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Anzola è il mondo?

Alcuni/e compagni/e

A proposito della lotta alla Coop Adriatica di Anzola dell’Emilia, delle lotte operaie nel settore della logistica e di molto altro ancora

A mo’ di introduzione

Il problema e la soluzione

 

Le note che seguono non hanno alcun intento normativo, né si propongono di illustrare esaustivamente il percorso, peraltro ancora in divenire, delle lotte operaie nel settore della logistica; piuttosto si vorrebbe proporre una chiave di lettura altra per inquadrare la situazione attuale delle lotte rivendicative in Italia, ed anche al di là dei confini italiani. Le lotte dei facchini della logistica hanno dato modo di sognare o, per meglio dire, di fantasticare a molti. Esse hanno permesso agli sparuti nostalgici del Gran Partito e dei ranghi compatti della classe operaia, di menare innanzi i loro sogni di ricomposizione, e hanno egualmente dato modo ad un ceto politico neo-sindacale e “movimentista” di rifarsi momentaneamente un'innocenza da tempo perduta. I primi hanno dovuto cedere alla delusione un po' ovunque. La particolarità di Anzola è che anche i secondi se la sono vista brutta. Quanto ai facchini – i famosi diretti interessati, quelli che hanno lottato per davvero e ci hanno messo la faccia e la pellaccia –, loro sono usciti dalla lotta abbastanza malridotti. Dal paragone con altre esperienze nel settore della logistica, possiamo comunque affermare che ci siano assonanze nei percorsi, nonché epiloghi simili al caso di cui trattiamo qui.

La maggior parte dei compagni che hanno steso questo documento erano presenti ai picchetti, alle assemblee, e mantengono rapporti con i lavoratori più combattivi all'interno del magazzino e con alcuni dei licenziati rimasti in Italia (essendo quasi tutti immigrati). Dunque l'esito della lotta di Anzola davvero non ci gratifica. Ma ci permette di formulare “in situazione” (e non in astratto) qualche riflessione su quella radicale impossibilità di un percorso cumulativo e progressivo di rivendicazioni, sempre più allargate ed inclusive in rapporto ai vari segmenti della classe, che a nostro avviso marca l'attuale ciclo di lotte; ci permette di parlare della centralità e soprattutto dell'illegittimità della rivendicazione salariale all’interno di quest’ultimo, precipitata dalla crisi scoppiata nel 2008; ci permette di parlare della fine del movimento operaio e dell'appartenenza di classe, che da “orgoglio proletario” è diventata semplicemente l'obbligo di guadagnarsi il pane col sudore della fronte (laddove è possibile); ci permette infine di valutare, in vitro, l'obsolescenza dei vecchi schemi del programma proletario rivoluzionario (per lo più marxista, ma non solo) e come andare oltre.

Evidentemente (ma ci preme essere chiari su questo punto) non abbiamo alcun interesse nello squalificare la lotta rivendicativa in quanto tale, magari sulla base di affermazioni sciocche come “la classe operaia non esiste più”, “non è più rivoluzionaria” etc. La lotta rivendicativa, almeno in una certa misura, fa parte del normale funzionamento del capitale (è la legge del salario). Oltre a ciò, i proletari non “partecipano” alla maniera del militante esterno che “sceglie” fra le lotte quella a cui prendere parte: essi ci sono dentro e basta. Detto questo, bisogna ben riconoscere che – se vista e vissuta con un'impostazione programmatica – la lotta rivendicativa è diventata, da ginnastica pre-rivoluzionaria, accumulazione di forze e rivelazione di un'unità essenziale della classe operaia, nient'altro che un lavoro di Sisifo in cui tutto ciò che viene momentaneamente acquisito nel corso di una lotta, viene rimesso in discussione il giorno innanzi, sia a livello del rapporto di forza fra questa o quella frazione del proletariato e del capitale che momentaneamente si affrontano, sia a livello dell'estensione che questa o quella lotta riescono momentaneamente a darsi. Tutto ciò, ben lungi dall'essere un problema di scarsa “coscienza di classe” o di debolezza, a nostro avviso fa ormai strutturalmente parte del rapporto di classe, così come è uscito dalla ristrutturazione capitalistica seguita alla crisi dei primi anni '70 (la cosiddetta crisi “del petrolio”, che segnò il tramonto del ciclo di accumulazione capitalista del Secondo dopoguerra).

Ci accorgiamo che molti compagni, di fronte a questo dato strutturale e inaggirabile, si danno rassicuranti risposte ad hoc fatte a posta per non affrontare il problema. Risposte il cui comune denominatore è una comprensione formale della lotta di classe, la quale – che si incarni nella solita denuncia delle burocrazie sindacali o dell'integrazione dei sindacati allo Stato (in vista dell'erogazione di servizi a pagamento), o piuttosto nella valorizzazione di un'autorganizzazione operaia pura quanto immaginaria non vede o non vuole vedere che il sindacalismo non è una forma ma un contenuto o, più precisamente, la forma necessaria di un contenuto, la messa in forma di ciò che il proletariato è all'interno del modo di produzione capitalistico.

Quel che ci proponiamo di fare in queste pagine, è dire semplicemente quello che potrà e quel che non potrà accadere nelle lotte rivendicative. Non si può pensare che da esse possa emergere tutto e il contrario di tutto; non si può pensare che se gli operai “lottassero per davvero” come comanda il manuale, o “avessero la giusta direzione”, otterrebbero la giornata lavorativa di 5 ore, il salario garantito per i disoccupati e magari pure le ostriche e lo champagne. Ciò che accade o non accade nelle lotte rivendicative, obbedisce sempre alle determinazioni che discendono dal rapporto e dalla storia della contraddizione fra le classi, e che si condensano in un ciclo di lotte.

Comprendere formalmente la lotta di classe è fraintendere la natura delle classi e della loro contraddizione. Le classi non sono oggetti indipendenti o semplicemente interagenti, non sono in un rapporto di esteriorità l'una rispetto all'altra, il loro rapporto è una totalità che si costituisce simultaneamente in quanto totalità e in quanto interessi antagonistici. Le classi come entità separate, come oggettività in sé del capitale (con le sue leggi di sviluppo) vis-à-vis la pura soggettività del proletariato, sono forme reificate del rapporto sociale capitalistico. L’esistenza di condizioni oggettive autonome opposte a delle condizioni soggettive presuntivamente “libere”, è un momento della riproduzione dei rapporti sociali, e non un dato naturale. Capitale finanziario e capitale produttivo, aree nazionali di accumulazione, piccolo e grande capitale, importatori ed esportatori possono avere degli interessi antagonistici e non costituire, come tali, i poli di una contraddizione. Il rapporto fra proletariato e capitale è una contraddizione in quanto: a) ciascuno dei suoi termini si riproduce riproducendo l'altro; b) ciascuno dei suoi termini esiste solo nella relazione con l'altro, il rapporto con l'altro è simultaneamente un rapporto a se stesso, una contraddizione con se stesso attraverso l'altro; c) il suo divenire è un processo in contraddizione con la propria riproduzione (è la caduta del saggio di profitto). Il proletariato non si limita affatto alla classe dei lavoratori produttivi, ma è la personificazione della situazione contraddittoria del lavoro che produce plusvalore (e dunque capitale); la condizione di “senza riserve” è sempre presupposto e risultato del processo di sfruttamento, ma non rende conto di se stessa (cfr. i mezzi “extra-economici” dell’accumulazione originaria). Non riconoscere questo, significa ridurre il rapporto di sfruttamento come contraddizione – il lavoro produttivo che produce capitale e che se lo ritrova sempre di fronte come insieme delle condizioni oggettive della propria esistenza – ad un rapporto di dominazione – o al limite ad un'opposizione semplice fra ricchezza e povertà, che non ha mai definito alcuna contraddizione storica e dunque non essere in grado di dire in cosa consista la contraddizione fra le classi e... il suo possibile superamento. Non riconoscere questo significa, in definitiva, non comprendere la crisi come crisi del rapporto fra le classi e dunque come crisi del capitale e del proletariato (ci torneremo sopra).

In tal senso, abbiamo voluto aggiungere in appendice a questo documento le Considerazioni del gruppo Chicago86 a proposito della lotta alla Granarolo di Cadriano, considerazioni belle e impossibili, nel senso che infilano una dietro l'altra riflessioni tanto “giuste” quanto astratte: anche qui il problema (e la soluzione) vengono ancora ricercati e individuati a livello delle organizzazioni sindacali (il SICobas, in questo caso) e non nell'attività dei proletari in lotta. Che poi i compagni di Chicago86 (e molti altri con loro) possano aggirare il problema a colpi di metafisica bordighista, questi sono fatti loro. Intanto il problema rimane.

 

 


Che fine hanno fatto gli operai?

 

Partiamo da una constatazione. Nel XIX secolo gli operai erano la classe pericolosa, confinata – fisicamente e politicamente – fuori dal centro della città moderna; nel corso del XX secolo essi sono diventati il partner conflittuale con il quale bisognava, malgrado tutto, trovare un accordo; alla fine del XX secolo, poi all’inizio del XXI, gli operai sono diventati degli stranieri necessari (siano immigrati o meno) invisibili alla superficie della società contemporanea. Cominciamo allora col chiederci il perché.

Sebbene in Europa, dagli anni 1970 in poi, gli operai di fabbrica propriamente detti siano notevolmente diminuiti rispetto alla totalità della popolazione attiva – principalmente a causa di delocalizzazioni e chiusure di impianti – la classe operaia costituisce ancora il “gruppo sociale” più numeroso della società. Alla suddetta diminuzione ha corrisposto infatti la crescita degli impieghi nel cosiddetto “terziario”; una buona fetta di essi rimangono, sostanzialmente ma spesso anche giuridicamente, degli impieghi operai, eseguiti da lavoratori spesso giovani, pagati al ribasso, precari o interinali, senza alcuna prospettiva professionale. Si può persino affermare che questo tipo di impiego sia ormai maggioritario fra gli operai. Tali trasformazioni fanno tutt’uno con l’esternalizzazione delle attività a debole valore aggiunto e con la proletarizzazione di certe funzioni inerenti alla cooperazione capitalistica, che in passato erano assegnate al ceto impiegatizio, ma anche – un fatto che si dimentica con troppa facilità – con una serie di riforme del sistema educativo che, svalorizzando l’apprendistato e agitando il miraggio del “tutti laureati!”, hanno reso il lavoro di fabbrica e la condizione operaia in generale, una “punizione”, ovvero una conseguenza del fallimento nel percorso scolastico. Di pari passo, sono andate generalizzandosi lo smantellamento delle tradizionali cittadelle operaie e la destabilizzazione delle vecchie comunità di lavoro portate da nuove ed inarrestabili ondate migratorie.

