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Genova per noi

Lotte operaie, organizzazione di massa, soggettività politica

Collettivo Noi saremo tutto Genova

Pubblichiamo di seguito una cronaca ed un’analisi del Collettivo Noi saremo Tutto di Genova sulle “cinque giornate” di lotta dei ferrotramvieri del capoluogo ligure.

Per cinque giorni a Genova, il trasporto pubblico cittadino è stato bloccato dall’iniziativa autonoma degli operai AMT. Ciò ha obbligato sia i sindacati di regime, il cui peso all’interno dell’azienda è ridotto all’osso, sia il “sindacato autonomo” a cavalcare la tigre della rabbia operaia. Sabato mattina, dopo una votazione farsa, lo sciopero è terminato sancendo, di fatto, una tregua armata. Al momento non ci sono né vinti, né vincitori. Una situazione di stallo che lascia aperte diverse prospettive. Questa lotta non si è limitata a questo, poiché da un lato ha assunto una valenza nazionale in relazione ai nodi del trasporto pubblico, dall’altro, ed è l’aspetto preponderante, ha indicato i non improbabili scenari che il conflitto capitale/lavoro salariato potrebbe riservare di qui a poco. Tutto ciò contribuisce non poco, sul piano del dibattito politico complessivo, a ricalibrare intorno alla centralità del lavoro operaio e subordinato i limiti e le genericità emersi dentro le giornate romane del 18 e 19 ottobre.

Nelle “giornate genovesi” si è ampiamente evidenziato come la reale posta in palio delle politiche governative sia la messa in mora della legittimità politica, sociale e sindacale dei lavoratori e la loro riduzione a puro e semplice capitale variabile. Semplici accessori dei processi di valorizzazione ai quali deve essere inibita ogni forma di esistenza e resistenza pubblica e collettiva.

In poche parole, nelle giornate operaie di Genova, sono stati proprio gli uomini politici della borghesia a dichiarare, senza troppi giri di parole, la centralità del plusvalore, la necessità di disarticolare ogni forma di rigidità operaia mettendo infine termine a ogni residualità di capitalismo pubblico intorno al quale, classicamente, si sono sempre articolate le politiche di welfare e l’immancabile mediazione tra le classi che questo si portava appresso. Il nesso indissolubile tra fine del patto socialdemocratico e nuovo ciclo di accumulazione capitalista a Genova ha trovato una non secondaria conferma.

La volontà delle classi dirigenti di messa al bando degli autisti AMT, infatti, non è un passaggio di poco conto. Gli operai AMT rappresentano, all’interno della città, quella tradizione operaia che ha sempre rappresentato uno dei punti di forza degli apparati socialdemocratici. Aver girato bellamente loro le spalle non è un fatto accidentale bensì l’effetto di una strategia politica all’interno della quale non vi è più spazio per alcuna realtà operaia. Proprio in virtù di ciò diventa necessario e urgente fare un bilancio di quanto accaduto e, immediatamente dopo, iniziare seriamente a lavorare per risolvere i nodi che la lotta di questi giorni ha fatto venire al pettine. Nodi che hanno ben poco di contingente ma, al contrario, sembrano sintetizzare al meglio quanto andiamo affermando.


La lotta operaia

Se una reazione dei lavoratori al piano di privatizzazione aziendale riproposto dal Comune era prevedibile, oltreché auspicabile, è stata largamente non prevista la sua intensità, il suo impatto e la sua durata. Nessuno si era prefigurato questo scenario che si è posto in aperta rottura con quella prassi di azione sindacale scevra di qualsiasi conflittualità, consolidatasi negli ultimi 10 anni (gli ultimi scioperi a gatto selvaggio della categoria di una certa entità risalgono infatti al dicembre-gennaio 2003-2004, anche se, nell’ottobre del 2010, gli autisti AMT scesero in sciopero immediatamente e senza preavviso dopo un’assemblea notturna. Lo sciopero del 2010 fu pagato con una forte sanzione che ha ridotto la paga degli autisti per diversi mesi). Chiunque sia stato a stretto contatto con gli autisti dell’AMT, sia in piazza sia nelle assemblee, avrà facilmente notato la loro grande determinazione e unità. A emergere, al di là degli aspetti specifici della lotta, nei diversi interventi era un senso di orgoglio operaio ritrovato e di “patriottismo di categoria” che, in non pochi casi, faceva riecheggiare gli eventi topici della storia operaia di questa città. I richiami al 30 giugno ‘60, sotto tale profilo, erano molto di più che semplice retorica. Allo stesso tempo, l’aver chiaro in mente che la loro lotta poteva rappresentare un’inversione di tendenza nei rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato sul piano generale non è certo un fatto di poco conto. Ascoltando gli interventi dei lavoratori fatti dal palco della Sala Chiamata gremita, durante le numerose assemblee operaie tenutesi nei giorni di sciopero, a colpire era la chiarezza analitica della portata della lotta che avevano iniziato.

