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I circuiti della ricomposizione

Verso e oltre lo sciopero del 22 marzo

di Anna Curcio e Gigi Roggero

Ripensare lo sciopero, trovare l’equivalente funzionale della forma-sindacato, costruire processi di generalizzazione. Ecco i rovelli con cui ci confrontiamo da anni, da quando cioè la nuova composizione del lavoro vivo e le trasformazioni produttive hanno reso inservibili o quasi molti degli strumenti organizzativi del passato. A fronte di tali nodi gordiani abbiamo fatto fatica ad andare al di là dell’enunciazione, magari dell’allusione simbolica, comunque a superare la semplice constatazione di ciò che non funziona più. Ancora una volta sono le lotte a indicarci forse non delle soluzioni, ma certamente delle corpose ipotesi verso cui direzionare le riposte. Così è per i blocchi e gli scioperi selvaggi dei lavoratori della logistica, in quello che ormai – per le caratteristiche comuni, per l’estensione e per la durata – possiamo definire un vero e proprio ciclo di lotte. É su questa base che è stato convocato per venerdì 22 marzo lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: non sarà un semplice evento, ma un passaggio di straordinaria importanza che si colloca dentro un processo di accumulo di conflitti e di ulteriore espansione. Prima e dopo il 22 i facchini delle cooperative che gestiscono la circolazione delle merci del centro-nord Italia non faranno straordinari, per ribadire che vogliono colpire sul serio gli interessi della controparte. Definirlo uno sciopero di settore sarebbe riduttivo e probabilmente anche fuorviante, perché è proprio la settorialità che queste lotte stanno mettendo in discussione, ponendo con forza le questioni della generalizzazione e della ricomposizione.


Rottura della frammentazione e composizione di classe

I lavoratori della logistica al centro delle lotte, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti.

Ci vuole poco a capirne i motivi: la ricattabilità a cui sono sottoposti dalla legislazione esistente li spinge ai livelli bassi della gerarchia del mercato del lavoro, quelli in cui i confini tra occupazione e lavoro nero si dissolvono completamente, i contratti sono delle formalità di cui i padroni si disfano facilmente, l’intensità dello sfruttamento non conosce regole e limiti. Nel sistema delle cooperative, modello della sinistra e principale nemico degli operai, le gerarchie del comando sono molto nette e articolate: si va dai vertici dell’impresa a una rete di caporali e spie, passando per un ordinario uso di bande mafiose che colpiscono le figure di riferimento delle lotte (auto bruciate, minacce e aggressioni, ecc.). Proprio da questa condizione estrema, però, i migranti diventano il paradigma della precarietà contemporanea, quindi dell’intera composizione del lavoro vivo.

Se a partire dal 2002 le mobilitazioni contro la legge Bossi-Fini sono state animate da un classico schema anti-razzista e solidaristico, magari necessario ma certo non sufficiente, con queste lotte sono i rapporti di sfruttamento nel loro complesso a essere attaccati, e al loro interno i processi di inclusione subordinata dei migranti. Il salto di qualità è illustrato con chiarezza da un facchino della Tnt di Piacenza proveniente dal Marocco: “i padroni mi hanno provocato una malattia: il razzismo. Ero diventato razzista contro i miei compagni di lavoro di altre nazioni, i capi dicono ai marocchini che i tunisini sono più bravi, ai tunisini dicono che sono più bravi gli egiziani o i romeni. Con la lotta contro lo sfruttamento ci siamo uniti e abbiamo sconfitto anche il razzismo. Ora sappiamo che siamo tutti uguali perché siamo dei lavoratori”. In altre parole, le lotte compongono in una cooperazione sovversiva ciò che lo sfruttamento capitalistico, dentro cui razzismo e razzializzazione sono tra i dispositivi più violenti, tenta continuamente di separare e gerarchizzare. É dal riconoscimento in una condizione comune – quella “di chi deve portare a casa il pane” – che si stanno dunque costruendo i processi di lotta e soggettivazione. Perciò il razzismo, ci dicono, si distrugge combattendo lo sfruttamento. Da questa conquista non si può tornare indietro.

