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Salario o reddito?

Militant

Quello che segue è un primo nostro contributo al dibattito su salario e reddito. Comprendiamo benissimo che potrebbe risultare un po’ ostico, anche per via della lunghezza, ma confidiamo nella pazienza di chi ci legge e facciamo nostre le parole di Gramsci quando ammoniva che a voler esprimere concetti difficili in maniera troppo semplice si corre solo il rischio di scadere nella demagogia.

I.

Lottare per il salario o lottare per il reddito? E’ inutile girarci attorno, queste due parole d’ordine agitate con alterne fortune dalla sinistra anticapitalista alludono a concezioni politiche, pratiche sociali e analisi teoriche che se per molti aspetti coincidono per molti altri sono invece così distanti da risultare difficilmente conciliabili, tanto da destinare al fallimento ogni tentativo ecumenico di tener dentro tutto. Insomma, come spesso accade in politica, arriva un momento in cui un’organizzazione o un movimento si trovano di fronte ad un bivio in cui o si va da una parte o si va dall’altra. Oppure, ma è la peggiore delle opzioni, si resta fermi. A voler essere onesti fino in fondo oggi come oggi la lotta per il salario, sociale e globale (ossia diretto, indiretto e differito), non gode di particolare appeal, almeno non nel campo dell’estrema sinistra o quantomeno non a queste latitudini. Se è vero che l’egemonia che un pensiero o una corrente teorica esercitano su un dato campo politico si misura anche dal vocabolario che bene o male tutti sono portati/costretti ad utilizzare, allora basta guardare agli slogan sugli striscioni e sui manifesti e far caso ai termini adoperati, spesso anche impropriamente, su volantini e documenti per rendersene conto.

E’ evidente come la parola d’ordine del reddito per tutti e tutte mostri ben altro fascino rispetto a quella del salario. Sempre nel campo della sinistra (questa volta anche un po’ meno estrema) e sempre a queste latitudini. Eppure, vista anche la nostra propensione a viaggiare in direzione ostinata e contraria, come comunisti continuiamo a ritenere centrale la lotta per il salario ritenendo invece l’idea del reddito politicamente sbagliata oltre che scientificamente evanescente. Prima di andare avanti e passare in rassegna quelli che riteniamo essere i punti deboli di questa proposta occorre però stabilire un punto di partenza sul quale crediamo che almeno nella prima parte possano convergere un po’ tutti, redditisti o meno.

Ci pare infatti di poter dire che sia opinione più o meno consapevolmente diffusa tra quanti sostengono la causa del reddito, al di la delle sue possibili declinazioni (sociale/di base/universale/di cittadinanza/ecc), considerare ormai obsoleta la teoria marxiana del valore. Detta in soldoni nell’attuale fase del Modo di Produzione Capitalista (MPC) la valorizzazione del capitale non si fonderebbe più (o non solo) sullo sfruttamento del lavoro salariato e sull’estrazione di plusvalore ma deriverebbe dalla semplice esistenza degli individui che in quanto tali verrebbero tutti indistintamente messi a valore dal capitale stesso. Prendiamo ad esempio quanto scrive Andrea Fumagalli nel suo “Lavoro male comune” uscito quest’anno per i tipi della Bruno Mondadori:

Nell’attuale contesto economico, occorre avere il coraggio di affermare che se la vita (nei suoi vari tempi, che abbiamo denominato tempo di lavoro, di opera, di ozio e di svago) viene messa a valore e produce ricchezza, allora è la vita intera che deve essere remunerata. (…) per cui il reddito di base è remunerazione del consumo quando l’atto del consumo, ad esempio tramite una fidelity card, diventa nella grande distribuzione anche produzione di informazioni, sulla base delle quali ricontrattare i rapporti di fornitura; dell’atto di cura e/o di studio e formazione quando diventa fattore di incremento della produttività delle economie di rete e di apprendimento; del semplice fatto di guardare la TV quando il nostro ascolto modifica gli indici Auditel in relazione ai quali vengono negoziati i contratti della pubblicità; della partecipazione a un evento sociale e pubblico se la nostra partecipazione incide sulla costruzione dell’immagine di chi lo organizza; del nostro esserci semplicemente muovendoci, relazionandoci, in altre parole vivendo, dal momento in cui veniamo giocoforza inseriti in un processo di valorizzazione del quale spesso non abbiamo coscienza. Si tratta dell’esito di un processo epocale di cambiamenti strutturali dei processi di produzione e organizzazione del lavoro, che hanno segnato il passaggio da un capitalismo materiale fordista a un capitalismo cognitivo finanziarizzato.