Al contempo era evidente che tale chiarezza e determinazione espressa non trovava sbocco in un programma politico, con una visione generale dello scontro e un’adeguata organizzazione politica in grado di dare respiro strategico alla lotta. La lucidità analitica espressa dai lavoratori è stata, con ogni probabilità, frutto più di un “intuito di classe” che di una coscienza politica a tutto tondo. Non per caso, nel corso della lotta, non è emersa, neppure a livello embrionale, una qualche forma politica/organizzativa in grado di prendere tra le proprie mani la lotta e la sua conduzione. I lavoratori, infatti, si sono sempre riferiti al quadro sindacale dato. Questo anche perché, sino alla Caporetto della FAISA consumatasi la mattina del 23 novembre, la fiducia di gran parte dei lavoratori verso questo sindacato rimaneva piuttosto elevata. Una fiducia, almeno in apparenza, neppure troppo mal riposta poiché, in tutte le assemblee precedenti, la FAISA si era mostrata particolarmente dura e determinata. Va ricordato, cosa non proprio trascurabile, che nel corso di dette assemblee la FAISA non solo non aveva mai compiuto una qualche opera di moderazione ma, al contrario, si era chiaramente espressa per la continuazione della lotta oltre a ipotizzarne una escalation delle forme. Va sottolineato, infatti, che proprio dentro queste assemblee, nel caso di un proseguo delle lotte, era stato deciso di spostare il baricentro della lotta da Genova a Roma, andando ad “assediare” direttamente il potere politico. Prospettiva che, nel caso di non mediazione da parte degli organismi politici regionali e cittadini, sarebbe stata attuata lunedì 24 novembre. Inoltre, aspetto anche questo tutt’altro che trascurabile, sempre la FAISA - queste le dichiarazioni fatte dal suo rappresentante nelle assemblee - stava sollecitando l’intervento, cioè l’estensione dello sciopero totale dei servizi pubblici, dei lavoratori delle altre città. Senza addentrarci, in quest’occasione, sulle potenze e impotenze dell’attuale galassia sindacale conflittuale non possiamo certo esimerci dal rilevare che la mobilitazione non si è estesa in alcun modo. Ciò è stato vero tra i gli autoferrotranvieri come per i settori e comparti a questi affini. In cinque giorni di lotta, inoltre, non sono state dichiarate neppure due ore di sciopero generale “simbolico” né nel pubblico impiego, né in Ferrovia e tanto meno nelle fabbriche.

Eppure, le “giornate genovesi”, hanno offerto un assist quanto mai ghiotto per verificare empiricamente quanto espressosi nelle giornate del 18 e del 19 ottobre. Inutile nasconderci dietro a un dito: nessuna forza politica e sindacale è stata in grado di correre in soccorso dei lavoratori AMT i quali, al di là di generici attestati di solidarietà, sono stati lasciati soli. Quanto tutto ciò abbia pesato sulla conduzione e il proseguo della lotta è tanto ovvio quanto banale. Tutti si aspettavano l’entrata in scena di Roma e Milano (chiunque sia stato minimamente a contatto con gli autisti sa benissimo quanto tutti loro si aspettassero che gli avvenimenti andassero esattamente in quella direzione) e quanto tale assenza abbia pesato anche sull’umore dei lavoratori in lotta è facilmente accertabile. Un’estensione di questa avrebbe, tra l’altro, ridefinito i ruoli organizzativi e dirigenziali del “sindacato giallo” poiché, di fronte alla sola parziale generalizzazione della lotta, si sarebbe imposta la necessità di un salto politico organizzativo che, per sua natura, il corporativismo non è in grado di praticare. L’assenza di tutto ciò, consente di capire un po’ meglio come la FAISA, almeno sino alla mattina del 23, sia riuscita, nel bene e nel male, a mantenere un ruolo egemone.

