse che glieli regalassimo. No, non proprio. Glieli vendiamo. Ma, naturalmente, glieli vendiamo per aiutarli, come testimoniano le molto e molte benevolenti ONG che se ne occupano. e infatti rientrano in qualche modo nei nostri "aiuti allo sviluppo".
In che modo, se glieli vendiamo? In uno si quei modi ingegnosi e pieni di fantasia che il capitalismo globale e le sue organizzazioni sovranazionali hanno inventato perché noi comuni mortali si prendano fischi per fiaschi e si viva nella confusione perenne.
Ma cominciamo dall'inizio e cioè proprio dagli "aiuti allo sviluppo". Che hanno il nome giusto e appropriato. Aiutano veramente uno sviluppo, quello delle multinazionali di ogni tipo, alcune delle quali si sviluppano proprio grazie a questi aiuti. Facciamo un esempio, non troppo ipotetico, di un "aiuto allo sviluppo". La Banca Mondiale o/e l'Unione Europea offrono a un paese africano (con una pistola in una mano e una mazzetta di banconote nell'altra, come offerte alternative al governo del non molto ipotetico paese africano) il prestito per costruire delle dighe. L'ipotetico ma non troppo governo africano sceglie la mazzetta e lo sviluppo. Una multinazionale "de noantri", mettiamo l'Impregilo, costruisce le dighe
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Fuga in Europa
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale la “questione demografica”, e in particolare la relazione tra lo sviluppo economico, la disponibilità delle risorse ambientali ed energetiche e la rapida crescita della popolazione mondiale, rappresentò uno dei nodi più controversi del dibattito internazionale. Il tema suscitava preoccupazioni condivise tanto nel mondo accademico quanto in quello politico e, parallelamente, alimentava i sospetti sulle ingerenze imperialistiche da parte dei paesi ricchi nei confronti di quei paesi poveri a cui veniva chiesto di controllare i propri tassi di natalità.
D’altronde fino al 1800 il ritmo di crescita della popolazione mondiale era stato pressoché impercettibile, per raggiungere il primo miliardo di persone sul pianeta c’erano voluti più di 10.000 anni di storia. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento però, con la rivoluzione agricola prima e con quella industriale poi, le cose erano rapidamente cambiate. Tra il 1800 e il 1927 la popolazione mondiale passa da 1 a 2 miliardi, fu sufficiente solo un altro trentennio per aggiungere un altro miliardo e appena altri 20 anni per arrivare, nel 1974, a 4 miliardi. Attualmente un ulteriore raddoppio è previsto per il 2023, quando le persone sul pianeta raggiungeranno la cifra di 8 miliardi. In buona sostanza, l’85% della crescita demografica registrata sul nostro pianeta è avvenuta in un arco di tempo che rappresenta a malapena lo 0,02% della storia dell’umanità.
Nonostante questa impressionante progressione il declino demografico mondiale, però, è già cominciato. In molte aree del mondo si è ormai completata la transizione demografica e il tasso d’incremento medio globale si è dimezzato ed è passato dal 2% degli anni Settanta all’attuale 1,1%.
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Debito e globalizzazione. Una lunga storia con un finale da scrivere
di Tommaso Nencioni
Il capolavoro delle classi dominanti occidentali degli ultimi 10 anni è consistito nel trasformare – spesso nell’arco di poche notti – una crisi finanziaria provocata dalla rapacità dell’oligarchia in una crisi del debito sovrano degli Stati. Questo ha permesso di scaricare il conto dell’avventatezza e della rapacità delle suddette oligarchie sulle fasce più deboli delle popolazioni. Ma non solo. Ha permesso anche di gettare le basi per nuove espropriazioni ai danni dei popoli. Lo schema è sempre lo stesso. I grandi gruppi industriali e finanziari degli Stati più potenti (le metropoli) traggono enormi profitti grazie al credito concesso agli Stati più deboli (le periferie). Quando l’esposizione creditizia diviene insostenibile, i suoi costi vengono riversati sui bilanci degli Stati periferici. Intervengono a questo punto istituzioni presunte neutrali (il Fondo Monetario Internazionale, La Banca Mondiale, l’Unione europea) a dettare le loro ricette per rientrare dal debito, che immancabilmente prevedono: privatizzazioni nei settori strategici, tagli alle assicurazioni sociali, tagli ai salari e agli stipendi. Così da favorire i grandi gruppi metropolitani interessati a mettere le mani sugli asset strategici; i grandi gruppi assicurativi privati; le elites locali e internazionali che possono contare su una manodopera disoccupata o sottopagata e quindi disposta a vendersi a un prezzo più basso. Oltre a questo, alla fine del processo si produce un inevitabile aumentato divario tra le metropoli e le periferie.