In altre parole, come abbiamo sentito più volte affermare anche da alcuni autorevoli esponenti del BIN (Basic Income Network), andrebbe definitivamente abbandonata l’idea che sia solo il lavoro salariato a produrre valore e plusvalore, tanto che la ormai vetusta formula del ciclo del capitale monetario D-M..P..M’-D’ sarebbe ormai definitivamente superata e andrebbe “contratta” nella più semplice e diretta D-D’. Ossia nella valorizzazione del capitale emancipata dalla mediazione della produzione. Ma, ci chiediamo, è davvero così? Siamo davvero entrati nell’era di quello che alcuni definiscono il biocapitalismo cognitario? Sostenere una tesi, per quanto suggestiva, di per sé non basta, occorre dimostrarla oltre che su basi concettuali anche sulla scorta di analisi empiriche e statistiche, e qui ci pare che le prime incongruenze vengano al pettine. Soprattutto alla luce di una crisi che se può essere coerentemente spiegata attraverso categorie marxiane che fanno leva sulla teoria del valore, diviene invece incomprensibile con altri strumenti.

A costo di risultare pedanti e invitando chi eventualmente si fida di noi a saltare a piè pari questo paragrafo proviamo a ribadire schematicamente ciò che abbiamo scritto più volte nel corso degli ultimi anni. Ci troviamo immersi in una crisi sistemica di sovrapproduzione che ha inceppato i normali processi di valorizzazione e accumulazione del capitale e che si trascina non dal 2007 ma da circa quaranta anni. L’origine della crisi finanziaria si trova nella sfera produttiva e l’unica prospettiva per comprenderla è quella che poggia sulla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx individuava chiaramente nell’aumento della composizione organica del capitale (c/v) una delle leggi interne del modo di produzione capitalistico. Stiamo parlando, tagliando il ragionamento con l’accetta, della crescita proporzionalmente maggiore del capitale investito in mezzi di produzione e materie prime (capitale costante, c) rispetto a quello investito in forza lavoro (capitale variabile, v) sotto la continua spinta della competizione tecnologica. Il risultato di questa legge di movimento, che in quanto tale va letta per la sua natura “tendenziale” e non in maniera schematica, è l’aumento della produttività, la propensione ad una disoccupazione strutturale (il famoso esercito industriale di riserva di cui parlava il barbone di Treviri) e la diminuzione del plusvalore incorporato nelle singole unità di output. Attenzione però, perché come spiega bene lo stesso Marx, ciò che cade è il saggio di profitto e non necessariamente la massa dei profitti, né tantomeno il capitale variabile complessivamente impiegato. Mentre il primo decresce la massa dei profitti può infatti aumentare in funzione del volume di merci prodotte e vendute, così come può crescere la quantità di forza lavoro impiegata in funzione dell’allargamento della base produttiva. Ed è proprio questo ciò che (in totale accordo con la legge) è accaduto nei decenni che vanno dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’70, periodo che ha coinciso con il dispiegamento e lo sviluppo del ciclo di accumulazione ford-taylorista.



Come mostra chiaramente il grafico (Carchedi, 2010) l’analisi empirica dell’andamento del tasso medio di profitto (ARP) da una parte e della composizione organica (C/V) del capitale dall’altra mostra chiaramente la caduta secolare del primo rispetto alla crescita di quest’ultima e ribadisce come sia solo il lavoro (e non i mezzi di produzione) a creare valore e plusvalore. All’interno del lungo ciclo che arriva dal secondo dopoguerra fino ad oggi sono poi distinguibili due cicli più brevi anche se relativamente di lungo periodo: uno che va dal 1948 al 1986 ed un altro che va dal 1987 fino ad arrivare ad oggi. Dall’immediato dopoguerra il saggio di profitto nei settori produttivi è sceso dal 22% fino ad arrivare ad un minimo del 3% nel 1986 per poi risalire fino al 14% del 2006 e cadere al 5% del 2009. Gli elementi di controtendenza che nell’ultimo ventennio hanno nascosto la crisi e permesso questo enorme recupero di profitti da parte del capitale sono stati essenzialmente l’aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro e la migrazione del capitale verso settori non produttivi come quello commerciale, finanziario e speculativo. Dunque la finanziarizzazione e l’intensificazione dell’estorsione di plusvalore assoluto e relativo che hanno caratterizzato il ciclo neoliberista non hanno causato la crisi ma ne hanno semmai rallentato, almeno per qualche anno, l’emersione.