Non meno importante è la preponderanza assunta, sempre a partire dagli anni 1970, dalla sfera finanziaria; senza di essa, la cosiddetta “mondializzazione” non si sarebbe potuta realizzare negli stessi termini. Ne Il Capitale, Libro III, Marx scrive che, dal punto di vista del capitale finanziario, «Il processo di produzione appare solamente come un intermediario inevitabile, un male necessario per fare denaro». Poiché tutte le forme fenomeniche del plusvalore – il profitto d'impresa, la rendita e l'interesse – si originano nella produzione, per Marx il capitale produttivo d'interesse è la forma che realizza in maniera più pura l'esteriorizzazione del rapporto capitalistico, ovvero quell'apparenza socialmente necessaria entro la quale il denaro acquisisce la capacità di generare naturalmente altro denaro:

 

«[...] mentre l’interesse è unicamente una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista operante come tale estorce al lavoratore, l’interesse appare ora al contrario come il frutto vero e proprio del capitale, come il fatto originario, e il profitto appare trasformato ora, nella forma di guadagno d’imprenditore come un semplice accessorio e ingrediente che si aggiunge nel processo di riproduzione. Qui la forma di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portati a termine.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, Einaudi, Torino 1975, tomo IV, p. 541)

 

Ora, sebbene l’esistenza del capitale finanziario non dati da ieri, questa inversione storica, che lo ha sollevato al di sopra del capitale produttivo, non è senza conseguenze per la classe operaia. Nelle lagne dei sinistroidi che demonizzano gli spietati manager della finanza e glorificano l'“economia reale” dello sfruttamento, c'è questo di vero: che il lavoro, in un mondo in cui il processo di produzione ormai «appare solamente come un intermediario inevitabile», si manifesta socialmente come inessenziale. L'inessenzializzazione del lavoro non appartiene ad una fase storica particolare del modo di produzione capitalistico, essa ne attraversa tutta la storia (diminuzione del lavoro socialmente necessario rispetto al pluslavoro, aumento della composizione organica); ciò non toglie che, con la finanziarizzazione e l'affermarsi di una disoccupazione strutturale che in l'Europa non è mai scesa sotto il 6% dopo 1990, essa sia penetrata, negli ultimi 30 anni, nell'esperienza quotidiana. Se a ciò aggiungiamo il crollo delle diverse “patrie dei lavoratori” (il blocco socialista) e i mutamenti reali intervenuti nelle industrie occidentali, divenute sovente lean and mean (piccole e snelle) grazie alla “rivoluzione microelettronica”, possiamo renderci conto del perché le mani callose dell'operaio dovevano risultarne quantomeno svalorizzate.

Abbiamo qui una serie di elementi di cui possiamo intuire l'intima connessione. Sono essi ad avere determinato la “perdita di identità” che affligge gli operai, diventati stranieri per la società, dunque, ma anche a se stessi. Questo ci conduce ad un'interpretazione globale: la fine dell'identità operaia è il contenuto stesso della ristrutturazione del modo di produzione capitalistico degli anni 1970-‘80. Vediamo più in profondità in cosa è consistita.

 

 


Due parole su ristrutturazione e logistica

 

Sulla ristrutturazione si è scritto di tutto e di più, sia per esaltarla, sia per negarne l'esistenza. Si è parlato di “post-fordismo”, per dire che la classe operaia era scomparsa e che le “magnifiche sorti e progressive” erano ormai in mano ad indifferenziate “moltitudini”; oppure si è gridato al complotto e si è detto che in fin dei conti non era cambiato granché. Si sono perfino moltiplicate all'infinito le ristrutturazioni, come se il risultato finale fosse la sommatoria di tante piccole virgole spostate. A nostro avviso le cose stanno in tutt'altri termini. C'è stata una ristrutturazione integrale del rapporto fra proletariato e capitale, che ha trasformato l'uno e l'altro poiché ha trasformato il rapporto stesso. Le caratteristiche della ristrutturazione possono essere riassunte nella tendenziale eliminazione di tutte le rigidità del ciclo di accumulazione e di lotte del Secondo dopoguerra (cosiddetto fordista-keynesiano), a tutti i livelli:

nelle imprese: distruzione della struttura verticale della fabbrica, introduzione del just-in-time con il conseguente adattamento alle fluttuazioni del mercato e la riduzione degli stock, per quanto riguarda i paesi più industrializzati; trasferimento della fabbrica fordista nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” (Brasile, Messico etc.), in Cina e nel Sud-est asiatico; proliferazione di filiere internazionali tramite il subappalto e l'outsourcing;

nel rapporto fra capitale e Stato-nazione: fine dell'ancoraggio dell'accumulazione alle aree nazionali; lo sviluppo del capitale finanziario è stato il vettore di questa trasformazione, che porta con sé non solo la mondializzazione del capitale, ma anche la creazione di un
mercato mondiale della forza-lavoro, flussi migratori massivi e permanenti e la messa in concorrenza fra di loro di tutte le classi operaie del mondo; a livello dello Stato, la spesa pubblica è stata via via, drasticamente ridotta;

nella divisione internazionale del lavoro: disfacimento della struttura del ciclo mondiale del capitale suddivisa in Centro, Periferia e Blocco dell'Est come zona di accumulazione interna; la nuova divisione internazionale del lavoro è costituita da una serie di iper-centri (hi-tech e finanza), delle zone manifatturiere a composizione del capitale diversificata (blocchi industriali, maquiladoras, sweat-shops) e delle zone-discarica in cui prevale l'economia informale in ogni sua forma; tale tripartizione si riproduce in modo variabile ma a tutte le scale: mondo, continenti, Stati-nazione, fin dentro le città e le metropoli;

nel mercato del lavoro: destabilizzazione dei confini netti fra impiego e disoccupazione, lavoro e formazione (stages, riqualificazione professionale etc.), con l'introduzione della flessibilità e del precariato;

nelle istanze “sovrastrutturalidel modo di produzione capitalistico (politica, ideologia, diritto etc.): l'esistenza del proletariato non è più ratificata dalla riproduzione del capitale, ciò che si manifesta in maniera più evidente nella fine dei partiti operai: anche qui il proletariato diventa “illegittimo”;

a livello “sindacale”, ovvero della lotta di classe quotidiana
, si assiste al declino delle organizzazioni sindacali, all'attacco alla contrattazione nazionale per categorie e alla netta diminuzione del tasso di sindacalizzazione; la rivendicazione salariale non scompare, ma tende a diventare “illegittima”: gli aumenti salariali rimangono possibili a livello aziendale o locale, ma divengono asistemici a livello di categoria o nazionale;

nel rapporto fra lavoro produttivo (di plusvalore) e lavoro improduttivo: aumento esponenziale, soprattutto negli iper-centri ma non solo, degli impieghi operai non produttivi di plusvalore e legati ai cosiddetti “servizi” – ciò che fa da contraltare alla salarizzazione delle classi medie.

Dal punto di vista delle leggi oggettive del capitale – espressione reificata dei rapporti sociali – ogni ristrutturazione pone in essere una nuova combinazione di controtendenze alla caduta del saggio di profitto, e ogni crisi maggiore è la trasformazione di queste controtendenze in vettori che accelerano tale caduta. Ciò che si verifica dal punto di vista “dei soggetti” non è altro che l'altra faccia della medaglia, senza che vi sia un rapporto di causalità semplice tra il piano oggettivo e quello soggettivo: è la famosa «coincidenza del cambiamento delle circostanze e dell'attività» di cui parla Marx nelle Tesi su Feuerbach. Dal punto di vista “dei soggetti”, ogni ristrutturazione è controrivoluzione contro il ciclo di accumulazione e di lotte che l'hanno preceduta.

Per quanto concerne il precedente ciclo di accumulazione e di lotte (conclusosi alla metà degli anni 1970), a partire dal 1965 il modello fordista-keynesiano mostra le prime battute di arresto e il saggio di profitto inizia a cadere (innanzitutto negli USA); simultaneamente inizia a prodursi una lunga serie di esplosioni sociali: la rivolta di Watts nel 1965, il Maggio francese nel '68, l'Autunno Caldo italiano nel '69, i moti di Danzica e Stettino nel 1970, e molte altre, più o meno contemporanee, in Messico, Ceylon, Giappone etc. La maggior parte di queste esplosioni vengono oggi ricordate come bagatelle fra studenti e polizia, dimenticando più o meno volontariamente il loro carattere innanzitutto operaio. Si trattava inoltre della prima crisi della sussunzione reale del lavoro al capitale: una crisi, dunque, che non poteva non mettere in movimento l'intera società, diventata ormai organicamente capitalista (da qui il coinvolgimento delle classi medie). Per quanto la conflittualità non assunse mai dei caratteri “insurrezionali”, la ristrutturazione che ne seguì fu, come abbiamo visto, impietosa.

È in questo quadro – quello del capitalismo ristrutturato, ora in crisi – che va a situarsi lo sviluppo del settore della logistica, ed è a partire da esso che questo sviluppo e le lotte che ne sono seguite devono essere comprese. Segmentazione, subappalto, immigrazione, iper-flessibilità, invisibilizzazione della condizione operaia etc.: tutte queste determinazioni che si incontrano e si congiungono nella lotta dei facchini, sono determinazioni dell'attuale ciclo di lotte e il loro congiungersi, tale quale è dato oggi, sarebbe stato impensabile in un passato anche recente.

La lotta di Anzola

 

 

 

L'esordio

 

Si può periodizzare la lotta dei facchini in subappalto presso il magazzino di Coop Adriatica ad Anzola dell'Emilia, individuando tre momenti essenziali: l'inizio delle lotte nel novembre 2012, l'apice della “vittoria senza ali” di febbraio (2013), e poi l'epilogo di maggio, con il primo sciopero nazionale della logistica (22 marzo) a fare da intermezzo.

Il primo momento è quello dei 4 giorni ininterrotti di picchettaggio e blocco delle merci a novembre, caratterizzato da notevoli rivendicazioni economiche e da un'alta partecipazione dei lavoratori; lo sciopero è innescato dall’annuncio dell'ingresso nel subappalto, di una nuova cooperativa: l'Aster Coop di Udine. La prima conseguenza, per i 170 facchini del magazzino, sarebbe una drastica riduzione del salario; infatti, la nuova cooperativa intende imporre il passaggio dal CCNL del Commercio a quello dei Trasporti, nettamente peggiorativo dal punto di vista economico, e il declassamento dei lavoratori ad una categoria inferiore (il 6° livello), equiparandoli di fatto a dei neo-assunti, imponendo inoltre un periodo di prova di tre mesi, nonostante la loro esperienza pluriennale con la precedente Coop Pluriservices. Si aggiunge, a questo, la richiesta del pagamento di un'ingente quota associativa di 2500 euro per ogni lavoratore, suddivisa in un certo numero di tranche, che verrebbero trattenute dalla busta paga riducendo ulteriormente le retribuzioni. Complessivamente si parla di un taglio al salario netto mensile di circa 200 euro.

Apriamo qui una parentesi. Il colosso Coop, in Emilia, è un fenomeno che necessiterebbe di un'analisi più approfondita, considerando la sua specificità storica e territoriale, e i suoi legami con gli organismi sindacali (CGIL) e la sinistra parlamentare. In questa sede ricordiamo giusto alcuni dati:

- Coop, costituita da 9 “cooperative di consumo”, tra cui Coop Adriatica, è l’insegna leader nel mercato della grande distribuzione organizzata;

- complessivamente nel “sistema Coop” lavorano (esclusi i subappalti) 56.774 dipendenti diretti, impiegati nei punti vendita e nelle diverse sedi amministrative, di cui il 50,3% sono assunti con un contratto part-time; in particolare, Coop Adriatica impiega 8.974 lavoratori, il 94,9% dei quali, grazie alle esternalizzazioni, è assunto a tempo indeterminato;

- Coop vanta ottime relazioni sindacali, come attesta la firma unitaria del contratto della Distribuzione Cooperativa;

- nello specifico, Centrale Adriatica è il magazzino che si occupa dei rapporti con i fornitori locali nel distretto Adriatico; in Emilia, sono tre le sedi operative: Anzola, Cesena e Reggio Emilia, di cui Anzola rappresenta senz’altro quella più importante e “strategica” (a Cesena, il cambio della cooperativa subappaltatrice, che anche in questo caso ha portato con sé un peggioramento delle condizioni contrattuali e salariali, è avvenuto alcuni mesi prima dell’inizio della lotta di Anzola).

