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Il fascismo del manager*

di Massimiliano Nicoli

A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà.
G. Orwell, 1984

Premessa

Questo intervento (breve e sincopato – avverto subito il lettore) ammette come ipotesi che esista un elemento di fascismo che circola oggi nei luoghi di lavoro. Ipotesi difficile da confermare – sembrerebbe – in tempi in cui la valorizzazione del fattore “umano” è uno dei ritornelli delle teorie e delle pratiche concernenti l’economia aziendale e l’organizzazione di impresa. “Umane” sono le risorse, “umano” è il capitale. Di più, il lavoratore è una “persona” il cui “sviluppo” è decisivo per il successo dell’impresa. Le organizzazioni appiattiscono le proprie gerarchie, le relazioni di lavoro si fanno sempre più informali, il clima è friendly. Il capo è un leader, il manager è un coach che aiuta le persone a esprimere pienamente il proprio “potenziale”. L’impresa ha una mission e una responsabilità sociale, una vision e una carta etica. In libreria, i bestseller manageriali sono esposti accanto ai libri di psicologia e pedagogia, e i corsi universitari di gestione delle risorse umane popolano le facoltà di scienze della formazione. Persino la filosofia, in forma di consulenza, fa capolino nelle stanze del business. A cercare orbace e manganello – o almeno lo sguardo torvo di un capo autoritario à la Valletta – nei luoghi di lavoro, oggi, si finisce per trovare un pullover molto casual e delle slides di Powerpoint. E un team leader sorridente che ti regala un feedback sulla tua performance.

Eppure, molto recentemente, dei collegamenti analogici sono stati fatti – e non senza ragioni – fra il lavoro sotto il comando del Duce e il lavoro senza padre né padrone – così parrebbe – di oggi. Per esempio, la recente vicenda dell’accordo imposto dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ai lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori ha suscitato commenti in cui è stato esplicitamente evocato lo spettro del fascismo: un accordo che interviene in maniera pesantemente peggiorativa sulle condizioni di lavoro e contemporaneamente esclude dalla rappresentanza sindacale le organizzazioni che non lo firmano è una chiara manifestazione di “fascismo aziendale”. Tanto più che il cosiddetto accordo viene “presentato” sotto forma di ricatto (travestito da referendum): o si dice di sì alle condizioni dettate dall’azienda o la dura lotta per la sopravvivenza nel mercato globalizzato costringerà il management a trasferire altrove la produzione.

Secondo Giorgio Cremaschi – dirigente dell’unica sigla sindacale che ha rifiutato di firmare l’accordo, la Fiom –, gli eventi di Mirafiori (e prima ancora di Pomigliano) non trovano alcun precedente storico che li eguagli per gravità, a meno di risalire fino all’accordo del 2 ottobre 1925 sottoscritto a Palazzo Vidoni da Mussolini, padronato industriale e sindacati fascisti e corporativi.[1] Quell’accordo sanciva la fine delle commissioni interne aziendali elette dai lavoratori e il passaggio al regime dei fiduciari nominati dai sindacati firmatari. Ieri come oggi: fine della democrazia in fabbrica e rappresentanza concessa ai soli sindacati collaborativi.

 

Facendo un passo indietro rispetto alla stringente attualità – mentre scrivo – dell’affaire Mirafiori, si può richiamare il discorso tenuto dallo stesso Marchionne al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, il 26 agosto 2010. L’amministratore delegato della Fiat parla al meeting poco dopo la sentenza del Tribunale di Melfi che imponeva all’azienda il reintegro di tre operai dello stabilimento lucano licenziati per “sabotaggio”. L’azienda aveva dato seguito alla sentenza reintegrando gli operai ma confinandoli in una “saletta sindacale”, per consentire loro – secondo i termini di legge – di godere dei diritti sindacali, ma non di riprendere il lavoro. A Rimini, in più di un passo del suo discorso, Marchionne interviene in merito alle polemiche che quella decisione aziendale aveva suscitato, stigmatizzando i tre operai, e la Fiom che li sosteneva, in quanto rappresentanti di un modello ideologico che blocca lo sviluppo dell’azienda e del paese intero: “Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra capitale e lavoro, tra padroni e operai. Se l’Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai niente”. E poco più avanti: “Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al paese la possibilità di andare avanti”.[2] Niente di nuovo sotto il cielo dell’impresa, visto che le parole del “manager dei due mondi” rievocano – ricorda Vladimiro Giacché – il patto di Palazzo Chigi stipulato fra Confindustria e Confederazione generale delle corporazioni fasciste il 21 dicembre 1923, che sanciva “il principio che l’organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell’irriducibile contrasto di interessi tra industriale e operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori, e fra le loro organizzazioni sindacali”.[3]