D’altro canto, l’aggettivazione migrante dell’essere lavoratori è importante non solo dal punto di vista dei dispositivi di subordinazione, ma anche per le forme del conflitto. Mohamed Arafat, figura trainante nel polo della logistica piacentino, ci ha spiegato l’importanza delle “primavere arabe”: “per noi è stato come in Egitto: la rivoluzione della Tnt”. Distruggere i dispositivi di frammentazione razziale significa quindi, al contempo, creare uno spazio transnazionale di circolazione delle lotte, delle pratiche di conflitto e dell’immaginazione rivoluzionaria. Qui si forma la composizione politica del lavoro vivo globale, irriducibile ad astratta omogeneità e, proprio per questo, capace di esprimersi con linguaggi comuni.


Lo sciopero deve far male ai padroni

I lavoratori delle imprese della logistica raccontano che il loro primo contatto con il sindacato avviene per faccende prevalentemente burocratiche (permesso di soggiorno, ricongiungimenti famigliari, moduli da sbrigare). É il rapporto con un’agenzia di servizio: ancora una volta, da questa angolazione parziale si possono cogliere bene delle trasformazioni complessive della forma-sindacato. Per il resto, i confederali sono nei casi migliori assenti e nei peggiori, i più frequenti, interamente complici del padrone e del sistema delle cooperative. Se propongono uno sciopero, è rituale e simbolico: “tradizionale” viene chiamato dai lavoratori, incapace di colpire gli interessi materiali dei padroni, ha l’esclusivo fine di esporre pubblicamente le condizioni di miseria e dunque di rappresentare delle vittime private di parola e soggettività. “Questi scioperi non li facciamo, sono inutili. E non ci vengano a parlare di sciopero della fame, perché noi la fame la facciamo ogni giorno. Ora che la faccia il padrone!”. É allora dal rifiuto dello sciopero dimostrativo, e del soggetto che lo rappresenta, che la mobilitazione comincia. Anche la (apparente) passività in circostanze determinate può divenire una forma di lotta, come già ci spiegava Romano Alquati all’inizio degli anni Sessanta.

“Bisogna far male ai padroni”, ripetono i lavoratori. E lo sanno fare a partire da una precisa conoscenza del ciclo produttivo: quando colpire, dove bloccare, come farlo. Ad esempio, dopo aver scioperato in novembre, alla Coop Adriatica di Anzola (il più grande deposito dell’Emilia Romagna, centro di distribuzione per tutte le “coop rosse” della regione) la partita sembrava persa. A febbraio invece le lotte sono ripartite: sabato 23 i picchetti – cominciati come sempre ben prima che l’alba facesse capolino sulla fredda pianura padana – hanno impedito l’ingresso a decine e decine di crumiri reclutati dai caporali di altre città e regioni, da Cesena al Friuli. Ma non era ancora sufficiente: è quando si sono bloccati i camion con le merci, di fronte al profilarsi di centinaia di milioni di euro persi in prodotti da buttare e di scaffali dei supermercati vuoti,  che il padrone ha ceduto, convocando il delegato S.I. Cobas e accettando tutte le principali rivendicazioni dei lavoratori.

In questo modo i lavoratori la fanno finita con il piano puramente simbolico e rituale dello sciopero, si riappropriano dello strumento e lo rideclinano dentro e contro i processi di accumulazione capitalistica contemporanea. La produzione di immaginario smette di essere un elemento separato o peggio ancora di sostituzione rappresentativa e torna a vivere dentro la materialità delle lotte. Per agire su questo livello un sindacato serve, però non per delegare a esso la lotta o farsi rappresentare: il sindacato che i lavoratori cercano e che hanno trovato nel S.I. Cobas o nell’Adl Cobas, deve al contrario mettere la propria struttura al servizio della loro organizzazione autonoma, deve cioè prestarsi all’uso operaio. Insomma, il sindacato serve per fare le lotte, oppure non serve a niente.