Durante i 4 giorni dello sciopero del novembre 2012, 100 facchini bloccano l’accesso dei camion impedendo che le merci vengano scaricate, e lasciano vuoti i tir in uscita. Mentre la merce in arrivo torna indietro o viene dirottata su altri magazzini, che non si uniscono alla lotta di Anzola (dove d’altronde i lavoratori non fanno alcuno sforzo per mettersi in comunicazione con i loro omologhi di Cesena e Reggio Emilia), negli scaffali dei supermercati iniziano a mancare alcuni prodotti, fatto imbarazzante che l'azienda giustifica con lo “sciopero immotivato di alcuni lavoratori”. Nonostante l'innegabile efficacia dello sciopero e del picchetto, va detto che non tutti i facchini vi partecipano, giacché una parte di essi, assunta direttamente dall'azienda senza la mediazione di cooperative esterne, e sottoposta quindi ad un regime retributivo migliore e ad un trattamento differenziato, non aderisce alla lotta nemmeno in solidarietà con i colleghi.

La reazione padronale allo sciopero è inizialmente improntata all’attendismo: ai piani alti di Centrale Adriatica si prende tempo nella speranza che la lotta si esaurisca da sé. Ma all’alba del quarto giorno il picchetto viene spazzato via dall’intervento – bisogna dirlo, piuttosto soft – della polizia, dopo un blando tentativo di resistenza da parte dei facchini e dei “solidali” che li sostengono (tentativo durante il quale si assiste ad un caotico succedersi di iniziative estemporanee – più o meno individuali – volte a procrastinare il più possibile ciò che, dati i rapporti di forza, era inevitabile: la rimozione del blocco merci).

Al termine della giornata, nel corso dell'assemblea pubblica che si tiene nel piazzale antistante il magazzino, mentre una parte dei facchini si accorda per la continuazione dello sciopero, rifiutando di firmare ogni accordo, l'altra parte, composta dai delegati e da una parte degli iscritti al SICobas (il sindacato “di base” al quale i facchini hanno aderito “in massa” nei giorni immediatamente precedenti l’inizio dello sciopero, e che ha fornito loro una qualche “copertura”) preme per l'interruzione del picchetto, asserendo la necessità di “resistere dall'interno ai licenziamenti” che inevitabilmente sarebbero arrivati.

Alla fine lo sciopero viene revocato e il nuovo contratto è firmato da tutti i lavoratori, col beneplacito del SICobas. La motivazione addotta dal sindacato è “la necessità di salvare tutti i posti di lavoro continuando la lotta dall'interno del magazzino”, al fine di ipotecare (almeno in teoria) il rinnovo dei contratti a tempo determinato, in scadenza il 30 aprile 2013, e di eliminare sul lungo periodo l'articolo 8 dello statuto della Aster Coop riguardante il periodo di prova (notare la discrepanza con le rivendicazioni iniziali, per lo più incentrate sulla difesa del salario). Ciliegina sulla torta, i facchini si vedono ridotta anche la possibilità di accedere agli “ammortizzatori sociali”: in caso di licenziamento o di mancato superamento del “periodo di prova”, l'erogazione del sussidio di disoccupazione sarà infatti calcolata sulla base del nuovo contratto.

Con buona pace dell' “uniti si vince” che spadroneggia nel verbalismo del SICobas e di tutti i militanti politici accorsi al picchetto, ciò che emerge in maniera evidente, in questa fase, è il sentimento di estraneità dei lavoratori rispetto alla loro stessa assemblea, come se quest’ultima rappresentasse un'unità autonomizzata al di sopra di essi. A fronte di questa unità puramente ideale, i lavoratori riproducono, anche nei momenti cruciali, le divisioni interne, i piccoli gruppi contrapposti su base etnica e, in misura minore, la contrapposizione tra i facchini con contratto a termine – che rivendicano un contratto a tempo indeterminato – e gli interessi dei soci-lavoratori, a cui principalmente preme non tanto di salvare i colleghi dal licenziamento, quanto di salvare il prezzo della propria forza-lavoro dal pericolo di un ribasso. C'è, fra l'eterogenea schiera di “militanti di professione” accorsi per l'occasione e i facchini, un’incolmabile distanza; questi ultimi sembrano lasciare ai primi i momenti decisionali, come se non fossero affatto interessati ad avere voce in capitolo. L'unità tutta ideale che si riassume nella delega al SICobas, fa assumere a quest'ultima l'aspetto non di una vera e propria delega sindacale, ma più che altro di un delega “assistenziale”: i lavoratori, divisi fra loro, ricattabili a causa dei permessi di soggiorno legalmente subordinati ai contratti di lavoro, mettono nelle mani del SICobas una delega che è quella del malato di fronte al dottore: «curami tu!».

 

 


La “vittoria senza ali” di febbraio

 

Il 21 febbraio 2013 vengono licenziati 3 facchini – già declassati a “soci in prova” in seguito alla firma del nuovo contratto – in quanto Aster Coop li ritiene incontrovertibilmente non idonei a ricoprire le loro mansioni. La risposta dei lavoratori sono tre giornate di blocchi, che si concluderanno con una inaspettata “marcia indietro” da parte di Aster Coop: in un comunicato di appena sei righe, la cooperativa si impegna a riassumere i tre lavoratori licenziati e a confermare l’assunzione di tutti i facchini ancora “in prova”. Le sei righe vengono lette ai lavoratori da un sindacalista del SICobas fuori dai cancelli, dove si tiene il picchetto, e il raggiungimento di queste rivendicazioni minime diventa motivo di festa, celebrato unanimemente come una vittoria.

Facciamo un passo indietro. Dopo l'effettiva assunzione da parte di Aster Coop della gestione del magazzino di Centrale Adriatica, il 1 dicembre 2012, i lavoratori hanno attuato forme di lotta quali lo “sciopero degli straordinari” e l'autoriduzione dei carichi di lavoro (passando da una media di 60 colli orari per lavoratore, scaricati e ridirezionati o sistemati all’interno del magazzino, a 20 colli circa), rifiutando di recuperare nel fine settimana la produzione perduta. Queste forme di “resistenza operaia”, che già avevano annunciato lo sciopero di novembre, continuano anche dopo la “vittoria” di febbraio ed espongono Aster Coop al rischio di dover pagare pesanti penali a Coop Adriatica, qualora quest’ultima ne rimanga danneggiata.

Il risvolto di queste pratiche si manifesta sul lungo periodo: il già abbastanza smagrito salario dei lavoratori (cfr. supra) viene ulteriormente ridotto dagli scioperi; l'immediato impoverimento dei facchini li conduce ad un'estrema ricattabilità, portando alcuni di essi ad accettare individualmente gli straordinari del sabato o a prolungare l’orario di lavoro su “richiesta-ricatto” dei capi reparto. Questo va a vanificare, almeno parzialmente, l’autoriduzione dei ritmi e scatena la conflittualità tra i diversi gruppi di salariati. Anche il nucleo di lavoratori più coeso e combattivo va così ineluttabilmente disgregandosi.

Sebbene molti facchini continuino a discutere durante le pause sul da farsi, sebbene il SICobas porti avanti le trattative per farsi riconoscere come legittimo interlocutore sindacale dalla controparte padronale (avendo raggiunto un apice rappresentativo di 99 tesserati), la situazione continua a deteriorarsi. Il numero dei lavoratori che presenziano al picchetto dello sciopero di marzo, è già visibilmente più ristretto rispetto alle occasioni precedenti; molti facchini in sciopero, anziché presidiare i cancelli dello stabilimento, preferiscono aderire “da casa”, oppure sostano nei locali del bar antistante la sede di Centrale Adriatica, rifiutando persino di intervenire alle assemblee che si tengono nel piazzale davanti al magazzino.

 

 


L'epilogo di maggio

 

Alla fine di aprile, 16 tra i facchini più determinati vengono sospesi dall'Aster Coop: tutti aderenti al SICobas, saranno poi raggiunti da pretestuose lettere di “licenziamento per giusta causa” sulla base di richiami per furto; sei di questi, per “rallentamento volontario della produzione”, per insubordinazione verso i superiori e altre contestazioni; vengono messi sul conto anche il comico episodio di un lavoratore che apostrofa “zibbì” (“pene”, in dialetto tunisino) un responsabile della cooperativa, e accuse di sessismo verso alcune colleghe del CIC (cioè direttamente assunte da Coop Adriatica).

I facchini decidono di indire uno sciopero per il 2 maggio. Oltre ai licenziamenti, i lavoratori si oppongono all'intensificazione dei ritmi di lavoro, alla riduzione delle pause, e in generale al deterioramento delle condizioni di lavoro all’interno del magazzino (vessazioni e minacce da parte dei “capi” etc.); a queste, già particolarmente dure, si aggiunge la ventilata introduzione di una tecnologia auricolare di dettatura dei codici delle merci da scaricare e/o ordinare nel magazzino, che ridurrebbe la sicurezza sul lavoro, sopratutto per i carrellisti, mettendo inoltre a rischio il posto di lavoro di molti facchini, per lo più stranieri, i quali troverebbero difficoltà a lavorare sotto dettatura in lingua italiana. In definitiva, se guardiamo alla vicenda dei facchini di Anzola nel suo complesso, ci troviamo di fronte, qui come altrove, ad un'intensificazione dello sfruttamento e ad una forte precarizzazione del lavoro, cui si accompagna un violento attacco al salario. È questa, essenzialmente, la molla che fa scattare gli scioperi.

La giornata del 2 maggio si rivelerà decisiva in ragione di due eventi:

- l'intervento della polizia, che prende le generalità dei lavoratori in un “fuggi fuggi” generale. L'assemblea che segue davanti ai cancelli, è dominata da due posizioni radicalmente contrapposte: da un lato, c’è chi vuole interrompere lo sciopero momentaneamente, per riprenderlo immediatamente il giorno seguente, con un intenso blocco merci, qualora le sospensioni dei “16” si trasformassero in licenziamenti, e denunciando all'ispettorato del lavoro le falle normative esistenti in Coop Adriatica; dall'altra, si sostiene che ci si debba ri-concentrare davanti all’entrata del magazzino a partire dall’alba del giorno successivo, per decidere, con i licenziati, la eventuale continuazione dello sciopero. Al termine dell’assemblea, invero poco partecipata, prevale la seconda linea.

- Al mattino seguente i lavoratori presenti sono poco numerosi, e a dubitare dell’opportunità di proseguire lo sciopero sono in molti; ma la linea sindacale e dei militanti è chiara: nessuno deve entrare. Le perplessità dei lavoratori sono grandi, ma si tira avanti per una sorta di gratitudine nei confronti dei “solidali” (militanti politici e qualche iscritto al SICobas proveniente dai magazzini SDA, Bartolini e TNT del bolognese); la mattinata trascorre tesa fino alle 10, quando il delegato sindacale finalmente intima ai lavoratori di entrare: non si aspetta nemmeno l’inizio del turno del pomeriggio!