Si potrebbe continuare mettendo a confronto la linea di continuità che univa regime fascista e organizzazione taylorfordista del lavoro nell’idea di costituire una “élite manageriale scientifica” in grado di controllare e superare la lotta di classe,[4] con la contiguità politico-culturale che avvicina Berlusconi e Marchionne in nome della gestione manageriale della cosa pubblica: laddove il manager subordina gli investimenti in Italia alla “governabilità” degli stabilimenti e alla flessibilità del lavoro, il capo del governo risponde promettendo la modifica in senso ultraliberista dell’articolo 41 della Costituzione.[5]

Detto questo, non è sul piano delle analogie con il fascismo storico che intendo discutere l’ipotesi che ho posto qui in premessa, quanto sul piano della differenza specifica del capitalismo cosiddetto postfordista e, soprattutto, delle relative tecniche di regolazione e controllo del lavoro. Un fascismo, quello del manager, a cui, se rivolgo lo sguardo a Pasolini, non esito ad aggiungere l’attributo “nuovo”. Un nuovo fascismo, allora, i cui sintomi si leggono, oltre che nelle parole e nelle pratiche di una figura manageriale estremamente significativa come quella di Sergio Marchionne, nel ruolo di dominio che la forma-impresa esercita a livello politico ed economico, e finanche nell’ambito dei modi di essere e di pensare, del modo di costituzione, cioè, della nostra soggettività. La cifra di questo dominio è l’annientamento del conflitto e dell’antagonismo nei luoghi di lavoro: sforzo antico quanto il capitalismo. La novità, quella differenza specifica del capitale postfordista in cui abita lo spettro del fascismo, sta nella tecnologia di potere – mai così efficace e pervasiva – attraverso la quale il sogno padronale di un capitale senza lavoro si sta (quasi) realizzando.

 

Corpo

Il proposito di narcotizzare il conflitto nella produzione capitalista non è certo farina del sacco dei nouveaux managers come Marchionne. Basta scorrere l’Organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Winslow Taylor[6] o l’autobiografia di Henry Ford[7] per vedere quanto la “cordiale collaborazione” fra capi e sottoposti sia sempre stata l’obiettivo dichiarato del management d’impresa, fin dalla sua aurora: da lì in poi si potrà leggere la storia delle teorie e delle pratiche di organizzazione aziendale come l’incessante tentativo di fissare, una volta per tutte, le relazioni di potere nei luoghi di lavoro a vantaggio del capitale.

Del resto, già nel contratto di compravendita della forza-lavoro è contenuto il rapporto di forza, il terreno della contrapposizione e della lotta. All’atto della stipula del contratto, il valore d’uso della forza-lavoro – per usare un linguaggio alquanto démodé – non passa immediatamente nelle mani del compratore; esso non è oggettivamente contenuto nella merce forza-lavoro, “ma viene soltanto dopo, come soggettiva estrinsecazione di una possibilità, di una capacità, di una potenzialità”.[8] Il management deve disporre le condizioni affinché quel valore d’uso sia consumato aggiungendo valore, producendo plusvalore. “La forza-lavoro dunque non è soltanto lavoro in potenza, è anche capitale in potenza”,[9] che passa all’atto nella valorizzazione capitalistica solamente a patto che quella soggettiva possibilità che è il valore d’uso della forza-lavoro si estrinsechi e si oggettivi nella produzione. Questo passaggio dalla potenza all’atto è il terreno irriducibile della contrapposizione, in cui si gioca la valorizzazione del capitale e lo sfruttamento del lavoro, ed è su questo passaggio che si situano le tecniche manageriali di assoggettamento così come le pratiche di resistenza e insubordinazione del lavoro.

