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Vite parallele

Elisabetta Teghil

Plutarco scrisse “Vite parallele”, biografie a confronto di personalità greche e romane.

Marx, si cita sempre in queste occasioni, disse che le vicende si ripetono due volte, la prima in termini tragici, la seconda in dimensione di farsa.

Non è questo il caso. L’anima dell’opera di Plutarco era precettistica ed etica, il dramma è oggi.

L’accostamento, allora, era spesso artificioso, mentre in questa occasione è calzante.

Intendiamo parlare di Lucas Papademos e Mario Monti che governano ad Atene e a Roma, presentati, l’uno e l’altro, come dei tecnici.

Secondo dei buontemponi, che tanto in buona fede non sono, ci sarebbero zone franche così dette “apolitiche”.

La nomina, ai vertici dello Stato, di tecnocrati, presentati sempre come provvidenziali, smaschera l’inconsistenza delle false alternanze politiche.

Intanto, chiariamo subito che, l’uno e l’altro, sono uomini di destra, checché ne dicano quelli/e che si sono inventati l’annullamento della destra e della sinistra.

Entrambi sono membri autorevoli della Trilaterale, nota, oltre che per essere il coagulo di interessi delle multinazionali anglo-americane, per essere un momento importante della elaborazione dell’ideologia neoliberista. E, infatti, in quest’ambito, ha denunciato l’eccesso di democrazia delle società occidentali.

Le differenze, per ora, sono sui tempi : il primo è avvantaggiato perché ha cominciato prima e ha ereditato il “buon lavoro” fatto dal governo socialista, il secondo è animato da buona volontà e vuole colmare il gap che lo separa dal greco.

L’uno e l’altro hanno il viatico degli Stati Uniti e dell’Inghilterra e della bibbia capitalistica, il Financial Times, ma Monti, fortunato, per rimanere nella metafora, ha anche la benedizione del papa e, di questi tempi molto utile, l’appoggio dei circoli atlantici.

L’Italia e la Grecia, da paesi a sovranità limitata, si accingono, a passi da gigante, a diventare protettorati anglo-americani.

I nazisti imponevano il loro quisling, l’”impero” manda i suoi governatori.

Il loro progetto cammina su due gambe: drenare le ricchezze ed il patrimonio pubblico, appropriarsi dei beni dei cittadini/e spingendoli al fallimento finanziario privato.

Il risultato è doppio: salvare le banche e arricchire le multinazionali anglo-americane e usare la conseguente recessione per ridefinire i rapporti di forza con il mondo del lavoro e con il sociale.

Si comincia con licenziamenti dai numeri importanti, con il blocco del turnover per i dipendenti pubblici che vanno in pensione, con l’età pensionabile continuamente posticipata, con l’aumento dell’IVA, con le prestazioni sociali ridotte ai minimi termini, con la spesa pubblica destinata alla sanità, all’istruzione….. ridotta all’osso.

Intanto si ottengono questi risultati e, contemporaneamente, ci raccontano che il rilancio dell’economia nazionale verrà da una presunta, chissà da dove, domanda esterna.

Si distrugge, poi, l’economia marginale, si allarga la platea dei poveri/e e, quelli/e già poveri/e, sono gettati nella miseria e, per un effetto domino, si impoveriscono i ceti medi e alti. Tutto questo accompagnato dalla nascita di un’iper-borghesia.

La piramide sociale si trasforma. Molti borghesi, resi miopi dai privilegi e dalla considerazione sociale di cui hanno finora goduto, non si rendono conto dello tsunami che li sta sommergendo.

I primi ad accorgersene sono stati i lavoratori cognitivi e la borghesia colta socializzata dall’università, ma si guardano intorno basiti e non sanno che strada intraprendere, mentre basterebbe smascherare il gioco, ormai sfacciato, con cui vengono stigmatizzati, di volta in volta, alcuni gruppi sociali per poi esporli alla collera popolare.

E’ la versione moderna dell’”untore”, fa ricadere la responsabilità della cosiddetta crisi su di loro e, in definitiva, sui cittadini/e.

In questo modo, il neoliberismo fa passare i suoi principi, si autoassolve e scarica le sue responsabilità sulla popolazione stessa, vittima due volte.

E’ in questo contesto che aumenta la violenza nell’ambito privato e nella società, il ricorso agli psicofarmaci, le persone affette da disturbi depressivi e i suicidi. Questi ultimi, poi, vengono rubricati nel novero di una generica patologia personale ma, nonostante questa edulcorata chiave di lettura, ben 60 nell’ultimo anno, sono stati attribuiti a situazioni in cui la vittima è entrata in rapporto, possiamo facilmente immaginare di che tipo, con Equitalia (Il Manifesto- 3 gennaio 2012).