Il fallimento dello sciopero del 3 maggio segna, almeno temporaneamente, la fine della lotta dei facchini di Anzola. Dopo questo epilogo, una parte dei licenziati è dovuta tornare nel paese di origine, in attesa di un processo per un poco probabile reintegro. Intanto, il sindacato conta ormai di agire soltanto attraverso le vie legali, non potendo più contare sui lavoratori, gran parte dei quali ha rispedito al mittente la tessera SICobas e ha interrotto ogni forma di lotta e resistenza all'interno del magazzino. In un solo mese, il lavoro è ripreso ad un ritmo ancora più duro – adesso si raggiungono i 90 colli medi all’ora – e si erogano straordinari tutti i sabati. Di fatto, ai 16 licenziamenti si aggiungono i 30 contratti a termine non confermati ad aprile e, come si è visto, la diminuzione del salario e il peggioramento delle condizioni di lavoro all'interno del magazzino.

Tale è la situazione attuale anche alla Granarolo di Cadriano: in seguito ad un accordo sindacale sottoscritto anche dal SICobas (cfr. Appendice I), dei 51 licenziati per aver rilasciato dichiarazioni “lesive dell’immagine dell’azienda” durante la lotta dei mesi scorsi, 23 andranno a lavorare in altri magazzini (e non a Granarolo, come avevano chiesto), 18 non hanno ottenuto alcuna ricollocazione e si trovano in cassa integrazione dal luglio 2013, e 10 sono già agli sgoccioli del precedente periodo di CIG. Motivo del contendere e causa scatenante degli scioperi, in questo caso, è stata una trattenuta sulla busta paga del 35%, che ha abbassato gli stipendi portandoli in media attorno ai 700 euro mensili. La voce sul cedolino recita: “Trattenuta per stato di crisi 2012-2015”. La trattenuta continuerà a gravare sul salario dei facchini per almeno altri tre anni. Nel momento in cui scriviamo (ottobre 2013), l’accordo sindacale cui abbiamo fatto cenno è ancora lettera morta e i blocchi sono ripresi.

 

 


Il SICobas

 

La comprensione del successo del sindacato SICobas come espressione e portavoce del movimento dei facchini nel Nord Italia e non solo, risulta problematica se non si tiene conto della dimensione ideale cui si faceva cenno più in alto: la portata reale della sua azione risulta, a ben vedere, assai modesta.

Riportiamo di seguito alcuni brani delle considerazioni scritte “a caldo” da uno di noi, poco dopo l’epilogo della lotta, accompagnati da qualche commento.

 

«Ad Anzola, nel corso degli scioperi di novembre, con un picchetto prolungatosi per tre giorni e tre notti, il SICobas non ha fornito ai facchini di Anzola alcun sostegno. Non soltanto esso non mobilitò i lavoratori di altri siti, nemmeno a livello territoriale, malgrado all'epoca contasse già diverse centinaia di iscritti a Bologna e provincia (ad Anzola se ne fecero vivi sì e no una decina); ma dopo avere latitato per tre giorni, inviò un suo rappresentante […] per convincere i lavoratori ad ammorbidire il blocco e a rinunciare alla loro principale rivendicazione: il mantenimento del CCNL del Commercio. Naturalmente il pretesto era che ci avrebbe pensato il sindacato, nel corso della trattativa con l'azienda – che sarebbe certamente iniziata di lì a poco – a salvaguardare malgrado tutto i livelli salariali, con tanto di “una tantum”, “super minimi” e altri meccanismi di recupero del salario. Mentre nel frattempo il sindacalista si era fatto di nebbia, poche ore dopo il picchetto fu sgomberato dalla polizia. E di trattativa, superminimi, mantenimento dei livelli salariali non si parlò più.

«Nel corso dei mesi, il blocco ad oltranza degli esordi si è trasformato in una serie di picchettaggi di poche ore, con rivendicazioni sempre più minimali e una partecipazione vieppiù risicata, mentre le divisioni e gli attriti tra i lavoratori si moltiplicavano.»

 

Scoperta dell'acqua calda: non tutti sono disposti a scatenare una guerra per affermare un pugno di rivendicazioni modeste, senza avere la minima garanzia che queste saranno accettate. L'illegittimità della rivendicazione salariale è anche questo.

 

«Marzo, sciopero nazionale della logistica: davanti ai cancelli di Coop Adriatica non siamo tanti, ma malgrado le pressioni della polizia, che evidentemente ha ricevuto indicazioni ben precise e non vuole calcare la mano, il picchetto tiene. Nel primissimo pomeriggio la polizia lascia libero il campo e si sposta davanti alla vicina Unilog [un’altra azienda del settore della logistica, ndr], dove è in corso un altro picchetto. Ci spostiamo anche noi “in massa”, per dare man forte ai facchini di Unilog.

«Di lì a poco arrivano un centinaio tra lavoratori e militanti, provenienti dal blocco dell'Interporto di Bologna. L'atmosfera cambia all'improvviso. È pomeriggio inoltrato, ormai i picchettaggi hanno sortito il loro effetto (le consegne ai negozi sono saltate). Ma la pressione della polizia inizia a farsi più forte e insistente. La scelta più intelligente sarebbe quella di rimuovere il picchetto, riunirsi in assemblea e – why not? – darsi appuntamento al giorno seguente per riprendere la lotta. E invece no! Lo spettacolo vuole la sua parte, e soprattutto la loro parte la vogliono gli attivisti “post-autonomi” di Crash, col quale il SICobas ha ormai stretto un patto di ferro. Si sa, l'alfa e l'omega della “strategia politica” di questi divi e dive da centro sociale, è la visibilità mediatica. The show must go on! Ed ecco allora il solito tafferuglio – molto teatrale – con la polizia sulla via Emilia, il fuggi fuggi generale nei campi e lungo la strada. Ma, fosse o meno concordata con la “controparte”, come insinuano i maligni, questa bella trovata non poteva non sortire pesanti effetti sul morale dei lavoratori. In effetti, per quel che riguarda Coop Adriatica, lo sciopero di marzo ha rappresentato il canto del cigno. […]

«Aggiungiamo che 16 facchini, in seguito alle lotte dei mesi scorsi, sono stati licenziati in tronco. Evidentemente, però, “i 16” di Anzola non valgono “i 51” di Cadriano. Tant'è che non solo il SICobas non ha organizzato alcuna mobilitazione a loro sostegno, ma fino a poco tempo fa questi lavoratori non avevano ancora visto nemmeno un euro della tanto decantata “cassa di resistenza” del sindacato. Come si può immaginare, la loro situazione economica è tutt'altro che rosea.»

 

Sgomberiamo subito il campo da tutti gli accomodamenti teorici del caso: se le lotte falliscono, se i proletari perdono in combattività, la ragione non è da imputare all'opportunismo delle organizzazioni, al tradimento o agli errori dei “capi”, alle mistificazioni dell'ideologia dominante, alla mancanza di “coscienza” etc.; a ben vedere, certe pratiche, anche quando si condensano e trovano la loro massima espressione nell'attività di un sindacato come il SICobas o in quella di un gruppuscolo di attivisti “telegenici” come Crash, sono condivise – o subite passivamente, il che è lo stesso – dalla maggioranza dei lavoratori in lotta. L'invisibilizzazione della condizione operaia e, all'interno di essa, l'aspirazione degli immigrati di prima o seconda generazione a diventare “come gli altri”, cioè a diventare dei “lavoratori normali”, allorché è precisamente la nozione di “lavoratore normale” che va scomparendo, fa si che per questi proletari sia anche questione di avere risonanza su televisione e giornali, di “inscenare una protesta” se necessario. Non bisogna mai dimenticare che anche per la classe operaia – quale che sia la prossimità di questo o quel segmento di classe al “segreto laboratorio” della produzione del plusvalore – i rapporti di produzione sono rivestiti dai rapporti di distribuzione.

 

«La forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito. Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo. Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come non retribuito. Nel lavoro salariato all'incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l'operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Einaudi, Torino 1975, tomo I, pp. 660-661).

 

Sulla base della lotta rivendicativa, in quanto lotta sul salario, nulla turba il corso del feticismo del capitale: il salario paga il “giusto” prezzo del lavoro, il profitto paga l’investimento del padrone. Se il prezzo del lavoro è troppo basso, allora è un'“ingiustizia”, non diversamente dalla condizione di ricattabilità legata al rinnovo del permesso di soggiorno. In tal senso, è assolutamente normale che la lotta sul salario possa fare tutt'uno con rivendicazioni sui diritti di cittadinanza, concepiti in senso quasi naturalistico:

 

«La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro, era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell'uomo.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., p. 212)

 

La multiforme area del democratismo radicale (centri sociali, decrescita, protesta e controvertici anti-globalizzazione, Tobin tax, economia solidale, reddito garantito e diritto di cittadinanza) che, nel corso degli anni '90, si è costituita come sostituto e parodia del defunto movimento operaio, non era il “recupero” o la “deviazione” di qualcosa che avrebbe potuto prendere un'altra direzione: era una messa in forma politica che si costruiva direttamente sui limiti della lotta di classe, sui limiti della rivendicazione. Il declino attuale del democratismo radicale è l’espressione dei cambiamenti sopravvenuti in questi limiti: la rivendicazione è diventata globalmente illegittima, essa non è più quello che era in passato.

Rivendicazione salariale, comunizzazione, comunismo

 

 

 

La segmentazione oggi e domani

 

La fase attuale, apertasi con la crisi dei mutui subprime del 2008 e con le sommosse dello stesso anno in Grecia, è una prima fase di crisi, a cui il capitale ristrutturato risponde “spingendo il piede sull’acceleratore”, cioè rafforzando gli assi della ristrutturazione che avevano fatto la sua forza fino all'altro ieri: nonostante i bei discorsi sul “controllo” della finanza, la svalorizzazione del capitale finanziario viene costantemente rimandata e la speculazione è ripartita di buona lena; dall’altro lato, si approfondiscono la precarizzazione e la compressione salariale, ad esempio nella forma delle misure di austerità che vengono varate un po’ ovunque in Occidente. Il sottoconsumo – l’“innesco” della crisi del 2008, quando tutta la stabilità del sistema finanziario si trovò sulle spalle degli “investitori” più deboli – si approfondisce giacché si approfondiscono le sue cause immediate.

 

«La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive a un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumi assoluta della società.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 569).

 

Nella misura in cui il rafforzamento di questi assi fallisce nel ristabilire il saggio di profitto, esso conduce l’attuale ciclo di accumulazione e di lotte a maturazione. Ma nella misura in cui questo rafforzamento si ricalca sui tratti della ristrutturazione degli anni 1970-‘80, non ci saranno flashback né ritorni all’indietro. Così come avviene molto chiaramente in Cina e Bangladesh, dove non si dà alcun passaggio dalle innumerevoli lotte a carattere locale ad un grande movimento operaio organizzato, nemmeno in Europa o negli USA vedremo ricostituirsi i ranghi compatti della classe operaia, ma, al contrario, assisteremo all’approfondirsi della consistenza molecolare di lotte operaie sparpagliate e disunite, il cui “rovescio” sono le recenti sollevazioni interclassiste (Primavere Arabe, Occupy, Turchia, Brasile). Per quanto possa aumentare in estensione e intensità, sulla base della rivendicazione non potrà esserci che questo moto browniano, questo movimento disordinato di particelle, foss’anche ricoperto dell’unità ideale di una qualche rappresentanza sindacale o politica.