Nell’organizzazione taylorfordista, che informa la produzione capitalista su scala planetaria per quasi un secolo, le condizioni che il management dispone per consumare il valore d’uso della forza-lavoro ruotano attorno all’organizzazione scientifica della disciplina di fabbrica. Non è difficile riconoscere nel paradigma produttivo taylorfordista gli schemi disciplinari descritti da Michel Foucault in Sorvegliare e punire:[10] la scomposizione microanalitica del lavoro nelle sue operazioni elementari, il controllo cronometrico del gesto, l’utilizzo esaustivo del tempo, la sorveglianza panottica che corre lungo tutta la linea del processo produttivo, la formazione di un sapere scientifico e, come tale, super partes (l’organizzazione scientifica del lavoro) che concerne il processo produttivo e le caratteristiche dei corpi che in esso si devono incastrare. A ciò si aggiunge una produzione discorsiva che si appunta sulla soggettività del lavoro e spinge il proprio effetto di potere verso la sorgente dell’antagonismo, verso la “volontà” del lavoratore che attualizza il valore d’uso della forza-lavoro, reclamando la sua partecipazione e la sua complicità, chiedendogli di divenire capitale in atto: nascita delle psico-pedagogie del lavoro e prima apparizione sulla scena produttiva del fattore “umano” come oggetto di studio e bersaglio di un potere.

Tuttavia, l’organizzazione taylorfordista non riesce a ridurre alla docilità quella “mano ribelle” del lavoro di cui parlava Marx nel primo libro del Capitale. Il tentativo di assorbire, addomesticandola, la soggettività del lavoratore si infrange contro la materialità della coercizione disciplinare. Il corpo resiste. Il tentativo manageriale di formare l’anima passando per il dressage dei corpi fallisce. L’architettura disciplinare taylorfordista è fratturata dalla separazione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, ovvero tempo dell’alienazione e tempo della libertà. È la stessa pratica disciplinare a tenere separati, nella materialità del processo produttivo, lavoro e vita, e questa separazione si incarna: il corpo che lavora – uniformato, meccanizzato e assoggettato nella linea di produzione – e il corpo che si stacca dalla linea e vive il “fuori” della produzione. Ai tòpoi della fatica si contrappongono i luoghi della residenza, della socialità, delle forme di esistenza estranee alle logiche aziendali, fra le quali, per esempio, la militanza. Il capitale non sussume la vita nella sua interezza, e permane un “resto” di tempo vitale che sfugge alla presa del potere disciplinare. Alla temporalità brutale e feroce della linea di produzione si contrappone, come fratello e nemico irriducibile, il tempo di un’altra soggettivazione che può farsi pratica conflittuale, di lotta. Nonostante il suo impiego esaustivo, fino all’ultimo istante, resta del tempo nell’organizzazione scientifica della disciplina, resta il tempo per ribellarsi. È sul piano della materialità scandalosa del lavoro di fabbrica che risiede la vulnerabilità del capitalismo taylorfordista ed è lì che viene regolarmente attaccato. Il gioco fra “dentro” e “fuori” che la disciplina stabilisce nel momento stesso in cui si insedia al cuore dell’organizzazione del lavoro alimenta l’antagonismo che si fa beffe della “cordiale collaborazione” del catechismo manageriale. Quel “fuori”, infatti, entra nella fabbrica e spesso, troppo spesso, la sconquassa.

 

Anima, ovvero la rimozione del corpo

Sul piano del controllo della forza-lavoro, il problema del capitale dopo il ciclo di lotte degli anni sessanta e settanta può essere condensato nella seguente domanda: come colonizzare la soggettività del lavoratore – come foggiarne l’anima – senza passare per la disciplina del corpo? La risposta è semplice e arcinota: il lavoro deve farsi sempre più immateriale. L’impresa deve liquefarsi, o diventare un gas, darsi un’anima – direbbe Deleuze[11] –, assumere la consistenza impalpabile dello spirito. Almeno tre fattori intervengono per sollecitare e favorire la conversione immateriale dell’impresa: l’egemonia del neoliberalismo in ambito politico, la globalizzazione dei mercati in ambito economico, e il successo dei modelli giapponesi di organizzazione industriale per quanto riguarda lo specifico delle teorie e delle pratiche manageriali.