Ci siamo soffermati su questo punto perché sostenere che la teoria del valore sia superata porta con se alcune evidenti ricadute pratico-politiche di cui non possiamo non tener conto, come ad esempio la paradossale estinzione del lavoro salariato nel quadro del sistema capitalistico a cui neanche troppo velatamente alludono alcuni autori. In ragione di questa perdita di centralità della contraddizione capitale/lavoro viene così dismessa ogni critica del MPC sulla base dei rapporti di produzione e con essa perde di forza il concetto stesso di una società divisa in classi con interessi tra loro inconciliabili per far posto all’idea postmoderna di ceto sociale, modulato quasi esclusivamente sulla base dell’accesso ai consumi. Si legga ad esempio quanto scriveva Gorz nel suo “Addio al proletariato, oltre il socialismo”:

il regno della libertà non risulterà più dai processi materiali: può essere instaurato solamente con un atto fondante di libertà che, rivendicandosi come soggettività assoluta, si autoproclama fine supremo di ciascun individuo. Solamente la non-classe dei non produttori è capace di questo atto fondante, perché solo essa incarna, allo stesso tempo, il superamento della produttività, il rifiuto dell’etica dell’accumulazione e la dissoluzione di tutte le classi.

Una delle conseguenze più significative di questo filone di pensiero, sia sul piano teorico che su quello simbolico, è stata proprio la sostituzione del proletariato in quanto classe storica con una più indefinita moltitudine (o il tanto citato 99% in salsa “occupy”) all’interno della dialettica dominati/dominanti. E non più, si badi bene, sfruttati/sfruttatori! Ma anche in questo caso ci chiediamo: è davvero così? Questa lettura delle innegabili trasformazioni del MPC e del salto di paradigma dall’accumulazione fordista a quella flessibile che ha coinciso con la globalizzazione ha poi retto l’urto della realtà? Siamo davvero diventati tutti precari cognitivi? Il lavoro salariato è diventato un fenomeno residuale destinato a scomparire? A questi interrogativi abbiamo provato a rispondere già in altra sede per cui per non farla troppo lunga rimandiamo a quel contributo chiunque voglia approfondire (qui). Aggiungiamo solo che se per una buona volta riuscissimo a liberarci da quel pregiudizio eurocentrico che ci spinge a considerarci l’ombelico del mondo e provassimo invece ad allargare lo sguardo a quanto avviene sul piano internazionale, forse ci renderemmo conto degli enormi processi di proletarizzazione che stanno investendo le aree coinvolte dalla ridislocazione dei centri manifatturieri. Potremmo così finalmente cominciare indagare la nuova composizione di classe prodotta dalla mondializzazione capitalistica, i nessi internazionali che discendono dalla catena del valore e magari provare a comprendere meglio i lineamenti dell’attuale fase imperialista e i compiti che ne conseguono.

Ma smettiamo di divagare e torniamo a noi. Come scrivevamo sopra i fatti e la loro testa dura sembrerebbero dimostrare incontrovertibilmente la validità della teoria del valore, alla luce di ciò l’idea del reddito di base incondizionato è comunque realizzabile? Ponendo la questione in altri termini: se domani mattina per una beneaugurata ipotesi riuscissimo a prendere il potere, saremmo poi in grado di realizzare quanto oggi andiamo reclamando? E in tal modo riusciremmo ad assicurare quella che Marx chiamava la riproduzione sociale? Ovvero, molto banalmente, a garantire che se fossimo costretti ad andare in un ospedale ci troveremmo dentro medici, paramedici e farmaci, che se entrassimo in un supermercato troveremmo sugli scaffali quello che cerchiamo o che fermandoci ad un distributore di benzina saremmo i grado di fare il pieno. Secondo noi a queste domande non si possono dare risposte univoche. La proposta per mantenere i crismi dell’attuabilità dovrebbe spogliarsi di quella “universalità” a cui gran parte dei suoi propugnatori sembrano tenere. Per contro se invece si volesse far prevalere questo aspetto essa finirebbe con l’assumere dei tratti alquanto utopistici. Proviamo a spiegarci meglio. Se come abbiamo cercato di dimostrare il ciclo del capitale continua a rimanere D-M…P…M-D’ (comprare per vendere) quello della semplice circolazione delle merci è M-D-M (vendere per comprare). Nel caso specifico di un proletario, la cui forza-lavoro rappresenta l’unica merce di cui dispone, egli deve vendere la suddetta merce scambiandola con il denaro (merce particolare in cambio di merce universale) per poi tornare ad acquistare le merci di cui ha bisogno per sopravvivere. Ci occorre ribadire che questo ciclo non genera nuovo valore, le merci ai due estremi sono diverse tra loro ma hanno la stessa grandezza di valore, al contrario del ciclo precedente in cui i due estremi hanno la stessa forma ma grandezze differenti. La proposta del reddito per tutti di fatto mira a bypassare la prima trasformazione M-D emancipando chi lo percepisce dalla necessità di dover vendere la propria forza lavoro. I “cittadini” potrebbero così essere messi nelle condizioni di consumare merci senza essere in alcun modo chiamati o costretti a produrle. A ben vedere questo è uno dei passaggi più avveniristici della proposta, Come affermano gli stessi sostenitori del reddito universale l’individuo verrebbe finalmente svincolato dalla coercizione al lavoro e potrebbe liberamente e volontariamente contribuire al processo di riproduzione sociale assecondando le proprie inclinazioni attraverso forme di cooperazione spontanea. Insomma attraverso il reddito si arriverebbe alla soppressione del rapporto di merce e dritti dritti al comunismo. Solo che tra il sognare l’altro mondo possibile ed il lottare concretamente per la trasformazione del presente c’è uno scarto enorme. Come ha già scritto qualcuno prima di noi il futuro si costruisce con i mattoni che si hanno e con quelli che si possono produrre in un determinato momento storici, senza scorciatoie.