Viceversa, un po' dappertutto nella vecchia Europa, il sindacalismo “di base”, “autonomo”, “conflittuale”, così come alcune spopolate assemblee di “lavoratori autorganizzati” (in realtà composte al 99% da militanti ultrasinistri) vorrebbero far marciare le lancette dell’orologio all’indietro. Nel mercato del lavoro precarizzato e segmentato dei nostri tempi, nella crisi presente del modo di produzione capitalistico, questo sindacalismo autoprodotto può riscuotere qui e là un certo successo, soprattutto in occasione di lotte settoriali o locali. Ma c’è di che interrogarsi sulla natura e sulla tenuta di questo successo, allorché i suoi artefici sono generalmente le frazioni più anziane e “protette” della classe operaia, che resistono disperatamente alla propria liquidazione, e quelle più “fresche” – costituite da giovani e immigrati – che tentano di crearsi dei margini di rivendicazione che sono già bruciati in partenza. Da qui un’altrettanto effimera efficacia, più che altro ideologica: nell’uno come nell’altro caso si tratta di far vivere o rivivere l’identità operaia che fu e il sogno dell’unità essenziale del proletariato... finché la realtà non viene a bussare alla porta. Di più: la rivendicazione in quanto tale viene sempre più destabilizzata nel corso stesso delle lotte, cosicché le forme di organizzazione che esprime si trovano ben presto a mal partito, contestate o abbandonate a se stesse. L'esito e il contenuto della lotta di Anzola, analoga ad altre nel settore della logistica, ci mostrano in vitro questa dinamica, così diversa da quello che “il manuale” prescriveva: passettino dopo passettino, dall'impresa al settore, su su fino all'inter-categoriale, si sarebbe dovuti giungere alla grande riscossa della classe operaia; ma ad Anzola abbiamo visto quel che ogni delegato o lavoratore combattivo in fondo sa, e cioè che persino a livello del singolo stabilimento, raggiungere l'unità dei lavoratori in lotta è già una mission impossible.

Ripetiamolo ancora una volta: tutto questo non succede per caso. L'unità del proletariato è immanente alle sue divisioni: la concorrenza tra i lavoratori non è qualcosa che potrebbe esistere come non esistere, è qualcosa che definisce la loro stessa condizione, la condizione di dover vendere la propria forza-lavoro per vivere. Il vecchio Marx non disse cose molto diverse. Si prendano per esempio i passaggi de Il Capitale sull'esercito industriale di riserva, o quelli di Lavoro salariato e capitale sulla pauperizzazione assoluta: come mai l'aumento della disoccupazione porta con sé, con l'implacabilità di una ferrea legge, un abbassamento del livello salariale degli occupati, se non in ragione della concorrenza sempre presente fra i proletari (occupati e non) poiché definitoria della loro condizione? E da qui un’altra domanda: perché fu proprio Marx ad affidare le proprie speranze rivoluzionarie alla crisi del modo di produzione capitalistico, se è precisamente con la crisi che la concorrenza e le divisioni fra i lavoratori non solo permangono intatte, ma tendono ad aumentare. Aggiungiamo che, nel capitalismo ristrutturato, si tratta di una concorrenza di tipo nuovo, una concorrenza perpetua, costantemente in movimento, che determina il flusso di entrata e di uscita dal processo di produzione e riproduzione proprio in termini di flusso.

Moltiplicazione delle forme contrattuali, part-time imposto, “azionariato operaio”, orari individualizzati e chi più ne ha più ne metta: è tutto l’infinito armamentario messo in campo dalla ristrutturazione. Ma le divisioni non sono semplicemente “imposte”: non c’è origine piena, il proletario non è il selvaggio di Rousseau, buono per natura ma pervertito dalla civiltà. Nel mondo del capitale, la scissione del territorio in città e campagna, l’urbanistica e l’architettura, l’organizzazione dei trasporti, la forma del processo di produzione, tutto esiste in una forma adeguata al capitale e dunque all’esistenza della forza-lavoro come merce. Quale irenismo nel pensare che siano proprio i portatori di forza-lavoro a poter fare eccezione! Se nelle lotte rivendicative i proletari ritrovano sempre e comunque tutte le divisioni che sono loro inerenti, è semplicemente perché la lotta di classe non è magica.

Interroghiamoci inoltre sulla natura della segmentazione che ne deriva. Le divisioni etniche, religiose, di nazionalità, di genere (sesso sociale) etc., le condizioni reali e concrete attraverso cui una certa frazione del proletariato si forma ed esiste in una data fase storica, in una data zona geografica, sono forse delle semplici rappresentazioni illusorie, un semplice rumore di fondo che turba la quiete pura e angelica dell'unità della classe? Sono forse delle scorie del passato, che sopravvivono a causa di uno sviluppo capitalistico incompleto? Siamo proprio certi che più c'è capitale e più la situazione sarà “pura”? Eppure vediamo bene che non è così, che questa concezione teleologica della storia falsa tutto e non spiega niente; vediamo bene che il capitale è tanto capace di omologare quanto di creare e riprodurre nuove differenze. Il capitale non riduce tutto alla determinazione economica, cosi come non realizza l'individuo astratto, cosi come il lavoro morto non si sbarazza mai definitivamente del lavoro vivo. La determinazione economica che fa l'unità (e anche la divisione, come abbiamo visto...) del proletariato, non può esistere senza designare altre istanze del modo di produzione: religione, politica, ideologia etc. La contraddizione è surdeterminata, cioè “troppo” determinata, perché ha una storia.

 

«Bisogna allora andare fino in fondo e dire che questa surdeterminazione non dipende da situazioni apparentemente straordinarie o aberranti della storia [...] ma è universale; che mai la dialettica economica opera allo stato puro, che mai nella storia si vedono quelle istanze che sono le sovrastrutture ecc., farsi ri-spettosamente da parte, quando hanno fatto la loro opera o dissolversi come puro fenomeno per lasciare che avanzi sulla strada regale della dialettica sua maestà l'Economia perché i Tempi sarebbero venuti. L'ora solitaria dell' “ultima istanza” non suona mai, né al primo momento né all'ultimo.» (Louis Althusser, Contraddizione e surdeterminazione, in Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 93)

 

Soltanto un esempio: l’“incidente di Piacenza” del 14 settembre 2013 – quando alcuni facchini immigrati, tesserati del SICobas, che partecipavano alla manifestazione contro il colpo di Stato ai danni del governo Morsi in Egitto, sono “venuti a contatto” con altri facchini, anch’essi iscritti al SICobas, ma sostenitori del “golpe” militare – dovrebbe fare riflettere in proposito. La lettura che ne dà Carlo Di Caro, redattore di “Rotta Comunista” (in Crisi e rivendicazioni operaie 3. Lavorare meno, lavorare tutti, reperibile sul web) è sorprendente: «I due schieramenti sarebbero anche potuti venire alle mani, [...] se la costituenda “coalizione operaia” non li avesse unificati al di là dell’oggettivo scindersi in due schieramenti politico-ideologici, mero riflesso di quanto accaduto in Egitto». A questo signore, andrebbe forse fatto presente che una guerra civile nel paese di origine non è, per un immigrato, un mero riflesso, ma una cosa ben concreta, non foss’altro che per il pericolo in cui versano le vite di eventuali amici e familiari. La cosa sfugge al teologo Di Caro, per il quale i proletari non possono che essere delle anime celesti provvisoriamente rivestite di carne e di rapporti sociali, ma fatalmente destinate ad abbandonare queste vili spoglie piene di peccato per accedere al paradiso socialista. Non a caso il testo in questione è pervaso dalla convinzione che il dissolversi della «apparenza reale, resa socialmente concreta» (Di Caro dixit) del salario come prezzo del lavoro, sarebbe possibile all’interno della lotta salariale stessa, ciò che ci ricorda la favola del barone di Munchhausen, il quale cercava di sollevarsi dallo stagno dove era caduto tirandosi su per i capelli.

 

 


I proletari non vogliono restare ciò che sono

 

La crisi odierna è una crisi del rapporto fra proletariato e capitale, quindi una crisi del rapporto salariale che non lascia sussistere nessuno dei suoi termini tale qual era. Nella situazione dei facchini, che è la situazione di una parte crescente della classe operaia – precarizzata, costretta al lavoro da un'organizzazione sempre più coercitiva – ritroviamo il contenuto di questa crisi in quanto crisi dell'operaio come lavoratore libero, e dunque vi vediamo apparire delle determinazioni che sono proprie della schiavitù.

«In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza lavoro. [...] La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce.» (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit., p. 202).

 

Naturalmente l'equo scambio fra individui giuridicamente eguali è sempre stata una fiction: la forza-lavoro del singolo operaio appartiene già alla totalità della classe capitalistica, prima di essere venduta al singolo capitalista; ma oggi abbiamo un passaggio in più: l'abisso della precarietà e della compressione salariale si tramuta, negli iper-centri del capitale, in una tendenza alla perequazione fra reddito da lavoro e reddito da inattività, che è lecito definire acquisto globale della forza-lavoro da parte della classe dei capitalisti. Se la diversificazione degli orari, la frantumazione delle forme di pagamento e la rotazione delle forze-lavoro possono essere spinte così a fondo, è perché lo scambio primordiale ha già avuto luogo, l'atto di proprietà è stato già firmato. L'interpenetrazione di lavoro e disoccupazione, di lavoro e formazione si fa ancora più forte. Così i sistemi di gestione della disoccupazione diventano gradualmente sistemi di mobilitazione delle forza-lavoro; si passa dall'indennizzazione dei disoccupati all'organizzazione del lavoro coatto: si pensi ai cosiddetti mini-jobs in Germania, o alle ultime riforme del welfare negli USA (l'Italia segue a ruota).

Naturalmente, le pratiche proletarie della fase attuale affondano le radici nel rapporto capitalistico tale quale è oggi; ma esse appaiono, da un punto di vista programmatico, senza prospettive. In effetti, come si potrebbe cacciare in testa a tutti questi analfabeti della lotta di classe da “manuale” – i giovani delle periferie di Stoccolma che danno fuoco ai loro quartieri, i tessili del Bangladesh che devastano le fabbriche in cui lavorano, gli operai francesi che puntano a rimpolpare le buone uscite piuttosto che a salvare il posto di lavoro, i disoccupati che rivendicano l'inessenzializzazione del lavoro – che no, non va mica tanto bene come si comportano, soprattutto se si tratta di costruire stati maggiori proletari e simili amenità. Ed ecco che, in barba ad ogni materialismo, si torna alla metafisica di Platone: da un lato il mondo così com'è, dall'altro il mondo come dovrebbe essere. No compagni, bisogna rompere con questo paradigma.

La distruzione del modo di produzione capitalistico sarà necessariamente il prodotto di un’attività di classe, e si radicherà per forza di cose nei conflitti che oppongono il proletariato e la classe capitalista e nel loro carattere inconciliabile. La questione che bisogna porsi è: come? Un famoso passo di Marx, dice che non si tratta di sapere quello che questo o quel proletario si figurano nella propria testa, ma di sapere che cosa il proletariato è e cosa sarà costretto a fare in conformità a questo suo essere. La magagna è che ciò che il proletariato è nel 1848 non è già più la stessa cosa nel 1871. Figuriamoci nel 2013.