È dal lavoro metalmeccanico (ancora una volta dal settore automobilistico: dopo Ford, la Toyota) che parte la svolta immateriale del capitalismo postfordista, da dentro il fuoco del lavoro materiale, quindi. La fabbrica snella giapponese, capace di contrarsi ed espandersi in tempi rapidissimi, di sintonizzarsi sulle volubili frequenze del mercato globale modulando senza tregua la produzione in base alle oscillazioni della domanda è il modello vincente da esportare e concettualizzare in Occidente. È un modello flessibile, e “flessibilità” è l’imperativo categorico del postfordismo, il mantra che percorre incessantemente, oltre che il discorso manageriale, quello economico e politico: flessibilità dei processi, flessibilità del lavoro. Sfortunatamente è anche un modello fragile, vulnerabile: per funzionare ha bisogno del massimo grado di partecipazione e collaborazione della forza-lavoro,[12] e ciò rilancia il problema dell’efficacia del controllo manageriale; ne fa, per il capitale, una questione di vita o di morte. In passato, l’impresa prevaleva, sì, nel rapporto di forza, ma al prezzo di una dura lotta che lasciava sul suo campo più di qualche ferito (ciò che per i lavoratori, sul fronte opposto, costituiva un diritto). Ora l’impresa è condannata a realizzare il suo eterno sogno, il sogno (fascista) dello stato di dominio, a partire dall’occupazione della spontanea volontà del lavoratore. E siccome la via di accesso a quella volontà deve aggirare il corpo per attingere direttamente al non-luogo dell’anima, laddove di anima ce n’è poca, come nel lavoro materiale di fabbrica, si tratterà di produrla.

Tanto per cominciare, si squalifica la materialità del lavoro avvolgendolo nella pellicola immateriale della “qualità”, del “miglioramento continuo”, della “comunicazione” e del “lavoro di squadra”, del “problem solving”, dell’“orientamento al risultato” e della “formazione permanente”. Si coinvolgono le popolazioni operaie in interventi formativi non solo addestrativi ma centrati piuttosto sulle dimensioni del “saper essere”, delle capacità relazionali, delle abilità organizzative, dell’“orgoglio del fare bene”, dell’“attenzione al cliente”, della “responsabilità” e dell’“interfunzionalità”.[13] Mossa astuta: sembrerà a tutti che, finalmente, la brutalità disumana della disciplina taylorfordista abbia ceduto il passo a un arricchimento del lavoro di contenuti intellettuali e creativi, proprio ciò che la disciplina aveva prosciugato. Sembrerà quasi che gli operai non esistano più.

Poi si costruisce una “cultura” aziendale integrata, collaborativa e a-conflittuale, fatta di mission e vision codificate in linguaggi dal registro profetico e suggestivo, per fare appello all’emotività, alla sfera intangibile dei valori, del sogno, delle immagini associate al marchio aziendale o alla merce prodotta. I manager, insieme a fitte schiere di consulenti delle più diverse specie, danno vita a sistemi cultural-aziendali di significati condivisi, di valori, credenze, linguaggi, norme, cerimonie, narrazioni, finanche leggende e miti relativi agli “eroi aziendali”, presentandosi sempre più come “agenti del cambiamento” cui è demandato il compito di produrre nuove forme di “coscienza” e “filosofia” aziendali.[14] L’impresa procede alla costruzione della propria “immagine organizzativa”, della propria anima bella, con la Corporate Social Responsibility o responsabilità sociale di impresa, insieme alla stesura delle carte etiche, per soddisfare tutti gli stakeholder, per mostrare che, anche se i capitali viaggiano come flussi luminosi da un continente all’altro, l’azienda si preoccupa dell’agio delle comunità locali in cui si insedia o solamente sosta.

Il totem del capo autoritario, del tecnico che manovra un sapere organizzativo di ordine ingegneristico e gestionale, viene abbattuto e sostituito con la figura del leader carismatico, colui che accoppia savoir-faire tecnico-specialistico e virtù etica e politica, capitano coraggioso che fonda il proprio ruolo sulla capacità visionaria e profetica di intuire le mosse enigmatiche del mercato. Il manager insegna, delega potere (si chiama empowerment),[15] disegna i contorni del destino dell’azienda, accede ai segreti profondi dell’economia globalizzata: ecco un nuovo funzionario della Verità. In più, aiuta i collaboratori a dare il meglio di sé, a cambiare se stessi, ad aumentare l’autostima, a “massimizzare” la performance: è un maieuta, uno psicologo, un allenatore.

L’effetto atteso e prodotto da questi dispositivi manageriali prende il nome, nell’ambito del management delle risorse umane, di “contratto psicologico”. Il contratto giuridico contiene il rapporto di forza: non garantisce di per sé “quegli atteggiamenti di lealtà, flessibilità, orientamento al risultato”[16] vitali per l’organizzazione postfordista. Serve un supplemento d’anima che rinforzi il vincolo con l’impresa, mentre il rapporto materiale di lavoro – in nome della flessibilità – si snellisce fino al limite dell’evaporazione. Il contratto psicologico attiene “al grado di implicazione emotiva che la persona stabilisce con l’organizzazione e i suoi membri”[17] e passa per la stimolazione del “commitment”[18] e della “identificazione organizzativa”:[19] sovrapposizione e coincidenza del sé del lavoratore con il sé dell’azienda, “attaccamento emozionale”. L’impresa come oggetto d’amore, bersaglio del desiderio.