Tra l’altro, nel corso delle assemblee, era proprio la FAISA a mostrarsi maggiormente aperta e disponibile nei confronti di chi, dall’esterno, andava a supportare la lotta AMT e si è anche ben guardata da bloccare tutta quella serie di interventi particolarmente critici rivolti ai sindacati di regime. Interventi che, nel corso delle assemblee, sono stati particolarmente duri. Noi stessi, dovendo fare i conti con ciò che la FAISA stava mettendo in scena, avremmo avuto qualche problema ad attaccarla frontalmente. Obiettivamente, mettendosi nei panni dei lavoratori AMT, veniva difficile non concedere credito al sindacato autonomo il quale, aspetto che non va mai dimenticato, è diventato egemone non in quanto “sindacato giallo” ma vestendo i panni della conflittualità e, pur se in versione moderata, dell’antagonismo operaio. Paradossalmente il “sindacato autonomo” si è posto, almeno sul piano della battaglia sindacale, molto più a sinistra dei sindacati tradizionali. Su ciò ha costruito la sua forza egemonica. Ma, come è noto, nulla è come appare. L’assenza di una struttura di lotta autonoma e non subordinata ai sindacati ben presto si è fatta sentire. Questo limite politico essenziale, manifestatosi in maniera sempre più netta col passare delle ore e dei giorni, è stato più volte usato dai sindacati confederali e da quello autonomo, insieme agli apparati polizieschi, per pilotare e controllare la radicalità operaia, tenerla dentro argini ben precisi e infine farla esaurire. Eppure, almeno in potenza, alcune indicazioni politiche non irrilevanti tra i lavoratori iniziavano a prendere forma. In primis la necessità di organizzare uno sciopero generale, sul piano cittadino, e, in seconda battuta, uno generale di categoria. Ecco l’obiettivo immediatamente politico che, dentro la classe, andava delineandosi. Esattamente l’individuazione di obiettivi politici i sindacati volevano evitare.

D’altra parte, nonostante la città, nel suo insieme, si sia mostrata solidale con la lotta degli autisti AMT, proprio in assenza di una soggettività politica in grado di trasformare quella generica solidarietà in appoggio fattivo della lotta, non ha permesso alla solidarietà di andare oltre l’esternazione di simpatia. Eppure le basi per fare molto di più ci sarebbero state. La città era più che ben disposta ma non sapeva cosa fare. Significativo, al proposito è registrare il completo fallimento dei media a farsi organi di linciaggio mediatico nei confronti della lotta operaia. Nonostante qualche tentativo ci sia stato, ad esempio da parte di Primo Canale, la cosa è velocemente rientrata perché, molto  prosaicamente, tale operazione non trovava sponde significative tra la popolazione. Inoltre, altro fatto per nulla irrilevante, dopo un paio di trasmissioni particolarmente forcaiole nei confronti degli autisti questi, senza starci a pensare troppo su, hanno invaso gli studi di Primo Canale esercitando, in diretta, un’operazione di controinformazione da manuale. Le premesse per un’azione politica di classe sembravano esserci tutte.