Nella teoria rivoluzionaria programmatica (il comunismo come programma), la condizione comune degli sfruttati aveva una realtà superiore rispetto alle loro divisioni, e veniva concepita come una precondizione della rivoluzione da realizzarsi nelle lotte quotidiane; un cammino progressivo, più o meno rapido, avrebbe condotto dalle lotte per un cambiamento nel sistema ad una lotta per un cambiamento di sistema. A quel punto, il proletariato avrebbe dovuto imporsi come polo assoluto della società e costruire una società di transizione a sua immagine e somiglianza, con un’economia di piano che, a seconda delle correnti teoriche, sarebbe coincisa con la dittatura del partito, col sistema dei consigli operai o con l’autogestione generalizzata. Superato lo stadio dello scontro militare con la classe capitalista, si sarebbe comunque trattato di portare a compimento il carattere sociale della produzione, di sviluppare ulteriormente le forze produttive precedentemente intrappolate nei rapporti di produzione capitalistici, di ridurre il lavoro socialmente necessario ad un minimo attraverso un’automazione pressoché totale, eliminando lo scambio e il pluslavoro. Insomma, si sarebbe trattato di fare tutto quello che il capitale non può fare sulle proprie basi. Marx, nei Manoscritti del 1844, aveva criticato questo «comunismo rozzo» in cui «la condizione del lavoratore non è soppressa ma estesa a tutta la società», apostrofandolo come «selvaggio e stupido» (si riferiva a Babeuf); ma egli stesso riprese suo malgrado – e per delle ragioni profondamente legate alle condizioni e alla struttura del rapporto di classe di quell’epoca – questa stessa prospettiva, ad esempio nella teoria dei buoni di lavoro contenuta nella Critica del Programma di Gotha (1875).

Oggi, poiché la storia ne ha già effettuato la critica, si possono mettere a tema tutte le contraddizioni interne del comunismo programmatico. Marx aiutando, si può rilevare – e a ragione – che la “transizione” così concepita, per quanto possa sforzarsi di eliminare formalmente l‘atto dello scambio, non elimina il carattere duplice del lavoro: lavoro concreto e lavoro astratto, con la necessaria riduzione del primo al secondo; nelle misura in cui i differenti processi di lavoro presentano sempre intensità e determinazioni qualitative differenti, c’è da dubitare che una qualsiasi pianificazione potrebbe effettivamente trovare una forma di equalizzazione dei lavori, senza presupporre a priori la forma-merce e lo scambio. Si potrebbe egualmente far notare che il processo di valorizzazione informa materialmente il processo di lavoro, che il carattere sociale della produzione esiste in funzione del carattere sempre individuale del lavoro etc., e che, insomma, una qualsiasi ipotetica produzione post-capitalistica implicherebbe una trasformazione di forma e di contenuto così profonda nel modo di produrre la vita materiale, che tale trasformazione sarebbe allora ben altra cosa che una “liberazione delle forze produttive”. Infine si potrebbe osservare, ancor più significativamente, che il comunismo come programma risulta paradossale per il fatto di considerare il risultato (il comunismo, appunto) indipendentemente dal movimento che lo pone in essere, trasformandolo a seconda dei gusti nel migliore sistema sociale immaginabile, in un’organizzazione ideale della produzione etc.; anche qui, in barba al tanto decantato materialismo (= antifinalismo; Lenin: «la materia in sé stessa è infinita ed eternamente esistente»), il comunismo diventa... la scelta ottimale per l’individuo del capitale!

 

«Per lui, Proudhon, qualsiasi categoria economica ha due lati, uno buono, l'altro cattivo. Considera le categorie come il piccolo borghese considera i grandi uomini della storia: Napoleone è un grand'uomo; ha fatto molte cose buone, ma ha fatto anche molto male. Il lato buono e il lato cattivo, il vantaggio e l’inconveniente,presi insieme, costituiscono, per Proudhon, la contraddizione di ogni categoria economica. Problema da risolvere: mantenere il lato buono, eliminando il cattivo.» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 147)

 

Non si può volere il lato buono del modo di produzione capitalistico senza il suo lato cattivo, volere il carattere sociale della produzione senza il carattere individuale del lavoro, il lavoro necessario senza il pluslavoro, il valore senza il plusvalore... poiché sono inscindibili, “unità immediata” e nondimeno contraddizione, poiché sintesi di unità e antagonismo. Volere gli uni senza gli altri, equivale al paradosso dell'autosfruttamento del proletariato, paradosso che nella storia si è sempre risolto con la restaurazione – più o meno manu militari – dello sfruttamento capitalistico (Russia ‘17 e Spagna ‘36 come esempi eminenti). La buona novella è che la ristrutturazione capitalistica degli anni 1970-‘80 ha eliminato tutto ciò che rendeva la prospettiva programmatica semplicemente possibile o immaginabile e, come tale, l’ha mandata a dormire. Le auguriamo buon riposo! 

 

 

«[...] questo rapporto diviene ancor più complicato, ed apparentemente più misterioso, quando, con lo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico, non solo si ergono di fronte all'operaio queste cose immediatamente materiali [...] e gli si contrappongono in quanto “capitale”, ma [anche] le forme del lavoro socialmente sviluppato – la cooperazione, la manifattura (in quanto forma della divisione del lavoro), la fabbrica (in quanto forma del lavoro sociale la cui organizzazione ha le macchine come base materiale) – si presentano come forme di sviluppo del capitale, e perciò le forze produttive sviluppate da queste forme del lavoro sociale, quindi anche la scienza e le forze della natura, si presentano come forze produttive del capitale. In realtà l'unità nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l'impiego delle forze naturali e della scienza, come dei prodotti del lavoro nel macchinario per la produzione – tutto ciò si oppone agli stessi operai singoli come semplice forma di esistenza dei mezzi di lavoro che sono indipendenti da essi e li dominano, nello stesso modo estraneo e oggettivo in cui [si contrappongono ad essi] i mezzi di lavoro, nella loro forma semplice e visibile di materiali, di strumenti ecc., di funzioni del capitale e perciò del capitalista.» (Karl Marx, Teorie sul plusvalore, II ediz., Editori Riuniti, Roma 1993, tomo I, p. 420)

 

 

«Nelle lotte salariali, costoro [gli operai, ndr] non vedranno apparire né “forze” né “progetto”, ma l'impossibilità di unificarsi senza attaccare la loro propria esistenza come classe nella divisione del lavoro, e tutte le divisioni del salariato e dello scambio [...]» (R.S., Dall'autorganizzazione alla comunizzazione, cfr. Appendice II).

 

Nella misura in cui la trasposizione delle forze sociali del lavoro (cooperazione, divisione del lavoro, scienza) in forme di sviluppo del capitale non è un illusione, nella misura in cui questa inversione è reale, materiale e necessaria, la rottura rivoluzionaria non può consistere in un ritorno su di sé, nel riconoscimento e nella riorganizzazione – come scrisse Marx ne La questione ebraica – di quelle forze sociali come forces propres, ma nel riconoscere e attaccare queste forces propres come forme di sviluppo del capitale. Non è questione di teorie o analisi “giuste”. Questo tipo di articolazione fra lotta di classe quotidiana e rottura rivoluzionaria, emerge dalle specificità delle lotte attuali. Sono queste specificità – e non un archetipo della lotta “da manuale” – che ci permettono di definire la prospettiva comunista oggi. Alcuni operaisti, negli anni ’70, espressero la cosa nella maniera seguente: “leggere il programma nei comportamenti di classe”; formula contraddittoria, poiché se il comunismo è un programma non è “il movimento reale”, e i “comportamenti di classe” gli sono indifferenti. Se sono i “comportamenti di classe” ad annunciare il comunismo, allora il comunismo non è più un programma.


Che fare? – Ma è questa la domanda giusta?

 

Comportamenti di classe, d’accordo. Ma non basta descrivere le lotte e dire: «questo è quanto». In tal caso saremmo soltanto degli elementi esterni, dei semplici osservatori, la nostra posizione sarebbe meramente contemplativa. No, nella lotta di Anzola, come nel suo racconto, siamo parte in causa. Non si tratta, dunque, di fare l’apologia delle lotte così come sono, ma di farne la critica e la teoria passo passo, avanzando con esse, in presa diretta. Se non si fa questo, si cade nella cronaca noiosa o nella propaganda astratta. Senza teoria, nessuna rivoluzione.

Stare in una lotta, saper essere un elemento reale di essa, presuppone precisamente il non concepire quest’ultima come la “brutta copia” della lotta “da manuale”; presuppone il fatto di prendere le lotte sul serio, in quanto produttive della loro auto-comprensione e non come controfigure di uno schema anteriore. Per coloro che si pongono il problema della rivoluzione e del comunismo, non esistono “ricette”, ma occorre avere la capacità di lasciarsi stupire allorché una lotta produce qualcosa di nuovo ed inedito.

I limiti delle lotte non sono semplici “illusioni riformistiche”; coloro che lo credono non hanno mai varcato la soglia della critica dei rapporti di produzione. Il suo succedaneo, la critica sociale, quand’anche non sia «una passione della testa, ma la testa della passione» (Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione), resta pur sempre la testa di una passione triste – «l’indignazione» (ibid.) – la quale si prodiga in un’occupazione altrettanto triste: «la denuncia» (ibid.).

La critica, l’additamento, lo sberleffo, l’insulto, e persino il confronto fisico, indirizzati verso una sigla sindacale o individui precisi – ad esempio un delegato rinunciatario, o un funzionario sindacale viscido, o più banalmente un compagno di lotta “voltagabbana” – sono moneta corrente della lotta di classe, ed è normale che sia così. Il problema sorge quando tutto questo si trasforma in denuncia sistematica, ciò che generalmente fa rima con strategia politica. Si punta allora il dito contro i vari illusionisti, prestigiatori e imbonitori della lotta di classe, contro la loro prassi manovriera, ma – incapaci di vedere in cosa si radichino i suoi margini di manovra – le si oppone una prassi manovriera di segno opposto, auspicata o tentata. L’occhio guarda il dito e non vede la luna. L’unico effetto concreto di questo tipo di denuncia sistematica, è di confortare i suoi fautori nel loro radicalismo impotente e indignado. Preferiamo altri registri.

Quando i facchini scandiscono slogan come «CISL,UIL, mafia! CGIL mafia!», non fanno della “denuncia sistematica”. Potrebbe sembrare che se la prendano con una sorta di comitato occulto, che prende decisioni sulla loro pelle nelle oscure stanze del potere. Ma è davvero così? La CGIL, la CISL, la UIL – sebbene meno legittimate dai lavoratori rispetto al passato – non sono un potere estraneo che controlla la classe dall’esterno. Se i sindacati “conflittuali” (o “di base”) finiscono per assomigliare a quelli “ufficiali”, è semplicemente in virtù della loro natura: quella di organi di negoziazione del prezzo della forza-lavoro. Non è questione di etica o di buona volontà: si può avere per il SICobas tutta la simpatia o l’avversione del mondo, ma pensare che una sigla sindacale possa sfuggire a tale sorte, è di un’ingenuità assoluta. Pensare che un’autorganizzazione “pura” vi possa riuscire, lo è ancora di più.

Dire che «i singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe, per il resto essi si ritrovano come nemici nella concorrenza» (Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 54) significa che il proletariato non trova mai la propria ragion d’essere in se stesso e che non si fa mai “classe autonoma e indipendente”; significa che la sua attività di classe è sempre mediata dal capitale e che la sua coscienza non è mai una coscienza di sé, ma una conoscenza del nemico (una coscienza teorica); significa che la propria unità di classe se la trova sempre contro: per il proletario, Io è sempre un’Altro. CISL, UIL e CGIL sono l’unità del proletariato, quella vera, la sola possibile e realmente esistente; se i facchini se la prendono con loro, è perché questa unità ce l’hanno contro. Per questo, nella loro lotta, ogni appello all’unità di classe suona inautentico, come una «notte in cui tutte le vacche sono nere»: auto-definirsi come schiavi è rivendicarsi come anomalia, come particolarità. Voler scartare come accessoria questa particolarità, significa scartare le ragioni stesse della lotta. Prendendo un esempio relativo ad un altro contesto, moralizzare sul corporativismo degli autoferrotranvieri, equivale a dir loro di non scioperare.