Contemporaneamente, i saperi psico-pedagogici sulla soggettività del lavoratore proliferano nelle organizzazioni aziendali in una dispersione di declinazioni e consulenze, facendo dell’impresa il luogo dello sviluppo personale e della realizzazione di sé, la scena in cui la ricerca di “benessere” e “autenticità” degli individui converge con l’istanza aziendale di efficacia e performance. Le psico-tecniche manageriali postulano una struttura psichica monistica, compatta e a-conflittuale. Ogni disagio o difficoltà psicologica è spiegata in termini di pattern di comportamenti appresi che l’individuo, attraverso “pacchetti” di tecniche specifiche, semplici ed efficaci, è in grado di disapprendere e riprogrammare. Il sé è sempre accessibile, la sua performatività migliorabile, i suoi confini estensibili, secondo la tendenza naturale dell’essere umano a realizzarsi, superarsi, e ad attualizzare le sue potenzialità: la soggettività come oggetto di gestione manageriale.[20]

Del resto, il neoliberalismo è la cornice economica e politica in cui si dispiega il dominio della forma-impresa, e il fulcro teorico della razionalità di governo neoliberale è la nozione di “capitale umano” (Foucault docet). L’introduzione di questa nozione, a partire dall’ordoliberalismo tedesco e dal neoliberalismo americano, segna una “mutazione epistemologica” che cambia l’oggetto dell’analisi economica, e una penetrazione di quest’ultima in un ambito prima considerato non economico: il soggetto-lavoratore come portatore di un capitale individuale (fattori fisici e psicologici, attitudini, competenze, carattere, cultura ecc.) di cui il reddito costituisce la valorizzazione, mentre la formazione continua, l’ampliamento delle competenze e il continuo superamento di sé rappresentano l’investimento e il rischio d’impresa.[21] Il lavoratore diviene un’impresa in sé in una società di unità-imprese, una società in cui il modello manageriale penetra nelle trame più minute, fin dentro il cuore della soggettività, nel foro interiore del rapporto di sé con sé, per fabbricare ciò che è stato definito “enterprising subject”,[22] “sujet entrepreneurial”:[23] il soggetto come costruzione imprenditoriale di sé sotto il comando del capitale.

Con il management dell’anima sfuma la separazione fra lavoro e non lavoro, la linea di demarcazione fra dentro e fuori dell’impresa, al punto che persino i processi di soggettivazione saltano dentro il circuito della valorizzazione capitalistica. I dispositivi aziendali di gestione delle risorse umane modellano l’anima del lavoratore a immagine e somiglianza dell’impresa e delle sue figure immateriali. Se, diceva Althusser, l’ideologia interpella gli individui come soggetti, allora la tecnologia di potere manageriale li interpella come capitale. La “mutazione antropologica” del lavoro procede in progressione geometrica, e tutto ciò che tradizionalmente stava fuori dal “piano del capitale”, rappresentandone il limite e la minaccia, è ora assediato dalla spinta omologante dell’impresa. Nel modello di soggetto pieno, lucido, performativo, concorrenziale e competitivo cui i lavoratori (precari e ricattati) sono chiamati a coincidere non c’è spazio per l’antagonismo o per il conflitto, se non per quello che li pone l’uno contro l’altro. A questa altezza si colloca oggi il gesto fascista dell’impresa. Il problema è capire qual è il terreno della resistenza.

 

Il ritorno del rimosso

Nelle righe precedenti mi sono dimenticato di Sergio Marchionne, che avevo ampiamente citato in premessa. Poco male, è solo uno dei tanti significanti del discorso manageriale contemporaneo. Eppure è uno dei personaggi più emblematici, un protagonista politico della nostra attualità e, soprattutto, l’episodio del ritorno del rimosso che vorrei citare si verifica proprio nei suo paraggi – come dire, a casa sua. Allora voglio riprendere le sue parole prima di proseguire e concludere.