Di fronte a tutto ciò cosa hanno fatto i sindacati? Esattamente l’individuazione di questi obiettivi politici i sindacati volevano evitare e lo hanno fatto usando la carta della debolezza delle soggettività politiche in grado di indirizzare le lotte delle classi sfruttate. Concretamente cosa hanno fatto i sindacati? Hanno sancito e imposto un ordine discorsivo in cui “politico” equivaleva immediatamente ed esclusivamente a “i partiti politici istituzionali interni alla democrazia borghese”, i quali sono evidentemente del tutto delegittimati tra le classi subalterne e lavoratrici. Un ordine discorsivo palesemente qualunquista il cui succo era: lasciamo fuori la politica perché, tanto, questi son tutti uguali e l’unica cosa che sanno fare è fotterci. Ciò ha avuto buon gioco tra i lavoratori che hanno finito col dire: “destra e sinistra sono la stessa cosa, se ci fosse stato un sindaco del PDL o della Lega, non avrebbe fatto la stessa cosa del sindaco di centrosinistra?” O anche: “La sinistra è peggio della destra perché ci prende anche per il culo”. E lo striscione che recitava: “Né rossi né neri siamo solo tranvieri!”, portato in piazza ripetutamente dalla dirigenza sindacale della FAISA, sintetizzava al meglio questa strategia incentrata unicamente sulla rivendicazione di categoria. Punto di vista ovviamente non condivisibile ma non privo di una sua logica e sensatezza. Come non comprendere il ripiego sulla categoria quando, di fronte, tutte le forze politiche sono lì pronte a sbranarti? Che in quei giorni, tra i lavoratori AMT si sia ampiamente consolidata l’idea che la politica serve solo a mettersi in tasca i soldi pubblici e a fottere il popolo, non è poi così inspiegabile. Senza troppe difficoltà i sindacati hanno raggiunto il duplice scopo di evitare che alla lotta dei tranvieri fosse messo qualsiasi cappello politico istituzionale e di bloccare sul nascere qualsiasi presa di un discorso politico di classe tra i lavoratori.

Alla strategia sindacale ha dato manforte l’azione delle forze di polizia, le quali durante le cinque giornate genovesi hanno tirato fuori tutto l’armamentario classico controrivoluzionario. Ad una raccolta capillare delle informazioni attraverso la delazione sindacale, hanno affiancato un’azione costante volta a creare disinformazione e confusione tra i lavoratori. Passando nei cortei a mostrare foto di presunti infiltrati (probabilmente raffiguranti militanti di forze politiche antagoniste cittadine), facendo domande ai lavoratori su loro contatti e conoscenze di compagni e militanti, istigando la dirigenza sindacale a creare una divisione netta tra i lavoratori e i cittadini. Proprio nei momenti in cui la protesta appariva più salda, più appoggiata dalla città, più unita tra i lavoratori, la Digos lavorando tramite i suoi informatori, i suoi infiltrati, le sue conoscenze mirava a scompaginare l’unità di classe. I compagni e le compagne, gli attivisti e le attiviste scese in piazza a fianco dei lavoratori si sono visti allontanare improvvisamente o apostrofare malamente da parte di qualche piccolo gruppo di autisti, dopo la simpatia e l’approvazione mostrata da parte della maggioranza di lavoratori. Ovviamente l’azione poliziesca non ha avuto un’efficacia complessiva ma è servita a corroborare la strategia sindacale di messa al bando del politico (lotta di classe), volta a mantenere il controllo della situazione.

I sindacati hanno usato le giornate di lotta, da una parte, come una valvola di sfogo della rabbia dei lavoratori suscitata dal continuo attacco alle loro condizioni di vita, ai salari e dalla serie di promesse rivelatesi infondate fatte dai partiti politici e dai sindacati. Dall’altra l’obiettivo, in primo luogo della FAISA, sindacato maggioritario tra i lavoratori AMT ed esistente esclusivamente a Genova, era quello della mera sopravvivenza. Senza la lotta, la privatizzazione dell’azienda sarebbe stata portata a termine subito e senza compromessi. Tutte le tessere sindacali della FAISA a quel punto sarebbero state stracciate e quel sindacato sarebbe definitivamente scomparso. Ma è riuscito il sindacato giallo e autonomo ha centrare il suo obiettivo? L’immagine del capo sindacale Gatto costretto a fuggire dalla sala Chiamata racconta una storia un po’ diversa.