Quanto sopra descritto può essere facilmente riscontrato nella vicenda greca (e dell’Europa mediterranea in generale) degli ultimi 20 anni. Ma attenzione. Si tratta in realtà di una modalità fissa di valorizzazione del capitale, di gerarchizzazione della divisione internazionale del lavoro e di esproprio ai danni delle popolazioni che si ripete da più di un secolo.
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Democraticismo radicale e apologia dei pestaggi democratici di sinistra
di Clément Homs
A proposito dell'affare Alexandre Benella e dell'interpretazione kurziana del rapporto capitalistico in quanto stato di eccezione coagulato
Nei giorni scorsi, le sinistre di tutte le scuole, insieme alla sinistra keynesiana ed alter-capitalista, si sono schierate contro quello che a loro appare come una distorsione manifesta rispetto al capitalismo democratico in salsa Macron, e domandano di essere picchiati, secondo le regole dell'arte democratica, da dei veri professionisti dell'ordine capitalista, e non dai semplici incaricati di una tale missione, nemmeno se vengono incaricati da un presidente. Sembra che la cosa sia seria.
1 - Ora, quest'idea della fine del capitalismo democratico sfiora l'opinione pubblica, le lotte e la stampa. Si ha come la sensazione che sembrava che il capitalismo e la democrazia, ancora per qualche anno, sarebbero andati di pari passo, mano nella mano. Ci si ricorda che dopo la caduta del muro, Francis Fukuyama profetizzava che questo capitalismo democratico avrebbe rappresentato niente meno che la «fine della storia». Al giorno d'oggi, perfino la stampa borghese sembra essere rinsavita ed aver archiviato, vergognandosene, questa ideologia apologetica-affermativa, riponendola nell'armadio delle illusioni rottamate. Nella fase della decomposizione del capitalismo, allorché la sovranità si è disintegrata (si veda: Robert Kurz, "La fine della politica"), il rapporto giuridico e contrattuale fra gli Stati non può non sgretolarsi, e la forma moderna del diritto anche all'interno di questi Stati viene rimessa in discussione. Ciò significa che il vero nucleo di violenza e di arbitrio del capitalismo e della sua forma giuridica appare a viso scoperto: lo stato di eccezione diventa permanente. Il potere in carica, nel voler mantenere con tutti i mezzi la validità universale del suo principio di realtà, quindi, non difende più la sua propria forma di diritto, ma viola sistematicamente il suo stesso diritto, che non rappresenta nient'altro che il rapporto formale fra i soggetti moderni nella relazione capitalista.
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I 100 giorni del governo giallo-verde
di Leonardo Mazzei
Leonardo Mazzei compie una circostanziata analisi di quanto fatto dal governo Conte, anche considerando quanto detto e/o promesso di fare dai suoi esponenti di punta. Lo scritto si compone di cinque capitoliNe vien fuori un quadro di grande interesse per capire la natura, le aporie ed i limiti del governo. Un'analisi che mentre smonta la campagna di satanizzazione del governo da parte dei poteri forti italiani ed europei—governo tacciato come d' estrema destra se non addirittura fascista — sottolinea come esso provi davvero ad operare una positiva inversione di marcia rispetto alla politiche seguite negli ultimi decenni
Cento giorni sono un nulla, un soffio nella vita di una nazione. Per i governi, invece, i primi cento giorni sono importanti, il momento in cui mettere in vetrina i simboli della propria politica. Così è nella società dello spettacolo, dove l'apparenza conta più della sostanza. Lo è un po' meno per lo strano "tripartito" nato il 1° giugno scorso.
L'importanza dell'apparenza è infatti inversamente proporzionale al peso della sostanza. Se un governo è pura continuità rispetto al precedente, si può star certi che metterà subito in bella mostra la propria inutile ma rilucente mercanzia. Pensate a Renzi e capirete di cosa sto parlando.
Se invece un governo porta con sé un vero, per quanto contraddittorio, programma di cambiamento, il discorso cambia. Il peso dell'apparenza si riduce di molto, mentre i riflettori saranno tutti puntati sulla sostanza. E' giusto e naturale che sia così. In questi casi al tipico gioco delle parti tra maggioranza ed opposizione parlamentare si sostituisce bruscamente lo scontro immediato.