Nella società in cui domina il MPC il produttore di merci produce privatamente e verifica solo a posteriori, attraverso la riuscita o meno della vendita (M-D), l’utilità sociale di ciò che ha prodotto e quindi anche l’utilità sociale del lavoro in esso cristallizzato. Il lavoro umano in esse impiegato vale solo in quanto è speso in forma utile ad altri. Ma solo il suo scambio può provare  se esso è utile ad altri e di conseguenza se il suo prodotto appaga bisogni di altre persone (Marx, Il Capitale, Libro 1) E’ dunque in ossequio a questo vincolo esterno che viene mediata la riproduzione sociale e che la classe proprietaria dei mezzi di produzione decide cosa, come e quanto produrre. In quanto capitalista io produrrò se, e solo se, avrò la ragionevole certezza che il capitale da me anticipato mi tornerà indietro aumentato di un profitto, ma il valore contenuto nelle merci che produco potrà realizzarsi solo se le merci stesse rappresenteranno dei valori d’uso per qualcuno, se saranno cioè in grado di soddisfare dei bisogni. Che poi questi bisogni siano reali o indotti, materiali o virtuali, questo poco importa. Si tratta di una forma di organizzazione della vita sicuramente incoerente e irrazionale ma che a tutt’oggi rappresenta l’unica forma plausibile per gran parte dell’umanità e lo rimarrà fin tanto che le masse non saranno in grado di “pensare” e prospettarsi come concretamente realizzabile una forma d’organizzazione più evoluta. Riconoscere la centralità del lavoro salariato nel sistema capitalistico non significa accettarne l’esistenza, al contrario, proprio dalla consapevolezza del suo essere al tempo stesso alienato e sfruttato nasce l’esigenza della liberazione del lavoro dal suo involucro capitalistico. Lo ripetiamo, liberazione del lavoro e non dal lavoro. Occorre infatti avere ben chiaro che anche in una società di transizione il vincolo di cui sopra non potrà venir meno ma sarà posto a priori mediante forme di pianificazione collettiva. Immaginare una società che sia immediatamente capace di liberarsi da tali vincoli e dominata dalla completa autoregolamentazione significa relegare la propria idea di società, ammesso che se ne abbia una, nel campo del velleitarismo.

Tutt’altra consistenza mostra invece l’idea di un reddito di base erogato esclusivamente a chi per varie ragioni non riesce a vendere la propria forza-lavoro o lo fa in maniera precaria e intermittente. Proprio la “praticabilità” di questa proposta richiede un surplus di analisi e sposta la critica da un piano economico ad uno preminentemente politico. Si tratterebbe in questo caso di un reddito non più “universale” ma “particolare”, poiché destinato ad una sola parte dei “cittadini”. Un istituto che per molti versi appare simile ad un’indennità di disoccupazione, e che nella sostanza non potrebbe che trovarci d’accordo, se non fosse che per chi lo propone dovrebbe comunque essere sganciato dalla propria disponibilità a svolgere un lavoro. In tal caso una parte più o meno estesa della società godrebbe incondizionatamente della possibilità di consumare quello che la restante parte della società sarebbe comunque chiamata a produrre, lasciando quantomeno inalterato il grado di sfruttamento e di alienazione di chi in buona sostanza dovrebbe pagare questo reddito attraverso il proprio lavoro salariato. Invece di ricomporre ciò che quotidianamente il Capitale divide, invece di mettere in discussione le forme della messa al lavoro, si correrebbe il rischio di aumentare la frammentazione del lavoro stesso sancendo un dualismo inesorabile. Questo elemento rappresenta, a nostro avviso, il limite politico maggiore di questa specifica declinazione del basic income. Aggiungiamo poi che dal punto di vista macroeconomico non si tratterebbe, né più né meno, che di una misura keynesiana di sostegno alla domanda. Una richiesta di welfare forte fatta però fuori tempo massimo. Nello specifico ciò che balza agli occhi è la scarsa comprensione o la scarsa considerazione di che cosa abbia realmente rappresentato il welfare state e di come questo fosse legato ad un paradigma produttivo e ad una fase imperialista che ci siamo lasciati ormai alle spalle.