Il discorso di Rimini è un eccellente condensato del linguaggio manageriale contemporaneo, dei suoi temi organizzativi, dei suoi effetti di potere (a partire dal titolo: “Saper scegliere la strada”). Marchionne si rivolge in particolare ai giovani e si presenta come un uomo che parlerà in modo “chiaro” e “diretto”, senza presunzione, senza formalismi, rifiutando il ruolo del “professore”, dell’“economista” o del “politico” e assumendo la più modesta posizione – dice – dell’“uomo di industria”. “Cambiamento” è la parola che ricorre più frequentemente nel suo discorso, praticamente in ogni passaggio. Occorre avere il “coraggio” e la “determinazione” di intraprendere i cambiamenti necessari per “stare al passo con la realtà”. Una realtà che coincide con il mondo globalizzato, “complesso” e “caotico”, in cui i problemi da affrontare “cambiano ogni giorno”. La continua variabilità, l’incessante “fermento” dell’ambiente e del mercato in cui viviamo richiedono una grande capacità di risposta, movimento, decisione – la capacità di adattarsi in “tempi brevissimi”, in “tempo reale” ai “movimenti dei mercati” –, e impongono “al sistema una flessibilità enorme”. Occorre tenere “un ritmo molto più veloce rispetto alla concorrenza” per superare le “sfide” poste dalla globalizzazione: il ritmo, la rapidità sono ciò che “fa la differenza tra vincere e soccombere”. Mantra della flessibilità.

Se l’impresa deve palpitare in sincrono con i mercati, il paese deve vibrare in concerto con l’impresa, trasformarsi insieme a essa. Nel discorso di Marchionne, l’Italia corre i medesimi rischi, soffre degli stessi mali che affliggevano la Fiat prima della cura manageriale: la resistenza al cambiamento, l’immobilità, l’insufficiente spinta a “competere” e a “confrontarsi con il resto del mondo”. “Fabbrica Italia” è il nome del progetto industriale di Marchionne, e ciò che il paese deve fare per allinearsi con l’impresa – pena il decollo dell’azienda verso altri lidi – è “riconoscere la necessità di cambiare”, “aggiornare un sistema che garantisca alla Fiat di continuare a competere”, liquidare i “vecchi schemi”, i modelli che si ostinano “a proteggere il passato”, e volgere finalmente lo sguardo verso “nuovi orizzonti”. La visione del futuro è preclusa se non si libera l’occhio, una volta per tutte, dalla “lente deformata del conflitto”. Costruiscono un dominio e lo chiamano pace.

La fusione fra Fiat e Chrysler è “un’integrazione culturale basata sul rispetto e sull’umiltà; un’integrazione che è una straordinaria fonte di ricchezza umana”. La mission dell’azienda, fin dall’antichità dei suoi natali, non ha tanto a che fare con la prosaica sfera della generazione di profitti e dividendi quanto piuttosto con la dimensione del “sogno”, nella fattispecie quello di “favorire la mobilità e la libertà delle persone”. I presupposti di “Fabbrica Italia” sono i valori che fondano l’agire manageriale: “correttezza”, “integrità”, “etica del business”. “Nobili intenzioni” animano il progetto aziendale e disegnano la “visione” che il manager deve tradurre in realtà. Il “segreto” della Fiat è la “forte carica di valori” delle persone che la compongono, il loro “senso di responsabilità”, il fatto di essere un’azienda fatta di “uomini e donne di virtù”. E via con le citazioni di scrittori e filosofi attraverso le quali Marchionne esibisce, arricchendoli con un surplus di colto umanismo, tratti della propria biografia e della cultura aziendale. “Viaggiare è una brutalità”, diceva Pavese, ma è necessario sottoporsi al cambiamento del viaggio per crescere in fretta, aggiunge Marchionne. La necessità di adeguarsi con “coraggio” e “libertà” a “un mondo che cambia alla velocità della luce” è sostenuta parafrasando Hegel: “La conoscenza è come la nottola di Minerva. Arriva a cose fatte, quando la realtà è già passata”. Il discorso riminese si chiude con Machiavelli e la funzione pedagogica dell’uomo dalla virtù esemplare, quello che agisce con “decisione” e con “coraggio”, che non si tira indietro quando “si tratta di dare il buon esempio”. Cultura, valori, virtù. Marchionne insegna come stare al mondo: è una questione di superiorità morale e di accesso alla verità della globalizzazione. Eccemanager.