Mai si era vista nell'intera storia d'Italia, cioè dall'ormai lontano 1861, un governo accolto dalla totale opposizione dell'establishment. I grandi poteri economici, la Confindustria, la grande stampa all'unisono, spalleggiati ovviamente dall'intera oligarchia eurista, hanno subito dichiarato guerra alla maggioranza gialloverde, i cui ministri (tranne quelli di stretta nomina mattarelliana) sono stati qualificati come incapaci ed irresponsabili, portatori di visioni irricevibili, antiliberiste (vedi la discussione sulle nazionalizzazioni) piuttosto che nazionaliste.
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Immigrazione e questione sociale
di Alessandro Visalli
L’immigrazione è il problema davanti al quale il pluridecennale progetto di unificazione del mercato e, in misura selettiva e minore delle istituzioni europee, rischia di fermarsi e di fare passi indietro che potrebbero, se non razionalmente gestiti e politicamente digeriti, essere rovinosi.
Si tratta di un tema sul quale siamo tornati più volte, ma la cui grande complessità mette in gioco costantemente, come se si allargassero dei cerchi nell’acqua, sfondi sempre più larghi e comprensivi. Si confrontano due posizioni principali: quella di chi, per ragioni morali o di interesse, sostiene la necessità di consentire che le frontiere restino o diventino permeabili e siano attraversate da tutti coloro che sono attratti dalla capacità di inserimento (vera o presunta) nel nostro mercato del lavoro; quella che, per ragioni diverse, percepisce l’urgenza di offrire immediata protezione a chi subisce di fatto la concorrenza delle nuove forze che si immettono sul mercato del lavoro e si candidano ad essere fruitori del welfare. La prima posizione chiede più apertura, la seconda la totale o parziale chiusura delle frontiere.
La posizione che qui si prova ad articolare fornisce le ragioni e spiega il meccanismo attraverso il quale una crescente immigrazione, governata dal mercato, aggrava una condizione sottostante e preesistente di deprivazione e di esclusione che colpisce i cittadini e lavoratori tutti. Di fronte a questa lettura propone di spostare lo sguardo, dalla immigrazione e dal problema dell’integrazione dei nuovi venuti al problema, più ampio, di creare le condizioni perché non sia il mercato a socializzare gli individui ma che questa funzione sia assunta, apertamente e coscientemente, dalla funzione pubblica come recita in più punti la nostra Costituzione.
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Ferrajoli, La democrazia costituzionale
di Luigi Somma
Nel breve volume introduttivo La democrazia costituzionale Luigi Ferrajoli traccia un quadro sintetico e esaustivo dei principi e degli elementi che sono alla base dell’introduzione delle cosiddette “costituzioni rigide” del secondo dopoguerra, quali limiti e vincoli imposti ai poteri di maggioranza. L’introduzione di tali costituzioni ha mutato profondamente la democrazia e il diritto, a seguito della stipula di principi di giustizia affermati tramite norme costituzionali sovraordinate ad ogni altre (principio di eguaglianza, diritti di libertà e diritti sociali), ma soprattutto esse hanno imposto alla legislazione ordinaria limiti e vincoli di contenuto quali condizioni di validità delle leggi (p. 7). Siffatti mutamenti strutturali della democrazia hanno rivelato l’inconsistenza di alcuni fondamenti teorici propri della democrazia stessa, ossia quella teoria secondo la quale essa non sarebbe altro che una forma di governo nel quale il potere è esercitato direttamente, o mediante rappresentanza, dal popolo. Secondo tali prospettive, la democrazia consisterebbe principalmente in un metodo di formazione delle decisioni, in cui il potere sarebbe saldamente nelle mani della maggioranza dei governati. Tale definizione rimanda direttamente a quella di “autonomia” che, secondo un celebre principio rousseuiano, sarebbe data dal potere di dar norme a se stessi e di non obbedire ad altre norme che a quelle date a se stessi. Ferraioli chiarisce come tale nozione sia identificabile come democrazia formale o procedurale, cioè in quelle forme e procedure che garantiscono che le decisioni siano espressioni, direttamente o indirettamente, della volontà popolare. Per quanto tale dimensione formale costituisca un connotato assolutamente necessario della democrazia, del suo potere legittimato, è necessario altresì riconoscere e considerare anche una “dimensione sostanziale”.