E’ singolare che proprio chi spesso ha rimproverato ai comunisti di essere “novecenteschi” abbia di fatto ancora la testa immersa in un contesto che viene meno ogni giorno che passa. Il patto sociale socialdemocratico, che è bene ricordare ha interessato una minoranza del proletariato internazionale e per un periodo relativamente breve se rapportato alla storia del capitalismo, ha avuto come sostanziale obiettivo quello della pacificazione interna (attraverso l’innalzamento dei consumi) dei territori dei paesi Nato europei e della Repubblica federale tedesca in particolare in virtù della loro posizione geografica strategica rispetto al blocco sovietico. Un “compromesso” che non è stato frutto della generosità padronale ma che è stato strappato con un ciclo di lotte che aveva finito per mettere in discussione i rapporti di potere in alcuni paesi a capitalismo avanzato e che faceva leva tanto sul “potere associativo” quanto su quello “strutturale” della classe (Wright, 2000). Dopo il 1989  e con l’affermarsi della nuova fase imperialista tutto questo viene meno

Occorre tenere bene in conto gli elementi di discontinuità dell’imperialismo contemporaneo rispetto alla fase precedente e provare ad inquadrare i profondi cambiamenti occorsi alla struttura produttiva globale.

Già durante gli anni ‘70 e ’80 fu avviato un profondo processo di ristrutturazione economica nel cuore della metropoli imperialista. Il capitale tentò in tal modo di dare una risposta alla crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, alla crescente conflittualità operaia di alcuni paesi (tra cui l’Italia) e all’esaurimento del ciclo di accumulazione fordista. Sulla scorta dell’esempio dell’industria automobilistica giapponese si andò imponendo il paradigma  di quella che Harvey per primo ha definito “accumulazione flessibile”, con il progressivo abbandono dell’integrazione verticale a vantaggio di sottosistemi interdipendenti e di forme di approvvigionamento just in time. Mentre il toyotismo si diffondeva nei paesi del centro, anche se in forma spuria rispetto al sistema nipponico, nelle periferie veniva invece “esportato” il fordismo. Si è così assistito ad una articolata “combinazione” di varie strategie organizzative che convivono su scala nazionale e mondiale fino alla costituzione di vere e proprie filiere produttive internazionali. Questa evoluzione dell’impresa multinazionale in impresa globale ha poggiato tanto sulla rivoluzione informatica quanto su quella dei trasporti, ovvero su innovazioni di processo che hanno permesso la realizzazione di modelli produttivi a rete senza per questo pregiudicare l’unità gerarchica dell’impresa stessa.

Un salto in avanti a cui è stato dato l’approssimativo nome di globalizzazione e che ha avuto ricadute enormi sulla vita di milioni di proletari che hanno visto universalizzare al ribasso le proprie condizioni di vita. Però gli elementi di discontinuità, a nostro modo di vedere, non si limitano a questo. Nella precedente fase imperialista il ciclo della merce rimaneva tutto interno ai paesi industrializzati. Il know how tecnico e tecnologico rimaneva saldamente e gelosamente nelle loro mani e la produzione delle merci era di loro esclusiva competenza. Questo permetteva di distinguere nettamente il “dentro” dal “fuori” rispetto alla metropoli, e i profitti e le rendite che i blocchi imperialisti erano in grado di rastrellare consentivano loro di redistribuirne una parte a quote importanti di masse subalterne occidentali, legandole di fatto alle loro politiche di dominio. Lo scenario attuale racconta qualcosa di radicalmente diverso. Inseguendo i bassi salari la borghesia imperialista ha trapiantato il grosso della produzione globale proprio nelle aree geografiche dei paesi dominati, ma gli sbocchi per quelle merci sono nel mercato globale, senza protezioni per nessuno. Le ricadute sono rilevanti. In primo luogo salta la contrapposizione tipica della fase imperialista precedente (tra borghesia nazionale e frazione internazionale della borghesia imperialista) poiché il carattere internazionale dell’attuale fase imperialista lega immediatamente a se i comparti delle borghesie nazionali. In secondo luogo diventa sempre più difficile cogliere la rigida suddivisione tra primo e terzo mondo. Nelle metropoli globalizzate, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, primo e terzo mondo convivono fianco a fianco dando vita, all’interno di un territorio apparentemente comune, alla messa in forma di situazioni sociali decisamente contrapposte. Come scrivevamo poc’anzi il portato di questa trasformazione è l’estinzione di ogni possibilità, ma anche di ogni necessità da parte della borghesia, di una qualsivoglia ipotesi “socialdemocratica”. Le sorti delle masse sembrano diventare per lo più inessenziali allo sviluppo e al consolidamento della potenza dei blocchi imperialisti, e non rappresentando più un’importanza strategica rendono inutile la costruzione o il mantenimento di un patto sociale.