Le cifre sono impietose e solo alcuni episodi, particolarmente eclatanti, finiscono in cronaca.

In Grecia, le proteste sono all’ordine del giorno, gli scioperi generali e quelli settoriali si susseguono e ci sono state manifestazioni di piazza oceaniche.

In Italia, niente di tutto questo.

Perché questa differenza?

La prima risposta può essere che gli italiani non hanno sufficiente immaginazione per capire che quello che viene fatto oggi in Grecia sta per essere fatto in Italia, la seconda è che i sindacati italiani, forti della loro tradizione riformista, ancora una volta collaborano con il padronato.

Ma quello che i sindacati non hanno capito o, molto più verosimilmente, non vogliono capire, è che non servono più, a conferma che, così come si sono configurati in Italia, sono stati espressione degli interessi del mondo imprenditoriale e, di questo, funzionari nell’ambito del lavoro e strumenti per la conservazione del capitale.

Venuta meno la stagione della lotta di classe nel nostro paese, i sindacati, oggi, nella stagione neoliberista, possono contrattare la salvaguardia dei privilegi dei loro dirigenti , qualche “buono pasto” per i lavoratori e qualche contributo per il Cral aziendale.

L’analisi delle lotte in Italia negli anni ’70 e di quelle attuali in Grecia ci indica e ci ricorda che non ci sono scorciatoie . E’ necessario partire sempre dall’autonomia della classe operaia.

La lotta di classe non è mai venuta meno, ma la borghesia l’ha riservata solo a sé.

E’ per questo che la socialdemocrazia, che di questa operazione è stata la principale artefice, trova, oggi, facile essere l’agente politico principale della naturalizzazione del neoliberismo nella società.

Il dominio del capitale è verticale, la lotta di classe non può essere altrimenti.

Questo progetto prevede il rilancio dei ruoli, il recupero di un’ipotetica società democratica, che non c’è mai stata, e la riaffermazione del concetto di nazione/patria, guidata da valori religiosi.

I risultati più concreti che si propone sono l’annullamento delle conquiste degli anni’70 ed il ritorno a valori degli anni ’50.

La novità che presenta questa nuova situazione è che i protagonisti/e di questa restaurazione, con connotati clericali e punte fasciste, sono quelli/e che si definivano socialdemocratici/che ed, oggi, riformisti/e.

Le riforme di cui parlano hanno tutte carattere reazionario: quella del mondo del lavoro è la trasformazione della precarietà da fatto eccezionale a condizione normale e normata, quella dello stato sociale significa abolizione delle tutele e svendita dei servizi al privato, i nuovi rapporti padronato –lavoratori significano la rinuncia alla contrattazione collettiva e l’introduzione del rapporto personalizzato del contratto con il datore di lavoro e via andare.

E’ in questo scenario che vanno lette, qui e ora, le questioni di genere.

Negli anni ’70, alcune in buona fede, altre in cattiva, sostenevano che l’entrata delle donne nelle istituzioni avrebbe modificato queste positivamente.

L’esperienza ci ha insegnato che non è andata così: le donne nelle istituzioni sono state e sono più realiste del re, si sono messe, insieme ai maschi, al servizio del sistema.

La soluzione non è certo rifiutare l’emancipazione, le donne fanno e devono fare, se vogliono, qualunque lavoro e lo fanno bene e male come i maschi, ma non hanno portato e non possono portare nelle istituzioni nessun cambiamento.

L’emancipazione, da cui, comunque, non si dovrebbe tornare indietro, non solo non cambia la società, ma quando diventa un fine e non un mezzo non aiuta, anzi è di ostacolo alla liberazione delle donne.

Da qui il cinismo politico del pianto della ministra in televisione.

Per ciò, questa società ed i suoi alfieri socialdemocratici e riformisti, sono, al di là delle belle parole, contro le donne ed il femminismo.

Oggi vogliono ridurre il femminismo, così come gli altri settori della vita sociale, ad una associazione di categoria che può contrattare quote di rappresentanza nelle commissioni di pari opportunità, nelle istituzioni e negli enti.

Quelle che si prestano vengono promosse a rappresentanti del femminismo. E, con questo, risolvono le loro personali ambizioni di carriera a scapito della restante stragrande maggioranza delle donne, a cui è riservato un destino di incertezza e di precarietà, perché l’attuale società prevede l’aumento dei poveri e sacche di povertà al limite della disperazione.