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“Finalmente dai NO si passa alla proposta”. La vendetta dei Pigs
di Stefano Zai*
Un commento al libro “PIGS, la vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea” di Luciano Vasapollo con Joaquin Arriola e Rita Martufi presentato domenica a Roma al convegno di Eurostop
Il testo attualizza una precedente pubblicazione, “Pigs, il risveglio dei maiali”, che poneva in essere la trattazione dell’unificazione economica e monetaria dei paesi periferici della UE, appunto i “Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), proponendo una nuova prospettiva, quella della costruzione dell’Area Euromediterranea. L’elaborazione originaria degli autori è stata aggiornata ed integrata con le osservazioni degli attivisti del coordinamento nazionale di Eurostop, venendo così a formare uno scritto che è il prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”.
Area Euromeditteranea non è forse la definizione più corretta, infatti a ben leggere nel testo si parla di area Euro-Afro-Mediterranea. Una costruzione che non guarda solo al sud dell’Europa e ai paesi “maiali”, come definiti dalla UE perché, “grassi ed ingordi”, non hanno saputo controllare i conti pubblici sperperando danaro (nda: sulla formazione del debito italiano e non solo e la narrazione ipocrita che lo accompagna occorrerebbe una trattazione ad hoc che per motivi evidenti non può essere affrontata in questo breve articolo, si tenga presente che un così alto debito pubblico è il prodotto da un atto politico – volontaristico e consapevole delle conseguenze – che preparava l’Italia all’entrata nell’Euro: ossia la divisione del ministero del Tesoro da Banca d’Italia, nel 1981, producendo la sussunzione dello Stato nella finanza e preparando il terreno del ricatto politico delle riforme in nome della stabilità di bilancio), ma anche ai paesi del nord Africa che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
“Non da oggi, e non solo tra intellettuali marxisti, è in corso un dibattito sull’opportunità per un’area formata da paesi a struttura economico-sociale simile di realizzare l’”abbandono” o il “distacco” (“delinking”, secondo Samir Amin) da quella che Hosea Jaffe nel 1994 ha chiamato “l’azienda mondo”, identificando con questa un sistema capitalista internazionale fondato su istituzioni e organismi come Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, BCE, WTO ecc.)
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Guerra e crisi sistemica
Conto alla rovescia per il false flag di Idlib?
di Piotr
Conto alla rovescia per l'attacco chimico false flag nella provincia di Idlib?
Parrebbe di sì. Ecco il perché:
1) Le minacce degli USA stanno crescendo di giorno in giorno. Idlib non deve essere toccata. Ieri c'è stato l'attacco israeliano e francese contro le postazioni siriane durante il quale è stato abbattuto il ricognitore russo.
2) La portaerei Truman, il gioiello della marina imperiale, è ritornata nel Mediterraneo col suo gruppo d'attacco. Il motivo dichiarato dal servizio stampa della Marina statunitense è: "continuare a sostenere gli alleati della NATO, i nostri simpatizzanti europei e africani, i partner della coalizione e gli interessi USA in Europa e Africa”. Interessante che la Siria non sia citata ma l'Africa sì. Io credo che in realtà della Siria in se stessa ormai all'America interessi poco. Quel che poteva ottenere per adesso l'hanno ottenuto Bisogna uscirne a testa alta. Più importanti effettivamente l'Africa e l'Europa.
Il comandante della Sesta flotta nel Mediterraneo, la vice ammiraglia Lisa M. Franchetti (è donna, quindi per il Manifesto deve essere brava per definizione!), si è detta eccitata per avere di nuovo tra loro la Truman e che questa portaerei parteciperà a “tutto lo spettro delle operazioni navali.”. Quali saranno queste “operazioni navali” la brava (per definizione) Lisa M. Franchetti non ce lo dice.
La presenza navale USA-Nato nel Mediterraneo si è intensificata dalla fine di agosto: cacciatorpediniere Ross con 28 missili Tomahawk, poi il Bulkeley e il sottomarino d'attacco Newport News. Mentre il cacciatorpediniere The Sullivans è stato schierato nel Golfo Persico e un bombardiere strategico è stato spostato in una base aerea del Qatar.
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Disoccupazione: male necessario o arma dei padroni?
di coniarerivolta
Sono tempi molto confusi, nei quali le tradizionali categorie del discorso politico sembrano sfaldarsi sotto la pressione di nuovi termini dal significato volutamente ambiguo (“populismo” e “sovranismo”, in particolare). Sotto l’apparente confusione, però, continuano a operare i meccanismi che caratterizzano il capitalismo e, quindi, la lotta di classe. Può essere utile, allo scopo di fare chiarezza su tali meccanismi, ricorrere alle analisi dei più lucidi studiosi del capitalismo.