E qui arriviamo ad un altro elemento di novità di questa fase imperialista di cui i sostenitori del reddito non sembrano tener conto, ossia la progressiva trasformazione dello Stato Nazione da spazio deputato alla mediazione dei conflitti sociali e alla costruzione del consenso, almeno nel mondo occidentale, a macchina burocratica e militare sempre più finalizzata al controllo disciplinare e militare del “nemico interno”. Attenzione, non stiamo parlando dell’estinzione dello Stato ma della sua trasformazione in gendarme sociale. Uno Stato “scisso” che ai proletari, ai poveri e gli esclusi delle banlieue e dei quartieri marginali si presenta nelle sue vesti repressive, mentre per i ricchi e gli abitanti dei quartieri bene appare ancora come  “democratico” e capace di garantire le virtù del contratto sociale. Alcuni indicatori di questa involuzione sono sotto i nostri occhi e, che lo si voglia o meno, saremo sempre di più costretti a farci i conti: progressiva perdita di potere da parte dei parlamenti, accresciuta concentrazione del potere nelle mani degli esecutivi, semplificazione coatta del quadro partitico, tendenza alla spoliticizzazione di massa e all’individualizzazione della società, crescente predominio dei grandi oligopoli nei mezzi di comunicazione di massa e nell’industria culturale e, per ultimo, crescente trasferimento dei diritti decisionali dalla sovranità popolare verso alcune delle agenzie amministrative e politiche dell’imperialismo. Se il quadro che abbiamo appena tratteggiato si approssima alla realtà ci chiediamo quali siano oggi i rapporti di forza attraverso cui strappare il reddito per tutti o come questa parola d’ordine possa essere utilizzata per ricostruirli, ci tornano così in mente le parole con cui nel 1935 Brecht aprì il congresso internazionale degli scrittori antifascisti: Compagni, parliamo dei rapporti di produzione!


II.

In pochi mesi, quella che è stata la rivendicazione egemone e complessiva, la proposta principale dei movimenti italiani di questo ventennio, sta rapidamente perdendo terreno con una velocità paradossale. Ci saremmo aspettati molte più polemiche rispetto a una nostra presa di posizione che fino a poco tempo fa sarebbe caduta nel vuoto di un movimento completamente alieno alle dinamiche lavorative, delegate a un sindacalismo che in questi anni ha cercato di riempire il vuoto politico del discorso lavorativo attraverso improbabili (quando non dannosi) tentativi di soggettivizzazione politico-sindacale. E invece, la sostanziale condivisione che ha avuto il nostro ragionamento, espressione peraltro di un cambiamento di paradigma che si tocca con mano nelle varie assemblee e riunioni di movimento, ci induce a riflettere ancora sulla proposta del reddito di cittadinanza, sugli slittamenti semantici che questo ha prodotto, e su questo più o meno evidente cambio di linea politica.


L’Europa dei redditi garantiti e la fine dello stato sociale

La contraddizione che notiamo più vistosa in chi propone reddito universale, è l’estremo eurocentrismo della proposta, su cui torneremo. Il reddito minimo garantito è presente in quasi tutti gli altri paesi europei. Ovviamente, la realizzazione pratica di questa forma di welfare quasi mai coincide con le proposte teoriche dei redditisti, ma allo stesso tempo questa situazione dovrebbe risultare comunque un passo in avanti nella lotta di classe rispetto ai paesi senza reddito garantito. In sostanza, un paese in cui viene elargito tale reddito, anche in forma spuria rispetto alla teoria, dovrebbe costituire un luogo in cui il conflitto e il rapporto di forza della classe si situa a un gradino più elevato rispetto al nostro. Infatti, una delle motivazioni principali che portano avanti i redditisti, è quella per cui un’elargizione incondizionata di denaro negherebbe uno degli strumenti di sfruttamento, quello cioè del ricatto fra guadagnare poco o morire di fame, impedendo una spirale in discesa dei salari e aumentando il potere contrattuale dei lavoratori. Eppure tutti i paesi, nessuno escluso, nei quali viene praticata questa forma di welfare, sono tutti paesi ultracapitalisti, pacificati e in cui il conflitto di classe si situa vari gradini sotto a quello presente, ad esempio, in Italia. La realizzazione pratica della proposta redditista, dunque, dovrebbe farci stare perlomeno cauti rispetto a immaginarie ipotesi palingenetiche di tale riforma dello stato sociale. Anche perché, e forse soprattutto, laddove questo strumento è stato introdotto, questo è avvenuto non attraverso la sua conquista da parte di lotte sociali e politiche, che hanno costretto il capitale a tale forma di mediazione, ma per concessione stessa del capitale, che ha deciso autonomamente di dotarsi di questo strumento per sostenere il consumo interno. E non è un caso che in Italia gli unici a esprimersi in suo favore sono, da un lato, il Movimento 5 Stelle, e dall’altro l’ex ministro liberista Fornero e il presidente di Confindustria Squinzi, interessati a stimolare la domanda interna più che fornire degli strumenti di classe ai lavoratori.