Da qui emergono due elementi. Da una parte, l’uso strumentale della cooptazione nella classe dirigente di persone provenienti da classi/ceti oppressi, ai fini del miglior funzionamento del sistema, con la disonestà consapevole di chi si presta, dall’altra, la consapevolezza, che emerge chiara, che non c’è categoria/classe/ceto/ambiente oppresso che possa pensare di liberarsi senza che questo processo non coinvolga tutti gli oppressi.

Allora capiamo meglio perché le orfane della socialdemocrazia, oggi tutte dedite al neoliberismo, chiedano a gran voce l’annullamento ( loro lo chiamano il superamento) del separatismo e della discriminante antifascista nel femminismo.

Il centro-destra fa la sua parte, secondo i suoi principi politici, ma è la società neoliberista, che a passi da gigante si sta impostando, che prevede alla sua base dio/patria /famiglia, che è costruita sull’aumento della violenza delle istituzioni nei confronti delle cittadine/i e sulla diffusione nella società della prevaricazione come regolatrice dei rapporti tra oppressi.

E’ in questo contesto che va letto l’aumento dei femminicidi, che sono il risultato della società patriarcale e che, ora e qui, sono anche la manifestazione del clima di violenza diffusa, che permea la società, di chi si ritiene più forte nei confronti di chi è percepita/o come più debole .

Questa è l’altra faccia della tolleranza zero e delle parole vuote e ipocrite come legalità, costituzione, guerre umanitarie.

I riformisti/e sono gli ascari arruolati dalle multinazionali e dagli Stati Uniti per ridurre questo paese, che già era a sovranità limitata, a colonia.

Gli Stati Uniti pensano di risolvere i loro problemi scaricandoli sull’Europa e, questo, spiazza quelli che sono filo-americani a prescindere.

Da qui, il ritardo politico di chi, accettando la vulgata americana, ha sostituito la lotta al comunismo con quella al terrorismo e all’islamo-fascismo, continuando, così, una tradizione di incomprensione della sinistra occidentale nei confronti delle lotte della periferia, veicolando con il pinkwashing e l’assunto delle democrazie sessuali, il neocolonialismo.

Forti del loro predominio in tutti i campi, gli Stati Uniti tentano di imporsi come centro mondiale sistemico, come Stato di classe globale.

Data la logica del capitale, era inevitabile giungere allo stadio attuale in cui una potenza egemone arriva a dominare su tutte quelle meno potenti, per quanto grandi, e ad affermare la sua pretesa esclusiva di essere lo Stato del sistema del capitale, che, nel suo processo autoespansivo,non poteva non approdare al neoliberismo.

Quest’ultimo, come ideologia, non può che manifestarsi come riproduzione del metabolismo sociale del capitale.

La sinistra “radicale”, nella sua mediocrità politica, ha sposato, al di là della retorica, l’impostazione socialdemocratica e keynesiana, ma non si è resa conto, a conferma della sua inconsistenza, che, oggi, queste formule non sono più applicabili.

Allora è chiaro che i due personaggi, da cui abbiamo cominciato, sono sì di passaporto greco e italiano, ma sono e appartengono all’iper-borghesia transnazionale di cui tutelano gli interessi a scapito degli italiani e dei greci, tutti, comprese le borghesie nazionali.

Devono rendere possibile il divenire del capitale, che è il senso del neoliberismo, tutt’altro che una crisi, e che è la realizzazione del rapporto gerarchico conflittuale che del capitale resta il principio strutturale generale. Per fare questo il principio generale deve calarsi dai livelli più alti fino ai microcosmi costitutivi nelle singole unità produttive. Da qui, la durezza contro il lavoro.

Il processo decisionale del capitale è una forma autoritaria dall’alto in basso di gestione della società e delle imprese. Da qui, l’inconsistenza delle teorie sulla “condivisione di potere” o “partecipazione” da parte del lavoro e dei lavoratori nonché dei cittadini nei processi decisionali del capitale.

Il neoliberismo, i governi che lo attuano, i partiti e i sindacati che lo sostengono, ci tolgono la vita, ci rubano il futuro.

La lotta contro il capitalismo, la cui logica è l’accumulazione del profitto, è, ancora una volta, una lotta per le condizioni concrete dell’esistenza e per un controllo sulla produzione della vita sociale.

Ma noi non saremo né passive, né complici, questa società non è riformabile. E’ necessario progettarne e costruirne un’altra.

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