A tal fine, proponiamo ai lettori un breve ma denso pezzo del 1943 ad opera di Michał Kalecki (Lodz, 1899 – Varsavia, 1970), uno dei maggiori economisti eterodossi del ‘900. Di formazione marxista, ha contribuito in maniera decisiva agli studi sul ruolo della domanda effettiva sullo sviluppo delle economie capitalistiche, scrivendo pagine fondamentali sulla dinamica di un sistema economico moderno. L’articolo si intitola “Political Aspects of Full Employment” (in italiano, “Aspetti politici del pieno impiego”) e la domanda alla quale Kalecki cerca implicitamente di rispondere in esso è la seguente: se è vero, come la Storia e la teoria economica keynesiana insegnano, che i governi possono, attraverso la politica economica, ottenere il pieno impiego dei lavoratori, come mai ciò non accade? L’argomento è senz’altro di attualità e la lettura di Kalecki ci offre la possibilità di avere un’interpretazione coerente di ciò che quotidianamente leggiamo nel dibattito politico.
L’autunno che si prospetta per l’Italia è potenzialmente esplosivo: il governo gialloverde sarà finalmente impegnato sul primo, vero, banco di prova: la legge di bilancio. Fino ad ora ha avuto gioco facile nel mostrare i muscoli contro dei disgraziati alla deriva, ma il provvedimento che dovrà approvare ci farà capire quale sarà la direzione intrapresa dal nuovo esecutivo.
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Il massacro di Tlatelolco: io c’ero
di Nunzia Augeri
Da “Marxismo Oggi”, n.3/2008
Il 2008 ha portato gradi rievocazioni, discussioni e bilanci sugli avvenimenti del 1968, una data considerata spartiacque nel corso degli avvenimenti del secolo scorso. Sono stati anche ampiamente ricordati gli avvenimenti internazionali, sia il maggio francese che l’invasione della Cecoslovacchia, il 20 di agosto: un fatto che toccò molto da vicino l’opinione pubblica in Italia. Quasi nessuno però, nella stampa italiana, ha ricordato la strage avvenuta a Città del Messico il 2 ottobre 1968, pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, quando gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul paese che in America Latina deteneva una fama non del tutto immeritata di libertà e di apertura democratica, soprattutto per l’opera del leggendario presidente Lazaro Cardenas, negli anni Trenta del secolo scorso.
Dieci anni fa, in occasione del trentennale, la stampa un poco ne aveva parlato, ma per reiterare quella che era stata la tesi del governo di Gustavo Diaz Ordaz, il presidente del Messico in carica nel 1968: una congiura comunista, stroncata con una repressione resa necessaria dalle particolari circostanze, e che si era conclusa con 26 morti.
Nel 1968 io abitavo da due anni a Città del Messico, nel quartiere di Tlatelolco, proprio nell’edificio Chihuahua, prospiciente la Piazza delle Tre Culture, al quinto piano. Da pochi giorni avevo traslocato da un appartamento affacciato sulla piazza a un altro contiguo, sulla parte posteriore.
Quel 2 di ottobre il pomeriggio ero uscita per fare acquisti, lasciando in casa la bambina di due anni e il bimbo di quattro mesi con la domestica, un’anziana india. Intorno alle cinque era caduta qualche goccia di pioggia e mi ero affrettata a prendere un taxi per tornare a casa. Ricordando che sulla piazza era prevista una manifestazione, scesi dall’auto sulla Calzada de Nonoalco, il viale che passava davanti al grattacielo del Ministero degli esteri, e feci a piedi le poche decine di metri che mi separavano da casa.
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La Patria è di destra o di sinistra?
di Carlo Clericetti
La sinistra dispersa e litigiosa ha trovato un nuovo motivo di divisione e di insulti. L’occasione è stata la costituzione di una nuova associazione culturale, promossa da Stefano Fassina con Alfredo D’Attorre e un nutrito gruppo di intellettuali, che ha lo scopo di incidere sul dibattito politico costruendo una cultura per la sinistra dell’attuale momento storico. Ma a scatenale le polemiche è stato soprattutto il nome, che Fassina ha scelto nonostante i dubbi avanzati da alcuni partecipanti alla discussione: “Patria e Costituzione”. Tanto è bastato per attirare l’insulto di moda, peggiore anche di “populismo” e “sovranismo”, ossia quello di “rossobrunismo”, cioè un ibrido tra posizioni di estrema sinistra ed estrema destra.