Analizzando peraltro la situazione economica europea, come già detto molte volte in passato, stiamo andando verso la fine dello Stato quale attore economico principale, e di conseguenza verso la scomparsa di ogni ipotesi (neo)keynesiana. Lo Stato non ha più alcun interesse a integrare quote maggioritarie di popolazione nella società del benessere. Le forme di stato sociale sviluppate nel corso di un trentennio (1945-1975), volte a legare alle istituzioni e ai valori della democrazia partecipata masse popolari con lo strumento della redistribuzione dei redditi sotto varie forme, incontrano oggi un ostacolo politico. Non esistendo più alternativa concreta ad esso, il capitale non ha più necessità di convincere le popolazioni della giustezza delle sue politiche economiche, creare consenso, produrre piccole o grandi oasi di benessere sociale. In questa fase pensare ad un miglioramento dello stato sociale, a una spesa pubblica in aumento, all’irrobustimento del ruolo dello Stato nell’economia, equivale ad affermare un’astrattezza ideologica, meno realizzabile di un ipotetico sbocco rivoluzionario della situazione.


Sistema globale ed eurocentrismo

Altro punto controverso del progetto redditista, legato anch’esso all’eurocentrismo, è che questa proposta è valida unicamente in contesti di capitalismo ricco, che può permettersi una redistribuzione di risorse tale da consentire un consumo interno basato anche su un reddito slegato dalla prestazione lavorativa. Ma da dove vengono queste risorse che il centro del sistema può permettersi di redistribuire?  I redditisti (in realtà qui dovremmo dire post-operaisti, sebbene assai spesso le due condizioni si confondono) affermano che questo enorme surplus di profitti derivi dalla messa a valorizzazione di una serie di comportamenti umani ormai integrati nel processo economico. Il loro costante esempio è quello di facebook: anche da una persona comodamente seduta in poltrona a casa e navigando su qualche social network, il capitale riesce ad estrarre profitto da questo comportamento, e dunque questo profitto dovrebbe tornare indietro alla popolazione sotto forma di reddito. Tale lettura, oltre che essere a-scientifica, si poggia su un presupposto estremamente eurocentrico. L’enorme massa di profitti a disposizione degli Stati del centro capitalista deriva dalla dislocazione internazionale del lavoro, che prevede una immensa periferia industriale in cui gli Stati capitalisti hanno dislocato la propria produzione, abbattendo i costi e generando quel meccanismo di accumulazione che poi vorrebbe essere redistribuito. Insomma, senza fare alcun ragionamento teorico sull’enorme espansione globale del lavoro dipendente salariato (che è in costante aumento e in costante depauperamento, smentendo qualsiasi teoria sulla fine del lavoro, altra idiozia eurocentrica), la proposta redditista si limiterebbe a ragionare sulla fine di questo percorso, e cioè come disporre di questa massa di profitti che giunge nel centro ricco. In soldoni, il Belgio o la Germania possono permettersi importanti strumenti di sostegno al reddito proprio perché la loro produzione avviene altrove, nella periferia povera, dove le conquiste salariali sono molto di là da venire, e dove si produce per l’espansione economica dei paesi ricchi.

Insomma, ragionare in termini nazionali o regionali in un sistema economico globale e immediatamente internazionale in ogni sua fase, ci sembra non solo essere un errore strategico, ma addirittura rischierebbe di riprodurre un atteggiamento neocoloniale. Che i ricchi distribuiscano nel migliore dei modi quel profitto generato dall’immensa periferia del capitale genererebbe solo la reiterazione di questo sistema, rischiando persino di avallarlo.


