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ciao mondo

Su Le otto tesi sugli intellettuali di Luperini

Ennio Abate

«Se ha perduto ogni mandato sociale e la propria tradizionale centralità, se non può più svolgere la funzione ideologica di mediazione, può trovare proprio nelle contraddizioni che sperimenta, nella propria marginalità e precarietà, una condizione rappresentativa delle altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, magistrati, la massa degli addetti al mondo della comunicazione, centinaia di migliaia di neodiplomati e neolaureati stanno diventando figure di soglia. Cominciano a sciogliersi da una situazione di sapere-potere legata esclusivamente alla storia dell’Occidente, al suo “centro” ideale e materiale, ad avvicinarsi alla periferia, a essere periferia» (Luperini).

Mi pare questo il passo centrale delle tesi di Luperini. Nelle quali sento tanta lucida amarezza e una irriducibile speranza: che sia ancora possibile una consegna del testimone dagli intellettuali tradizionali (critici, come lui e non so quanti altri, ma non troppi oggi…) agli intellettuali “nuovi”, che neppure più sembrano tali.


Di esse vorrei toccare due punti:


1. La quasi investitura che egli fa dei lavoratori della conoscenza a «specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della tradizione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza».

Mi pare, allo stato delle cose, ottimistica, un’utopia senza gambe…Perché temo che «avvicinarsi alla periferia», «essere periferia» comporta anche molti effetti negativi, perdita di strumenti conoscitivi consolidati, smarrimenti nell’esercizio delle stesse funzioni intellettuali (e soprattutto di quelle critiche, che sono le uniche che permettono di cominciare a sfuggire al dominio).

Non si capisce come da questa periferia ( in cui si ritrovano, ma sarebbe giusto dire: nella quale sono stati cacciati) i lavoratori della conoscenza si possa influire sul centro; e se si possa davvero ancora farlo…

E poi mi chiedo: che relazione esiste o può esistere ancora tra questi intellettuali periferici e almeno alcuni dei tradizionali?

A ragione Luperini ricorda che «anche la parte “alta” della cultura non controlla più i processi di sapere-potere in cui è inserita e che determinano la formazione dell’opinione pubblica». Ma così dicendo, le sue tesi corrono il rischio di assolvere gli intellettuali tradizionali dalle responsabilità che hanno avuto nel prodursi di questo mutamento storico a svantaggio – diciamolo – dei lavoratori in generale (e degli intellettuali massa o periferici).

Non è che gli intellettuali tradizionali, dalle loro posizioni comunque di maggior potere, abbiano contribuito attivamente (con il loro silenzio, con la loro connivenza o persino con una      collaborazione convinta) a diffondere «su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte vastissima del ceto intellettuale, soprattutto di quello più giovane»?

A me non pare che siano stati davvero fuori dai giochi o esclusi dai giochi che hanno determinato questo mutamento.

Se, come ricorda Luperini, «nel settore educativo il ruolo di mediazione intellettuale non è […]del tutto scomparso, ma si è ridotto e spostato, burocratizzandosi delocalizzandosi», non è il caso di capire che azione hanno svolto in questo processo? Che ne è stato del «valore etico» della loro ricerca intellettuale?

Pare proprio che questa alleanza col potere dominante (del Capitale) sia avvenuta, se Luperini stesso scrive:

«gli intellettuali e buona parte della cultura nazionale si sono agevolmente adeguati a questo nuovo clima e ai nuovi costumi. Nel ventennio 1980-2000 (e oltre), con il loro disimpegno, con la loro chiusura individualistica e corporativa, con la loro resa incondizionata ai parametri dell’industria culturale e alle “riforme” istituzionali (Università, soprattutto) proposte dal potere politico, essi hanno più o meno direttamente contribuito al clima dominante e comunque non lo hanno contrastato».


E allora non è anche questo comportamento degli intellettuali più in vista uno dei «mali che limitano e umiliano il nostro paese»? Non è che il «noi accusiamo» della nostra ingenua “paginetta” coglie nel segno? Non dovrebbero anch’essi «occuparsi del loro posto nel mondo»? Ed essere richiamati più bruscamente al cosiddetto “ritorno alla realtà”?


2. L’insufficiente collegamento nelle tesi tra analisi della trasformazione degli intellettuali e analisi della trasformazione politica (nazionale, europea e internazionale). Non che manchi l’elenco sintetico dei fatti che dimostrano il «significativo cambiamento della situazione mondiale»:

«sono sotto gli occhi di tutti le guerre, gli attentati, gli scontri di civiltà, gli sviluppi del fondamentalismo islamico, le migrazioni in Europa dei popoli affamati dal Sud e dall’Est del mondo, il rinascente razzismo che ne è derivato, la crescita della Cina e dell’India divenute vere e proprie potenze in competizione con l’Occidente, la crisi economica dell’ultimo triennio, l’instabilità del quadro produttivo e finanziario e dello stesso sistema di potere che appare sinora incapace di farvi fronte».


Ma poco si dice sugli attori reali della globalizzazione e del mutamento dei rapporti di forza che sta producendo. Quelli che comunque sono in grado di gestire le macchine del potere (nelle tesi mi sembrano accomunati in un generico Occidente) sono tutti in egual misura incapaci di «farvi fronte» (alla crisi)? Non è che qualcuno ne tragga più profitto di altri? E allora perché non discutere del ruolo che stanno avendo gli Usa? E l’Europa? E il governo Monti?

Ci si può limitare a un generico auspicio, del tipo «l’Occidente non può più rimuovere il resto del pianeta»?

L’Occidente non mi pare un blocco compatto e, tra i dominatori occidentali, alcuni pesano di più e altri meno. E poi fare le guerre, liquidare Gheddafi o adesso Assad, ecc. non sembra tanto un rimuovere, nel senso di non affrontare i problemi. Gli Usa li stanno affrontando, eccome. E bisognerebbe pur dire se bene o male e per chi bene e per chi male.

Anche quando Luperini parla del caso italiano, mi chiedo (pur se le tesi fossero state stilate prima dell’avvento del governo Monti): è possibile credere che il primato assunto dalla «produzione di linguaggio», per cui «un padrone della editoria, un signore delle comunicazioni e delle informazioni [ha] potuto conquistare il comando e mantenerlo poco meno di un ventennio quasi incontrastato», costituisca, di per sé e da solo, la sostanza di quella «egemonia capace di modificare e di determinare il senso comune di buona parte di un popolo»? La complementarità tra questa egemonia “culturale” e gli altri poteri capitalistici “tradizionali” (statali, militari) può essere trascurata? Si può lasciar perderela visione ben più realistica dell’egemonia del vecchio Gramsci, che la vedeva come il guanto di velluto che nasconde il pugno di ferro?

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