Se usare il termine “Patria” basta per essere accusati addirittura di filo-nazismo (le “camicie brune”, come si ricorderà, erano appunto i nazisti), bisogna dire che il dibattito politico è scaduto a livelli inferiori a quelli di un Bar Sport. Noti rossobruni, in questo caso, sarebbero per esempio Che Guevara (con il suo “Patria o muerte”), Palmiro Togliatti, Lelio Basso e tantissimi altri che trovano posto nel pantheon della sinistra storica. E persino la rivista dell’associazione dei partigiani (l’Anpi), come ha ricordato Fassina, si chiama “Patria indipendente”.
Sgombrato il campo dagli insulti lanciati non si sa se per ignoranza o malafede, ci si può chiedere perché rispolverare un termine che da molti anni non fa più parte del vocabolario della sinistra. L’intenzione di Fassina e compagni è che i due termini vadano strettamente legati: la “Patria” è quella disegnata dalla nostra Costituzione, i cui principi dovrebbero essere prevalenti rispetto a tutto, anche a quello che viene deciso in sede di Unione europea. Il che ha una logica.
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Missione ONU in Italia: da migrante vi racconto chi sono i veri razzisti
di Daniel Wedi Korbaria
Cara Italia,
dopo l'Eritrea adesso tocca a te. L'Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet1 ha deciso di mandarti i suoi ispettori per indagare sul tuo razzismo contro i migranti africani e i ROM. Il mondo intero è preoccupato del tuo disumano atteggiamento. Certo, qualcuno potrà obiettare come ha fatto Left contro Salvini: “non in mio nome”. Ma lo stesso sarà come cantava il poeta De André: "Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti".
Se ci fosse un po’ di giustizia a questo mondo le indagini Onu non si dovrebbero concentrare solo sul Ministro dell’Interno e la sua decisione di chiudere i porti ma anche e soprattutto su come è stata gestita l’accoglienza nell’ultimo decennio quando sono stati fatti sbarcare in Italia ben 700.000 migranti. "Come li avete accolti? Che fine hanno fatto queste persone? Dove sono ora? Quante di loro sono state poi integrate nella società italiana?" Ovviamente l’integrazione non ha nulla a che fare con il disgustoso spettacolo degli immigrati col berretto in mano fuori dai locali mentre aspettano un’elemosina e neppure con quello di vederli dormire all’addiaccio all’esterno delle stazioni o bivaccare in uffici dismessi occupati abusivamente. L’integrazione non è nemmeno quella che per quattro soldi li sfrutta nei campi di pomodoro e neppure quella che li rinchiude in campi di accoglienza moltiplicatisi a dismisura in un decennio su tutto il territorio italiano. Questa non è integrazione.
A rispondere alle accuse di razzismo, a mio parere, dovrebbero essere tutti gli umanitari che finora sono campati grazie al business dell'accoglienza e anche chi in qualsiasi forma abbia favorito il traffico degli immigrati. Ed è questo il punto. L'Onu dovrebbe venire qui per indagare sul razzismo di chi ha sfruttato quegli immigrati.
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Tomaso Montanari, “L’identità inventata degli italiani”
di Alessandro Visalli
Tomaso Montanari ha scritto e pubblicato sul Fatto Quotidiano un lungo e denso articolo che attacca con grande vigore e notevole tensione morale la temuta involuzione identitaria che la destra italiana starebbe suscitando e sfruttando a fini di raggiungere il potere e conservarlo. Il suo punto è fondato, sono anche io convinto che sia in corso un cinico utilizzo, a fini di distrazione dai più pressanti problemi economici, di una problematica molto sentita da parte dell’elettorato della Lega, ma, come si vede dai risultati, anche da parte maggioritaria della popolazione italiana.
Credo, più precisamente, che la Lega stia facendo un gioco molto pericoloso in qualche modo strettamente connesso con le dinamiche politiche interne. Il 4 marzo il paese, come scrivevo in “Fase politica, Aquarius e diversioni” si è spaccato infatti su una linea che attraversa le sue borghesie, portandosi a traino i ceti popolari, e, insieme, che la attraversa geograficamente. In estrema sintesi si è manifestata la defezione della borghesia nazionale rispetto la borghesia coinvolta con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Si è formata una maggioranza politica conforme alla maggioranza sociale che ha clamorosamente sconfitto la vecchia coalizione da anni al potere, elitaria quanto a rappresentanza sociale, cosmopolita quanto a cultura e esteroflessa politicamente ed economicamente (con la sua cultura del “vincolo esterno”).
Del resto, la parte della ‘strana’ coalizione che sviluppa questa retorica ha come constituency, detto in modo sintetico quanto brutale, il mondo delle Piccole e Medie Imprese impegnate soprattutto nel mercato interno e poco interconnesse sui mercati globali, i professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati, operai ed impiegati di questi settori.