Le conseguenze pratiche del Reddito Universale

La realizzazione pratica del reddito di cittadinanza sconta poi diversi problemi teorici evidentemente insormontabili. La produzione di moneta infatti è legata alla produzione di merce, che a sua volta è legata alla prestazione lavorativa. Senza tenere a mente questo processo, non si spiega la natura sostanziale del denaro, che è il corrispettivo astratto della prestazione lavorativa (che è infatti una evoluzione del corrispettivo concreto praticato nelle economie fondate sul baratto). Anche qui, torniamo all’eurocentrismo: la redistribuzione di denaro può avvenire solo se a monte c’è una prestazione lavorativa, e questa prestazione avviene concretamente nelle suddette aree del mondo dove lo sfruttamento capitalista può generarsi senza gli intoppi della lotta di classe. Nella sua forma astratta e teorica quindi questa soluzione sarebbe impraticabile. Supponendo cioè un reddito di cittadinanza universale e applicato in ogni luogo del mondo, il denaro smetterebbe semplicemente di avere un senso, e dunque il sistema troverebbe un altro strumento per remunerare la prestazione lavorativa. Se infatti tutti i cittadini avessero a disposizione del denaro senza corrispondere nulla, questo si trasformerebbe in carta priva di valore, perché non corrispondente a un qualcosa di concreto (la prestazione lavorativa), che ne sostanzia il valore. Qual è infatti la differenza tra il denaro legale e quello del monopoli? Quello del monopoli è denaro privo di valore, ma non perché illegale, ma perché non agganciato a una prestazione lavorativa (che poi è la medesima ragione per cui ogni Stato persegue i falsari: se il denaro non fosse legato ad una prestazione lavorativa, anche i soldi falsi avrebbero legittimità di circolazione, visto che sia questi che quelli della Zecca si baserebbero esclusivamente su un valore virtuale).


Contraddizioni della parola reddito

Ci sono poi una serie di rivendicazioni necessarie del movimento di classe che in questi anni hanno subìto una slittamento semantico derivato dall’egemonia della parola reddito rispetto a una terminologia più precisa ma forse giudicata più polverosa. Anzitutto, in questi anni si è andata producendo un’analisi e una pratica sulle riappropriazioni, cioè sul recupero di forme di salario indiretto a fronte della continua perdita economica dei salari reali. Ma appunto di salario indiretto si tratta, e non di reddito, e questo perché tali forme di riappropriazione non sono slegate dalle dinamiche lavorative, ma sostanziano esattamente il discorso centrale della lotta di classe, cioè quello di avvicinare il più possibile il salario dei lavoratori alla quantità effettivamente prodotta dal lavoro dipendente, riducendo al massimo i margini di profitto del capitale. Se il comunismo è la forma di vita in cui tutta la ricchezza prodotta dal lavoro ritorna al lavoratore, il livello di lotta di classe dipende da quale margine di profitto privatizzato esiste in una determinata situazione, o meglio dalla quantità di lavoro espropriata dal capitale. Più è alta, meno favorevole è il rapporto di forza dei lavoratori in una società. E’ dunque nel recupero di quel margine, che si traduce nella lotta per la compressione dei profitti, che si situa il discorso delle riappropriazioni.

Tutta una serie di servizi pagati all’origine dal salario, corrisposti sotto forma di salario indiretto, in questi anni hanno subito una supervalutazione tale da impedire a quote sempre più importanti della popolazione di accedervi. Si tratta di tutti servizi essenziali, dai trasporti alla sanità, dalla scuola alla casa, che in realtà sono garantiti dalla fiscalità, e cioè dal prelievo all’origine dei salari dei dipendenti. Lottare per il recupero di questi beni e servizi non solo è sacrosanto, ma va proprio nella direzione di aumentare il rapporto di forza dei lavoratori contro il capitale.


Conclusione

Ogni discorso riguardante il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori non può che partire dalla produzione. Il problema è infatti osservabile solo a monte, guardando come il capitale produce e riproduce se stesso, e non a valle, e cioè su come redistribuire quei margini di profitto che il capitale genera altrove, in un altrove fatto di condizioni di lavoro pre-moderne, supersfruttate e aliene a ogni dinamica sindacale, costantemente in aumento e in via di generalizzazione anche nel centro capitalista, cioè in quelle metropoli occidentali che contengono sempre più in un medesimo territorio condizioni di vita da primo e da terzo mondo. Osservare il modello produttivo porta a pensare globalmente ai problemi del sistema economico, e dunque considerare strumenti generali per contrastarlo (validi cioè in ogni contesto), mentre focalizzarsi sull’aspetto redistributivo non può che restringere l’ottica nei luoghi dove avviene questa redistribuzione, perdendo di vista il contesto generale per rinchiudersi nella propria condizione immediata, teorizzandola e dandogli un valore non provato dall’esperienza e dalle cronache quotidiane. 

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