Il paese legale non è il paese reale


Sarebbe stupido imputare quanto accaduto a una presunta incapacità del quadro sindacale a svolgere con un minimo di professionalità il proprio mestiere. Di contratti bidone e svendite delle lotte operaie ne abbiamo visti troppi per farci abbagliare da una simile ipotesi. Quanto accaduto a Genova non pone in discussione la bravura o meno di questa o quella direzione sindacale, bensì il ruolo stesso che il sindacato, in quanto organizzatore della forza lavoro, assume, o meglio non assume, nel mondo contemporaneo. Questo perché i margini per una mediazione si stanno annullando in maniera sempre più accelerata e, al proposito, è utile ricordare come esponenti di primo piano della borghesia imperialista, Ichino tanto per citarne uno tra i più noti, da tempo dichiarino apertamente che il ruolo storico del sindacato, (Ichino e soci parlano del sindacato tout court non del sindacato conflittuale e di classe), sia giunto ormai al capolinea. Questo è a tutti gli effetti il nodo della questione. Ed è esattamente intorno a ciò che la partita si gioca per intero. Corporativa o meno, la FAISA non ha potuto sottrarsi agli effetti di un progetto strategico coltivato, sotto il profilo concettuale, dalle punte di diamante della borghesia imperialista e, volta per volta, posto soprattutto in atto da quel partito politico, il PD, che a tutti gli effetti si configura come il soggetto politico che ha sposato per intero l’ipotesi della costituzione del Polo imperialista europeo. Progetto le cui ricadute, con ogni probabilità, la FAISA non è neppure in grado di percepire o di porre, in qualche modo, all’orizzonte della sua riflessione analitica.

In AMT, da tempo, i sindacati confederali avevano perso la presa su gran parte della forza lavoro la quale, come spesso accade in tali circostanze, era entrata in massa dentro un sindacato “apolitico” e dai forti tratti “corporativi”, in questo caso la FAISA, il quale, almeno sul piano dei buoni propositi, dichiarava di non essere la “cinghia di trasmissione” di alcun partito politico e di non essere disposto a svendere gli interessi dei lavoratori in nome di qualche alchimia politica. Come è noto, però, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e a ciò non è sfuggita neppure la FAISA. Esattamente un anno fa insieme ai compari di merende confederali, essa firmava un accordo fortemente al ribasso ed estremamente penalizzante per i lavoratori, avendo dall’Amministrazione comunale l’assicurazione che i grossi sacrifici chiesti in termini salariali non sarebbero stati reiterati e che, proprio grazie a quei sacrifici, l’azienda avrebbe potuto rimettersi in carreggiata scongiurando definitivamente lo spettro della privatizzazione. Su ciò, tra l’altro, il Sindaco Marco Doria aveva giocato gran parte della sua campagna elettorale. Non solo l’AMT ma tutte le aziende “partecipate”, nel caso fosse stato eletto Sindaco, non avrebbero mai corso il rischio di essere privatizzate. Tutto ciò gli aveva fatto ottenere non pochi consensi tra i lavoratori delle municipalizzate e, a fronte di un astensionismo particolarmente diffuso, gli aveva consentito di vincere le elezioni. Poco più di un anno dopo, tutto questo è saltato.

La Giunta, senza troppi giri di parole, annuncia l’imminente privatizzazione di AMT. La FAISA si trova obiettivamente costretta a far sue le istanze e la rabbia dei lavoratori. Tutto ciò dura lo spazio di qualche giornata sino a quando, attraverso una votazione burla, accetta le offerte che, nel frattempo, Regione e Comune si sono affrettate a porre nero su bianco. Tra l’altro, questo, dopo che il giorno prima il consiglio comunale a porte chiuse aveva votato la delibera contenente le direttive generali sulla privatizzazione di tutte le aziende partecipate. Una delibera che non è certo stata ritirata con la firma dell’accordo. L’accordo, già firmato dai sindacati nella notte di venerdì 22 novembre e sottoposto ai lavoratori riuniti in assemblea la mattina del giorno successivo, prevede che l’azienda rimanga pubblica, trovando gli otto milioni necessari a rimettere in sesto il bilancio, una metà ad opera di Comune e Regione ed un’altra metà da parte dell’azienda stessa attraverso la riorganizzazione interna, la riduzione degli sprechi, un aumento del controllo dell’evasione tariffaria da parte degli utenti. Ma soprattutto attraverso l’esternalizzazione delle linee collinari, ossia di quelle linee che permettono di raggiungere le parti di città poste sulle alture e che pertanto sono della massima necessità per le fasce di popolazione non certo ricche che le abitano.