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Chi ha paura del patriottismo costituzionale?
di Nello Preterossi
Intervento di Nello Preterossi alla Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione, 8 Settembre 2018 Roma
Legare Patria e Costituzione non è affatto uno scandalo. Anzi, significa riscoprire un nesso necessario e fondante. Le comunità politiche poggiano su un senso di appartenenza collettiva. “Patriottismo costituzionale” sta a indicare la fedeltà a una comunità politica democratica e pluralista, sulla base dei principi fissati dalla Costituzione. Nel caso di quella italiana, la realizzazione del progetto sociale delineato dall'art. 3, l’autodeterminazione collettiva che presuppone l’inclusione attraverso i diritti (innanzitutto quelli del lavoro e sociali). Un senso non meramente procedurale e formale, ma sostanziale, di patriottismo, all’insegna della giustizia distributiva.
A furia di ripetere il mantra della crisi dello Stato, del diritto pubblico e della stessa sovranità popolare, considerati ferrivecchi o addirittura regressivi, si è lasciato campo libero alla governance tecnocratica e alla polemica antidemocratica in nome delle “competenze” e delle élites “illuminate”, cioè dei ceti di “proprietà” e “cultura” (come li chiamava Rudolf Gneist nell’Ottocento). Ma come si fa a pensare che negando lo Stato e la sovranità democratica si possa portare avanti un programma di sinistra sociale?
Il concetto di sovranità è scandaloso proprio perché in esso convergono grandezze (Stato, popolo, pubblico, autonomia della politica, identità collettive) oggi imprescindibili ai fini della lotta per l’effettività dei diritti sociali e la piena realizzazione di una democrazia progressiva. Non è un caso che rimuovendoli o osteggiandoli si finisca per entrare in rotta di collisione con le istanze dei ceti popolari, e in oggettiva sintonia con quelle neoliberali. Lo Stato è democratizzabile, il mercato no.
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Sul postmodernismo. Conversazioni con Stefano Garroni (21-01-1999)
https://www.youtube.com/playlist?list=PL8F1B6A1B6665F176
PREAMBOLO: I titoli degli incontri seminariali non sono mai rigorosamente indicativi dell’argomento trattato, poiché il tono colloquiale delle lezioni di Stefano Garroni e la stessa natura degli incontri (una serie di seminari collettivamente autogestiti miranti alla formazione marxista di quadri comunisti) fanno sì che la sua esposizione, fatta a braccio e sovente improvvisata, non sia mai sistematica (come sarebbe stata in un intervento scritto), né circoscritta all’argomento richiamato dal titolo, ma sempre aperta ad allargarsi verso ulteriori tematiche, inizialmente non previste; spesso suggerite dagli interventi degli altri compagni che lo seguivano nei seminari.
NOTA: fra parentesi quadre il Redattore fa delle aggiunte per rendere più semplice la comprensione degli interventi e la stessa esposizione.
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1/8
Stefano Garroni: Questa serie di conversazioni è dovuta all’iniziativa di un gruppo di compagni, iniziativa che va fortemente lodata perché questi compagni hanno proposto intanto un tema di grande intelligenza, cioè ricostruire attraverso queste conversazioni quel momento del passaggio dalla dissoluzione del sistema hegeliano ai due sbocchi: quello marxista e quello esistenzialistico. È utile ricordare che c’è un bel libro di Karl Lowith (Da Hegel a Nietzsche), che in sostanza tratta questo tema. Fu pubblicato da Einaudi diversi anni fa, però si può trovare ancora.
Ma la cosa importante è che effettivamente questo processo della dissoluzione del sistema hegeliano e dei due esiti – marxista ed esistenzialista -, è un processo le cui conseguenze sono costitutive del clima culturale, morale e ideologico attuale, e quindi noi affrontando questo tema, entriamo nel vivo della situazione culturale ideologica attuale.
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Riportando tutto a casa: osare l’impossibile
di Paolo Selmi
Dopo un breve momento di riflessione, rieccomi. Mi sono rafforzato ancor più nella convinzione che sia necessario passare dalla pars destruens a quella construens. E mi sono deciso a tradurre Planomernost', Planirovanie, Plan. Ma non solo, renderlo fruibile, divulgabile, spiegarne le ragioni, predigerirlo, renderlo accattivante, per quanto un testo di economia lo possa essere. Lo scopo è quello che spiego nelle pagine seguenti, di doverosa premessa. Davvero mi piacerebbe che si ritornasse a parlare in questi termini
Per questo ti invio il tutto, rimettendomi come sempre al tuo giudizio. Spero davvero che ti piaccia e che possa piacere ai compagni, interessarli, smuoverli e smuoverne sempre di più, sulla base di questi appunti di lavoro e altri che spero verranno più acuti, più efficaci dei miei.