Questa è la Weltanschauung manageriale ampiamente condivisa da tutti i “decisori politici”. Il mercato è il “luogo di veridizione” delle pratiche di governo,[24] e il “manager globale” – che il mercato lo conosce bene – occupa il posto della Verità. Così, quando Marchionne sottopone il suo piano autoritario al referendum dei lavoratori, prima a Pomigliano, poi a Mirafiori, si aspetta un plebiscito. Glielo annunciano il governo, Confindustria, la “babele del Pd”, “l’entusiasmo di Cisl e Uil e le deboli reazioni della Cgil”,[25] la solitudine della Fiom, glielo annuncia l’adesione acritica dei “liberi pensatori”, il consesso politico, economico, culturale e giornalistico che converge sul diktat aziendale in nome della metafisica della globalizzazione. Il ricatto di Marchionne, il suo scatto autoritario, è realmente comprensibile – a livello strategico – solo considerando il fatto che si innesta su un corpo sociale già accuratamente sterilizzato dalle infezioni dell’antagonismo. Si tratta di ridurre al silenzio, con un gesto di forza, gli ultimi rottami del passato, le sopravvivenze marginali del conflitto. Mutazione antropologica (postfordista) del lavoro e violenza autoritaria (se vogliamo, prefordista) per stroncare i resti di quella mutazione. Ecco il fascismo del manager. Ma una “minoranza profonda”[26] a Pomigliano e una quasi maggioranza alle carrozzerie di Mirafiori qualche mese dopo urlano il proprio no. Chi sono? Sono gli operai inchiodati al proprio corpo stravolto dalla materialità insopprimibile del lavoro di fabbrica. Sono quelli che hanno lottato nel 2004 contro la metrica Tmc-2 e ora subiscono l’introduzione del World Class Manufacturing.[27] Quelli che hanno vissuto l’intensificazione del lavoro, la nuova turnistica, la riduzione delle pause e l’aumento degli straordinari, l’accelerazione dei ritmi, la brutalità e l’assurdità del lavoro in linea di produzione. Quelli che già nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi (la via italiana al toyotismo) avevano incorporato lo scarto fra i dogmi postfordisti della motivazione, della qualità, della cooperazione, della realizzazione di sé, da un parte, e dall’altra, la frustrazione, l’indifferenza, la fatica, la serialità del lavoro materiale di fabbrica, per di più impoverito e squalificato – lavoro che, sotto Taylor, Ford, Ohno,[28] Romiti o Marchionne, asservimento feroce dei corpi era, e tale rimane. Il corpo antagonista del lavoro è ritornato sulla scena per annunciare un rifiuto senza condizioni. Le braccia si incrociano, poi la mano scrive “no” sulla scheda del ricatto.

Non è un caso che quella parte di studenti e di precariato cognitivo che ancora non si è trasformata in capitale umano guardi a quegli uomini e a quelle donne dalle vene spezzate e la schiena diritta come “emblema della persistenza in vita”[29] della soggettività del lavoro. Hanno trovato il terreno della resistenza. Come praticare il rifiuto del dominio della forma-impresa nel lavoro immateriale, senza corpo, in cui il management dell’anima dispiega la propria potenza omologante è la sfida politica da raccogliere per contrastare il fascismo quotidiano del capitale nei luoghi di lavoro. Esercitare il massimo di sospetto per tutte le metafisiche del lavoro immateriale, guardare di traverso le maschere del desiderio su cui fanno leva le pratiche manageriali di gestione dell’anima, ripartire dalla radicalità dei bisogni sociali, dal corpo vivente, dalla sua fragilità e dai suoi piaceri: mi sembrano indicazioni da tenere ben presenti.


 *Pubblicato sul fascicolo di Aut-Aut n. 350 dedicato a Nuovi fascismi?