La contraddizione dinamica dentro la quale si è mosso fin’ora il movimento dei facchini, è di essere partito da una situazione particolare (“Coop. Facchinaggio = schiavitù”) per rivendicare un adeguamento al generale (voler essere dei “lavoratori normali”); e, d’altro canto, di aver designato questo stesso “generale” come un nemico (CISL, UIL, CGIL). Ora la questione è: cosa potrà venir fuori da questa contraddizione? La rimessa in causa del particolare non può essere la negazione/sussunzione di un particolare reale sotto un generale astratto, ma la ridefinizione circostanziata del rapporto fra il particolare e il generale: se dei disoccupati smettono di definirsi “per difetto”, come quel qualcosa che sta accanto all’impiego; se questi stessi disoccupati pongono – teoricamente e praticamente – la disoccupazione al centro del lavoro salariato, come il principio organizzatore dell’odierno mercato del lavoro (il rischio costante di essere “di troppo”, che porta ad accettare ogni sorta di situazione intollerabile), essi fanno un’operazione del tutto particolare, aprono una “finestra sul possibile”. Analogamente – e soprattutto dopo il voto di Mirafiori e l’interramento dell’Articolo 18 –, se degli immigrati in lotta definiscono la condizione di schiavo o di clandestino come la condizione generale della classe operaia, vuol dire che non stanno più lottando solo e semplicemente sulla base della loro ben reale particolarità (voler essere dei “lavoratori normali”), vuol dire che nella loro attività di classe stanno rimettendo in questione la loro rivendicazione e il carattere rivendicativo della loro lotta: come voler essere dei “lavoratori normali”, se ogni “normalità” è scomparsa?

La lotta di Anzola non si è evidentemente spinta fino a tanto, e non vogliamo dire che avrebbe dovuto o potuto farlo. Ma possiamo affermare che, nel fallimento del SICobas, si è prodotta quella caducità della rivendicazione iniziale che, con tutta probabilità, investirà in un domani forse non lontano – e in termini molto più vasti – l’intero movimento dei facchini.

Prepariamoci dunque ad essere sorpresi dal seguito…

 

 

Appendice I

 

Chicago 86

Considerazioni sull'accordo alla Granarolo

Scioperi e risultati, ovvero quando il mezzo (trattativa) diventa scopo

 

 

 

Entro il movimento generale che in Italia sta coinvolgendo molti nodi della rete logistica, è piuttosto significativo l'accordo della Granarolo, firmato da uno dei sindacati minori. Il coordinatore nazionale di questo sindacato l'ha presentato così:

 

«Abbiamo firmato perché costretti, non avremmo potuto sostenere altri picchetti con 51 lavoratori senza stipendio. La nostra cassa di resistenza non può affrontare una lotta del genere […] Per questo abbiamo firmato questo accordo che non ci soddisfa. I picchetti e gli scioperi riprenderanno se a settembre non sarà trovata collocazione a tutti i lavoratori licenziati.»

 

Queste, a parte l'ammissione di debolezza, sono parole che siamo abituati a sentire anche da parte dei confederali: adesso firmiamo condizioni “al ribasso”, ma vi faremo vedere i sorci verdi se domani… ecc. ecc. In realtà niente può obbligare un sindacato o chiunque a firmare un accordo se non lo soddisfa e soprattutto non soddisfa i lavoratori, per di più giustificando il proprio atteggiamento con la debolezza di questi ultimi.

I 51 licenziati sono 41 della Granarolo e 10 della Cooperativa Adriatica. Al culmine di una lotta per certi versi esemplare (blocchi senza preavviso e a oltranza) la Commissione di Garanzia aveva minacciato la precettazione dei lavoratori (bastone), avviando un “tentativo di conciliazione” (carota) consistente nel “convocare le parti” presso la Prefettura di Bologna.

Ovviamente la “conciliazione” avviene in luoghi e tempi separati: da una parte la trattativa tra gli imprenditori (cooperative e loro clienti) e i sindacati confederali, dall'altra quella con i rappresentanti del sindacatino in questione, che ha seguito la lotta sul campo. Manco a dirlo, tra i primi scaturisce velocemente un accordo che fa da battistrada alla trattativa con i secondi. Il 18 luglio il coordinatore citato spiega:

 

«Al tavolo di trattativa aperto dal Prefetto, che ci aveva visto la prima volta presenti come SICobas a rappresentare tutti i lavoratori colpiti dai licenziamenti (e per altre tre volte invece esclusi), era uscita una prima proposta da noi non sottoscritta.»

 

Il 27 luglio, alla quarta convocazione presso il prefetto, la proposta è ancora ritenuta inaccettabile: patto “tombale” sui punti pregressi della vertenza in cambio di 1.000 euro, 12 rientri in diversi magazzini e un ricatto sulla cassa integrazione cui non si potrà accedere in tempo se non si firma. Racconta il coordinatore:

 

«Nelle ore successive, grazie ad un confronto telefonico tra il sottoscritto ed il Prefetto, è stata avanzata una proposta che prevedeva l'inserimento di 23 operai in diversi magazzini a tempo indeterminato: senza periodo di prova, con inquadramento almeno analogo a quello in essere, con l'impegno di incontrarsi entro il 30 settembre per verificare un percorso per il ricollocamento degli altri operai ancora in CIGS in deroga, col pagamento della retribuzione dalla data del licenziamento al reintegro, con l'accesso alla CIGS in deroga alla data del 1° luglio e, cosa estremamente importante, senza nessun accordo tombale sul pregresso (per somme che superano i 20mila euro ad individuo)».

 

In cambio, il sindacato doveva impegnarsi a “revocare lo stato di agitazione”. Convocata un'assemblea dei lavoratori, la proposta passava e l'accordo veniva siglato. Il recupero delle somme dovute ai 51 lavoratori licenziati (circa un milione di euro), prima reclamato con la lotta, ora veniva affidato ai legali dell'organizzazione. Con paragone militare più volte ripetuto, la firma dell'accordo era considerata come

 

«una battaglia di posizione che permette di occupare uno spazio più favorevole per vincere la guerra che la Granarolo ha scatenato due mesi e mezzo fa, e che ha visto i lavoratori battersi con determinazione, con l'aiuto di altri Cobas e militanti solidali, dimostrando sul campo che si può vincere un avversario come la Lega Coop, arrogante e forte sul territorio (non solo di Bologna), che aveva calpestato i loro diritti.»

 

È arduo immaginare come la firma di un accordo simile possa rappresentare la conquista di condizioni più favorevoli per il futuro. Secondo il principio ricordato da alcuni partecipanti ai picchetti, in questi casi è vero che “cedere un po' è capitolare molto”. A parte le evocazioni sessantottine, di fatto, sul campo, comportamento e linguaggio di questi sindacatini non si discostano da quelli del sindacalismo confederale classico. L'unica differenza è nell'ansia di essere riconosciuti, nel non ancora raggiunto grado di integrazione con l'apparato borghese. Tra l'altro i 23 rientrati saranno sparsi in diversi magazzini, situazione incontrollabile in partenza. Che cosa sarebbe successo se si fosse detto chiaramente ai lavoratori che non si poteva firmare per il rientro dei 23 alla faccia dei 28 sacrificati? Chiunque abbia un minimo di esperienza di lotte sindacali sa bene che, in mancanza di sciopero, se si firma si finisce per farlo in calce a ciò che la “controparte”, compresi i confederali, avrebbe comunque “concesso”, a dispetto dei giri di parole sulle “posizioni” occupate. Il fatto è che queste “posizioni” non riguardano i lavoratori ma il sindacato in quanto tale e da questo punto di vista il SICobas vanta giustamente di essere stato “riconosciuto” come interlocutore. Citiamo dalla home page del suo sito internet:

 

«Milani ha avuto anche parole sugli scioperi e i picchetti che questo inverno hanno colpito il magazzino di Coop Centrale Adriatica ad Anzola. “Abbiamo gestito male la situazione. Se avessimo perso la vertenza anche alla Granarolo avremmo arrestato la nostra espansione come sindacato”.»

 

Quindi la vertenza è stata “vinta”? E a favore di chi? Dell'espansione di un clone sindacale fra i tanti che ci sono? Per i lavoratori lo scopo di uno sciopero non è la trattativa ma il risultato che vogliono ottenere. Per un sindacato d'oggi lo scopo è invece proprio la trattativa, dato che solo attraverso di essa ottiene il “riconoscimento della controparte”, quindi la possibilità di aprire sedi e uffici, erogare servizi a pagamento come CAF, Patronati e studi legali, ecc. Non c'è nulla di strano, entro i rapporti consociativi del sindacalismo attuale, nel fatto che un responsabile centrale dichiari candidamente di utilizzare le lotte per espandere il proprio potere contrattuale in quanto ente riconosciuto dallo Stato (nel caso specifico in presa diretta con il prefetto).

Qualunque lotta di tipo immediato (a carattere sindacale e non) obbliga a determinati percorsi solo per quanto riguarda l'utilizzo di normative esistenti, e solo quando non trascende a scontro di livello più alto. Per esempio, può non esserci nemmeno bisogno di lotta per stabilire un percorso di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, in deroga ecc. fino alla mobilità e al ticket di disoccupazione in caso di fallimento o comunque chiusura d'azienda (lasciando perdere la difesa del posto di lavoro “perché la fabbrica era ancora produttiva ma i padroni erano parassiti” e amenità del genere).

Può esserci invece lotta durissima per gli stessi motivi quando il percorso venga ostacolato, disatteso, ecc. e questo vale per tutto, dall'aumento di salario alla durezza delle condizioni di lavoro, dalla mensa che fa schifo alla solidarietà con i compagni di lavoro. Il risultato è aperto, sfumato, può essere tutto o di meno, a volte anche di più, se la lotta lo permette. In questi casi le forze avverse si misurano sul campo e vince chi è più resistente; oppure si arriva a un compromesso, cioè a un armistizio, come in guerra.

Ma vi sono casi in cui il compromesso non è possibile; e se c'è, prefigura un vero e proprio salto nel terreno dell'avversario. In tali casi non sono i rapporti di forza a decidere, ma la discrezionalità di chi in quel momento sta conducendo una trattativa. E tale discrezionalità ha sempre origine ideologica. Se ad esempio un'azienda licenzia per rappresaglia degli operai che hanno fatto sciopero, la posta in gioco non è “chi rientra e chi no, discutiamo”, ma “rientrano tutti” e basta. Se si perde è “nessuno” o comunque ciò che decide l'avversario, ma non c'è forza al mondo che possa intaccare la discrezionalità del rappresentante sindacale.

Quando si tratta di licenziamenti del tipo di quelli che oggi imperversano, cioè per riassetti proprietari, riduzione delle attività, ristrutturazioni o fallimenti, la logica di classe vorrebbe che si agisse sul piano del salario ai disoccupati e della riduzione del tempo di lavoro, ma ovviamente si agisce sul terreno che c'è e non su quello che si vorrebbe. Ad ogni modo non sarebbero da firmare compromessi in questo ambito nemmeno se lo decidesse all'unanimità una assemblea operaia, perché il gioco sporco sulla disperazione di chi rimane senza salario può far votare qualsiasi cosa a chiunque.