Oltre lo sciopero: il nodo della ricomposizione

Il ciclo di conflitto dei lavoratori della logistica ha riportato al centro dell’agenda politica un tema che per i movimenti italiani sembrava quasi dimenticato: la vittoria. Bartolini, Ikea, Coop Adriatica, solo per citare tre tra i molti esempi di lotte che raggiungono l’obiettivo e che si stanno moltiplicando. “Prima eravamo schiavizzati, dopo la lotta è cambiato tutto”, taglia corto un lavoratore. La violenza dei livelli repressivi (ripetute cariche della polizia, denunce, fogli di via – il più recente, di tre anni da Piacenza, è stato comminato ad Aldo Milani, coordinatore nazionale del S.I. Cobas) sono tanto feroci quanto inefficaci: costituiscono la misura della paura che queste lotte hanno destato nella controparte. Le principali rivendicazioni riguardano la cancellazione dei meccanismi di ricatto delle cooperative e della discrezionalità padronale degli orari di lavoro, i ritmi, il pagamento delle festività, il salario – “vogliamo aumenti uguali per tutti”, puntualizza Milani. Il salario, dunque, torna in queste lotte a divenire questione politica, dopo un lungo periodo in cui era stato ridotto a elemento di concertazione e di scambio rispetto alla stabilità occupazionale.

Però, dicevamo, sarebbe sbagliato confinare la forza di questo ciclo di conflitto al settore della logistica. Negli ultimi mesi abbiamo visto la partecipazione di studenti, precari e militanti agli scioperi e ai picchetti, oltre all’organizzazione di iniziative comuni (si pensi a quella che prima di Natale ha bloccato il punto vendita Ikea di Bologna). Ultimamente in provincia di Bologna le controparti chiedono con un certo spavento ai lavoratori: “non è che vengono con voi gli studenti e i centri sociali?”. Tuttavia, la questione va oltre l’espressione di solidarietà tra soggetti differenti. Nelle assemblee, ad esempio, i lavoratori parlano spesso dell’università e della fondamentale importanza di una mobilitazione studentesca, non solo per una mera invocazione retorica di unità o di richiesta di sostegno ai loro picchetti (hanno infatti ampiamente dimostrato di sapersi organizzare senza grandi aiuti), ma innanzitutto perché direttamente interessati. Molti sono diplomati o laureati e hanno sperimentato sulla propria pelle la devalorizzazione della propria forza lavoro a ogni passaggio di confine. Altri, soprattutto i migranti di seconda generazione, cercano di pagarsi gli studi o ne sono emarginati dalla crescita dei costi e dalla decrescita dei livelli di reddito e welfare. D’altro canto, studenti e precari percepiscono nello sfruttamento e nei conflitti dei migranti una continuità con le proprie forme di vita (talora sono addirittura occupati dentro il medesimo perverso sistema delle cooperative). Complessivamente, nella logistica si condensa un altissimo accumulo di conoscenze e cooperazione dei saperi, che le imprese devono tenere separate per governare lo sfruttamento. É a partire dalla distruzione di questi dispositivi di segmentazione che si pone, materialmente e non ideologicamente, il nodo della ricomposizione. Le differenze qui cessano di essere strumento di frammentazione per farsi rete di una cooperazione comune.

Questo passaggio ha ovviamente bisogno di adeguati processi organizzativi, al contempo di intensificazione e generalizzazione dei conflitti: è probabilmente questa la posta in palio oltre il 22 marzo. Le assemblee di preparazione delle ultime settimane possono forse costituire dei primi embrionali luoghi comuni per affrontare e sviluppare questi processi. La scommessa è aperta, e già questo è un risultato straordinario ottenuto dalle lotte.

 

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