[1]. G. Cremaschi, Sì, quello di Marchionne è fascismo aziendale, intervento sul sito web di “MicroMega”, 10 gennaio 2011, .
[2]. Il testo del discorso di Marchionne, inclusivo delle slides proiettate, è scaricabile in formato pdf dal sito del “Sole-24 ore”, .
[3]. V. Giacché, Così parlò Marchionne, “alfabeta2”, 3, 2010.
[4]. Cfr. G. Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 186-189.
[5]. L’articolo 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Questa la proposta di modifica approvata dal Consiglio dei ministri il 9 febbraio 2011: “L’iniziativa economica è libera, ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.
[6]. F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro (1947), Etas, Milano 2004.
[7]. H. Ford, La mia vita e la mia opera (1922), Apollo, Bologna 1925.
[8]. M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 20062, p. 163.
[9]. Ivi, p. 164.
[10]. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1993.
[11]. Cfr. G. Deleuze, “Poscritto sulle società di controllo”, in Pourparler (1990), Quodlibet, Macerata 2000, p. 236.
[12]. Cfr. M. Revelli, “Introduzione”, in T. Ohno, Lo spirito Toyota (1978), Einaudi, Torino 2004; G. Della Rocca, V. Fortunato, Lavoro e organizzazione. Dalla fabbrica alla società postmoderna, Laterza, Roma-Bari 2006; G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, vol. 1. La questione industriale, Franco Angeli, Milano 2007.
[13]. Cfr. L. Queirolo Palmas, Le fabbriche della formazione. Un’indagine sulla produzione delle risorse umane nella grande impresa industriale, L’Harmattan Italia, Torino 1996; A. Vitale, La talpa nel prato verde. Soggettività al lavoro alla Fiat di Melfi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2001.
[14]. Cfr. G. Morgan, Images. Le metafore dell’organizzazione (1997), Franco Angeli, Milano 2002, pp. 161-203.
[15]. Cfr. C. Piccardo, Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona, Raffaello Cortina, Milano 1995.
[16]. G. Costa, M. Gianecchini, Risorse umane. Persone, relazioni e valore, McGraw-Hill, Milano 2005.
[17]. Ivi, p. 32 (corsivo mio).
[18]. Con commitment si intende il coinvolgimento emotivo, l’impegno affettivo, l’orientamento positivo e “proattivo” nei confronti dell’impresa che porta l’individuo ad agire nell’organizzazione anche indipendentemente dai “vantaggi estrinseci” che potrà ricavare dai suoi comportamenti, o persino in contrasto con i suoi stessi interessi personali. Cfr. ivi, p. 206.
[19]. L’identificazione organizzativa è considerata un fenomeno cognitivo che ha decisive implicazioni emotive. È un fenomeno cognitivo nel senso che “le persone producono la loro identificazione con un’organizzazione attraverso la riconciliazione delle somiglianze e delle differenze tra il proprio schema di sé e lo schema che hanno dell’organizzazione in cui lavorano”: è un fenomeno di sovrapposizione fra identità individuale e identità dell’organizzazione. L’implicazione emotiva che ne deriva è l’“attaccamento emozionale” all’azienda, un “obbligo morale a restare con l’organizzazione e a contribuirvi”, una tendenza a vivere i successi o i fallimenti organizzativi come propri, al punto che il distacco dall’organizzazione comporta necessariamente una qualche “perdita psichica”. M. Bergami, L’identificazione con l’impresa. Comportamenti individuali e processi organizzativi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996.
[20]. Cfr. V. Brunel, Les managers de l’âme. Le développement personnel en entreprise, nouvelle pratique de pouvoir?, La Découverte, Paris 2004; L. Bazzicalupo, Soggetti al lavoro, in L. Demichelis, G. Leghissa (a cura di), Biopolitiche del lavoro, Mimesis, Milano-Udine 2008.
[21]. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979 (2004), Feltrinelli, Milano 2005, lezione del 14 marzo 1979, pp. 176-193.
[22]. Cfr. P. Du Gay, Consumption and Identity at Work, Sage, London 1996.
[23]. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2009.
[24]. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, cit., p. 40.
[25]. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 21.
[26]. Ivi, p. 28.
[27]. Il Tmc-2 (Tempi dei movimenti collegati – seconda versione) è una metrica del lavoro che riduce i tempi di esecuzione delle operazioni in linea di produzione fino al 20 per cento. Elaborata dalla fiat già negli anni ottanta, è stata introdotta negli stabilimenti del gruppo prima a Melfi (1994), poi a Cassino (2001) e a Mirafiori, Pomigliano d’Arco, Termini Imerese (2003). Cfr. S. Iucci, Tempi duri, in “Rassegna sindacale”, n. 34, 18-24 settembre 2003. Il modello organizzativo denominato World Class Manufacturing è un’evoluzione del sistema Toyota adottato dalla Fiat dal 2006. Prevede un costante investimento sull’elemento culturale dell’organizzazione tipico dei modelli postfordisti e, al contempo, una decisa intensificazione dei ritmi di lavoro in senso taylorista e fordista. Cfr. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano, cit., pp. 61-72.
[28]. Taiichi Ohno è unanimemente considerato il padre del Toyota Production System. Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, cit.
[29]. Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda schiavi in mano, cit., p. 28.

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