Nel caso specifico della Granarolo, e per estensione di tutto il settore della logistica, c'è un evidente “disinteresse” delle confederazioni originato in parte non piccola dai co-interessi nelle cooperative e nel sottobosco politico dei servizi. Questo vuoto lasciato dai grossi sindacati fa gola ai sindacatini-fotocopia, i quali, appunto, si agitano per riempirlo. Non solo non c'è contrasto di classe fra grossi e piccoli, ma nemmeno semplice concorrenza, bensì funzioni complementari. La Granarolo lo dimostra: la trattativa prefettizia sul primo tavolo, quello ufficiale, porta a un accordo sui licenziamenti che l'assemblea rifiuta. Chi è che lo fa trangugiare e lo firma dichiarando di averlo migliorato “occupando spazi” utilizzabili solo in un indefinito futuro? Quelli che siedono al secondo tavolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendice II

 

R. S. (Théorie Communiste)

“Dall'autorganizzazione alla comunizzazione”: alcuni estratti

 

[la versione integrale di questo testo è disponibile sul blog illatocattivo.blogspot.com]

 

 

 

[...] Il proletariato non è sparito, né è diventato una pura negatività, ma lo sfruttamento non mette più in movimento una figura sociale omogenea, centrale e dominante della classe operaia, in grado di avere coscienza di sé come soggetto sociale, nel senso abitualmente inteso, di fronte al capitale.

Integrata in una totalità altra, e avendo perduto la sua centralità in quanto principio organizzatore del processo di lavoro, la grande fabbrica delle grandi concentrazioni operaie non è scomparsa, ma non si situa più al cuore del processo lavorativo e del processo di valorizzazione, molto più diffuso. È diventata elemento di un principio organizzativo che la trascende. Nella contraddizione tra proletariato e capitale, non c'è più nulla di sociologicamente dato a priori, come poteva essere “l'operaio-massa” della grande fabbrica. Il carattere diffuso, segmentato, polverizzato, corporativo dei conflitti è la necessaria contropartita di una contraddizione tra le classi che si situa a livello della riproduzione del capitale. Ma non trattandosi di una somma di elementi giustapposti, bensì di una configurazione storica della contraddizione tra proletariato e capitale, un conflitto particolare, dotato di caratteristiche proprie, attraverso le condizioni nelle quali si svolge, attraverso il periodo nel quale appare, può trovarsi nella condizione di poter polarizzare l'insieme di questa conflittualità che fino a quel momento appariva come irriducibilmente diffusa e diversificata.

Per unirsi, gli operai devono frantumare il rapporto attraverso il quale il capitale li “raggruppa”. Non si può desiderare allo stesso tempo l'unità del proletariato e la rivoluzione comunista, cioè questa unità come presupposto della rivoluzione, come sua condizione. [...] Gli operai si fanno classe rivoluzionaria rivoluzionando i rapporti sociali, ovvero tutto ciò che essi sono all'interno delle categorie dello scambio e del salariato. Nelle lotte salariali non si vedranno apparire né le “forze” né un “progetto”, ma l'impossibilità di unificarsi senza attaccare la propria esistenza come classe nella divisione del lavoro e in tutte le divisioni del salariato e dello scambio, senza rimettersi in causa come classe, senza impegnarsi in una prassi rivoluzionaria. La sola unificazione del proletariato è quella che esso realizza abolendosi. Le misure comunizzatrici intraprese in un punto “qualunque” (certamente in modo quasi simultaneo in una moltitudine di luoghi) del pianeta capitalista avranno questo effetto unificatore, oppure saranno schiacciate.

[...]

Marx, come tutti i rivoluzionari, vedeva un salto, una negazione, ma la differenza rispetto ad oggi è che l'associazione permanente permetteva di intravvedere la possibilità di una continuità organizzativa da una fase all'altra. Attualmente, i partigiani dell'autonomia cercano nella difesa del prezzo della forza-lavoro o in determinate forme di lotta un “qualcosa”, dei “germi”, delle “potenzialità” di rivoluzione. In questa attesa di una dinamica delle lotte, sarebbe la lotta che genererebbe da se stessa un'altra lotta. Ma le “lotte” sono soltanto momenti dell'attività dei proletari che questi ultimi superano e negano, non sono fenomeni che si concatenano gradualmente, come se una lotta portasse in sé i germi di un'altra lotta. Insomma, il legame tra le “lotte” lo effettua negativamente il soggetto che si trasforma. Questo legame non è evolutivo.

L'autorganizzazione presuppone che la definizione della classe operaia le sia inerente, e passare dal soggetto all'attività non cambia nulla in questo. Non si tratta di scannarsi sul senso delle parole, ma ciò che si vuole vedere in un'autorganizzazione più o meno rivoluzionaria, o alle prese con la rivoluzione, è totalmente differente dall'autorganizzazione realmente esistente; c'è una rottura, ed è questa rottura che deve interessarci. Se si sfuma questa rottura, allora si conserva in un modo o nell'altro il vecchio schema dell'autonomia. Ma non si sfugge ad un'incoerenza: da una parte affermare che la rivoluzione è abolizione delle classi; dall'altra esercitarsi su uno schema che valorizza l'autorganizzazione come processo rivoluzionario. L'autorganizzazione può essere questo processo nella misura in cui è il “rifiuto delle mediazioni”, ma – oltre a essere, questa, la solita solfa dell'ultra-sinistra – ciò che annuncia la rottura non è il rifiuto delle mediazioni, bensì la rimessa in causa di ciò che fa sì che esista una qualsiasi mediazione: essere una classe. Non si tratta di individui indefiniti che “imparano” a “governarsi da soli” al di fuori di ogni mediazione. È contro ciò che avranno “appreso” governando se stessi, cioè la loro propria posizione di classe in questa società, che i proletari dovranno fare la rivoluzione.

Il processo rivoluzionario è quello dell'abolizione di ciò che autorganizzabile. L'autorganizzazione è il primo atto della rivoluzione, il seguito si effettua contro di essa. Quando il rapporto contraddittorio tra proletariato e capitale si situa a livello della riproduzione, contiene la rimessa in causa del movimento nel quale il primo si riproduce come classe. È là che si trova il contenuto e la posta in gioco dell'odierna lotta di classe.

[...]

Nel passaggio dalle lotte rivendicative alla rivoluzione, non si può avere che una rottura, un salto qualitativo, ma tale rottura non è un miracolo, e nemmeno la semplice constatazione da parte del proletariato che non c'è altro da fare se non la rivoluzione, di fronte allo scacco di tutto il resto. “One solution, revolution” è l'insulsaggine speculare a quella della dinamica rivoluzionaria delle lotte rivendicative. La rottura si produce positivamente attraverso lo svolgimento del ciclo di lotte che la precede e si può dire che ne faccia ancora parte. Tale rottura si annuncia nella moltiplicazione di momenti di scarto, all'interno della lotta di classe, tra la rimessa in causa da parte del proletariato della propria esistenza come classe nella sua contraddizione col capitale da un lato, e la riproduzione del capitale – che implica il fatto stesso di essere una classe – dall'altro. Questa scarto è la dinamica di questo ciclo di lotte, esso esiste in modo empiricamente constatabile.

[...]

La possibile esistenza di una corrente comunizzatrice risiede nello scarto esistente all'interno dell'agire in quanto classe, che l'autorganizzazione (quale che sia) formalizza e ratifica: uno scarto in rapporto al contenuto stesso dell'autorganizzazione. Agire in quanto classe significa oggi, da un lato, non avere altro orizzonte che il capitale e le categorie della sua riproduzione; dall'altro, e per le stesse ragioni, essere in contraddizione con la propria riproduzione di classe, rimetterla in causa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendice III

 

Karl Marx

L'industria dei trasporti come branca della produzione materiale. Il lavoro produttivo nell'industria dei trasporti

 

[Tratto da Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, Roma 1971]

 

 

 

Oltre all’industria estrattiva, all’agricoltura e all’industria di trasformazione, esiste anche una quarta sfera della produzione materiale, la quale percorre anch’essa i diversi stadi dell’azienda artigianale, dell’azienda manifatturiera e dell’industria meccanica; é l’industria dei trasporti, che trasporta uomini o merci. Il rapporto del lavoro produttivo, cioè del salariato, rispetto al capitale è qui esattamente lo stesso che nelle altre sfere della produzione materiale. Qui, inoltre, viene apportata all’oggetto del lavoro una modificazione materiale – una modificazione spaziale, [un] cambiamento di luogo. Per quanto riguarda il trasporto di uomini, ciò appare solo come un servizio che viene fornito ad essi dall’imprenditore (entrepreneur). Ma il rapporto tra compratori e venditori di questo servizio non ha niente a che fare col rapporto dei lavoratori produttivi rispetto al capitale, come non vi ha niente a che fare il rapporto tra venditori e compratori di filo (Twist).

Se invece consideriamo il processo in riferimento alle merci, vediamo che in questo caso si verifica effettivamente nel processo lavorativo un mutamento nell’oggetto del lavoro, nella merce. La posizione di questo nello spazio viene modificata, e in tal modo avviene un mutamento nel suo valore d`uso, essendo mutata la posizione spaziale di questo valore d’uso. Il suo valore di scambio cresce nella stessa misura in cui questa modificazione del suo valore d’uso richiede lavoro, una quantità di lavoro determinata in parte dal logoramento del capitale costante – quindi dalla somma del lavoro oggettivato che entra nella merce –, in parte dalla quantità del lavoro vivo, come nel processo di valorizzazione di tutte le altre merci.

Non appena la merce giunge al luogo di destinazione, questa modificazione avvenuta nel suo valore d’uso scompare, e si esprime unicamente nell’aumento del suo valore di scambio, nel rincaro della merce. Ora, sebbene il lavoro reale non abbia lasciato qui nessuna traccia nel valore d’uso, esso è tuttavia realizzato nel valore di scambio di questo prodotto materiale, e quindi è vero per questa industria, come per tutte le altre sfere della produzione materiale, che esso s’incorpora nella merce, benché non abbia lasciato nessuna traccia visibile nel valore d’uso della merce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

«La maggior parte dei compagni che hanno steso questo documento erano presenti ai picchetti, alle assemblee, e mantengono rapporti con i lavoratori più combattivi all'interno del magazzino e con alcuni dei licenziati rimasti in Italia (essendo quasi tutti immigrati). Dunque l'esito della lotta di Anzola davvero non ci gratifica. Ma ci permette di formulare “in situazione” (e non in astratto) qualche riflessione su quella radicale impossibilità di un percorso cumulativo e progressivo di rivendicazioni, sempre più allargate ed inclusive in rapporto ai vari segmenti della classe, che a nostro avviso marca l'attuale ciclo di lotte; ci permette di parlare della centralità e soprattutto dell'illegittimità della rivendicazione salariale all’interno di quest’ultimo, precipitata dalla crisi scoppiata nel 2008; ci permette di parlare della fine del movimento operaio e dell'appartenenza di classe, che da “orgoglio proletario” è diventata semplicemente l'obbligo di guadagnarsi il pane col sudore della fronte (laddove è possibile); ci permette infine di valutare, in vitro, l'obsolescenza dei vecchi schemi del programma proletario rivoluzionario (per lo più marxista, ma non solo) e come andare oltre
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