Che ci volete fare, mi piacciono i vecchi libri e le vecchie fotografie. Questa foto, che rappresenta una giovane contadina mentre guarda attraverso un teodolite per geometri, rappresenta forse la sintesi di questo nuovo ciclo di appunti: guardare il futuro da un punto di vista di classe, il nostro punto di vista. Il futuro lo guardano già in tanti, in troppi, ciascuno dal proprio punto di vista piccolo,medio, o grande borghese: Steve Jobs o Bill Gates, piuttosto che il Sig. Huawei (Ren Zhengfei 任正非 ), con i loro chip sottopelle, insieme ai loro epigoni in piccola, infima, scala, tipo Casaleggio e associati e le loro “democrazie” del futuro, piuttosto che i loro riproduttori su grande scala come le grandi, attuali, potenze imperialistiche: USA, RPC e i loro corridoi economici che segnano le rotte intorno a cui dare ulteriore sostanza alle loro mire egemoniche. Come questo accada e stia portando il pianeta all’autodistruzione, è stato materia del primo quaderno1 .
In questo secondo quaderno, mi piacerebbe rimettere la classe giusta dietro quel teodolite. Mi piacerebbe che si smettesse di parlare di “narrazioni” e “visioni”, come recentemente sottolineato da Carlo Galli2 , ma si iniziasse a parlare di piani concreti o, meglio ancora, di “piano” (план). Già, perché questi appunti saranno stesi partendo da un presupposto, che potrà piacere, far sorridere, o inorridire: ripartiremo da dove il discorso era stato, frettolosamente, interrotto, da dove il bambino era stato buttato via con l’acqua sporca, da dove le socialdemocrazie occidentali avevano preferito avventurosi percorsi alternativi, terze vie intrise di finta responsabilità, di vera paura del “che fare” una volta raggiunto il potere, nonché implicita ammissione di impotenza di fronte ai mutamenti epocali che il Capitale ha rovesciato sulla popolazione di questo pianeta, per la quasi totale maggioranza composta di classi subalterne, dicendo loro: “La Storia va in questa direzione, questa è la minestra”.
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Sovrani rispetto a chi e a che cosa?
di Michele Castaldo
Inutile ciurlare nel manico, la questione è seria e complicata, molto complicata; il modo peggiore di affrontarla è di usare un metodo tutto politicistico e ideologico, o peggio ancora, cercando di risvegliare le anime del passato, senza capire che l’acqua di un fiume non è mai la stessa.
L’Europa di questi anni, e di quello che il futuro riserva ai suoi abitanti, è tutt’altra cosa rispetto ai vecchi paesi colonialisti del tempo che fu. Vale per l’Europa ed a maggior ragione per la Russia, gli Usa, la Cina, l’India, i paesi latinoamericani e quelli mediorientali. Insomma ne è passata di acqua sotto i ponti dal ‘500, dall’’800 e dallo stesso ‘900.
Veniamo alla materia del contendere, al cosiddetto sovranismo, un termine molto in voga in questi ultimi anni, un contenitore dentro cui ognuno ci mette quel che più gli aggrada. Poi la solita domanda di rito: ma questo sovranismo è di destra o di sinistra? Domanda piuttosto capziosa perché si pretende di definire di sinistra o di destra secondo la classe che ne è espressione: di sinistra se a rivendicarlo è la classe proletaria diretta ovviamente dai comunisti; di destra se è la borghesia a mobilitarsi. Si tratta di un manicheismo teorico-politico un po’ infantile che non aiuta a capire l’evoluzione della storia in questa fase in Europa e nel resto del mondo.
Piuttosto che anteporre le nostre – legittime, ci mancherebbe - aspirazioni ideali, mettiamo i piedi per terra e cerchiamo di analizzare la realtà per quella che è, e a quali scenari andiamo incontro in Europa e non solo.
La storia ci dice che alcune grandi unioni di nazioni – dunque di etnie, di culture ecc. – si sono date solo a seguito di grandi guerre o di lotte di liberazione e guerra civile al proprio interno. Basta pensare agli Usa, all’Urss, o anche in misura ridotta, alla ex Jugoslavia, un paese, quest’ultimo, vero e proprio laboratorio per tutto il nostro ragionamento.
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