Ecco il grimaldello che permette l’ingresso di un privato nell’azienda pubblica. Inoltre tale accordo ripropone la contrapposizione tra interessi immediati di un comparto lavorativo (almeno sulla carta, nessun taglio ai salari e nessun aumento di orario, nessun esubero) in contrapposizione agli interessi più generale di una parte della popolazione (l’inizio della privatizzazione di alcune linee di bus). Questa è stata evidentemente l’unica exit strategy trovata sul momento dal potere politico, in attesa di avere la forza per mettere il piede sull’acceleratore delle politiche di privatizzazione, magari potendo contare su più solide coalizioni politiche e una più efficace strategia di “militarizzazione” preventiva del conflitto, che cerchi di impedire sul nascere l’accumulo di forza operaia. Il nettissimo profilo repressivo rivendicato ed assunto dallo Stato nei confronti dei lavoratori Amt, una volta avvenuta la loro smobilitazione, con la retorica della “punizione esemplare” apertamente sbandierata, è un anticipo di come il Potere politico si prepara a gestire prossimamente questo tipo contraddizione. Tornando nel merito dell’accordo, comunque appare chiaro che si tratta di un accordo farlocco e inesigibile. Intanto, perché difficilmente l’azienda troverà i quattro milioni di sua competenza attraverso una riorganizzazione interna e attraverso la lotta all’evasione tariffaria, in secondo luogo perché non sarà facile trovare un privato che di buon grado prenda in mano un segmento di un’azienda a così alta conflittualità come l’AMT ha dimostrato di essere.

Ai lavoratori questo è risultato subito chiaro. Non per nulla durante l’assemblea di sabato mattina la tensione si toccava con mano. Interventi dai toni accesi si sono susseguiti per oltre due ore e la maggioranza dei lavoratori se da una parte avrebbe voluto resistere e rifiutare l’accordo beffa, dall’altra cominciava a rendersi conto che non era possibile andare avanti ad oltranza senza avere un’organizzazione politica che supportasse e dirigesse la lotta verso degli obiettivi concreti, posti all’interno di una strategia precisa. Per quattro giorni i sindacati li avevano portati in giro per tutta la città, evitando che le proteste montassero oltre un certo limite e chiedendo una prova di pazienza e abnegazione a tutti i lavoratori, al quinto giorno sulla loro disperazione, rassegnazione, stanchezza e confusione provavano a far passare un accordo beffa. Che fare? Nessuno in quell’assemblea poteva risolvere la questione, perché solo una forza politica organizzata in grado di raccogliere e dare una direzione alle esigenze e alle lotte della classe poteva essere in grado di farlo. D’altra parte l’orgoglio, la dignità, la forza sedimentate nelle giornate di lotta e la coscienza maturata nella partecipazione collettiva rendevano i lavoratori AMT incapaci di scegliere la resa. Situazione di stallo. Ore 12.30. Di lì a poco l’assemblea si sarebbe sciolta, le autorità politiche si aspettavano dai sindacati che portassero a casa la ratifica dell’accordo da parte dei lavoratori e che lo sciopero cessasse.

Inoltre i rischi politici per le segreterie sindacali erano, esponenzialmente, in aumento a causa dell’imminente corteo cittadino in sostegno ai lavoratori in lotta e contro le privatizzazioni convocato per il primo pomeriggio. In quel contesto, se l’accordo fosse stato rifiutato con conseguente continuazione dello sciopero, quel corteo avrebbe potuto avere dei numeri e una forza difficilmente addomesticabile. Il tempo era poco e ai sindacalisti rimanevano poche vie  d’uscita. A quel punto i lavoratori, dentro una sala in subbuglio, dal palco vengono chiamati a contarsi: i favorevoli all’accordo a destra, i contrari a sinistra. Neanche il tempo di dar modo alle parti di stabilizzarsi che, attraverso una foto scattata in fretta e furia tramite cellulare dal leader della FAISA Gatto, si certifica che l’Assemblea ha approvato l’accordo. Nessuna discussione ma neppure il più elementare dei principi democratici: “Una testa, un voto”, rientra nella procedura del sindacato.

L’incredulità prima, l’indignazione, lo sconcerto e la rabbia poi si dipingono sul viso dei più. Li stanno svendendo e lo stanno facendo togliendo dignità a tutto quello che era stato fatto fino a quel momento, con una votazione che ha del grottesco. Partono gli insulti, gli animi si accendono, la sala è un mare in tempesta, dal palco la partita è chiusa repentinamente. Vince il Sì al 70% dicono, ad occhio, i sindacati. Il resto ha ben poco di originale. Le dirigenze  sindacali parlano con i giornalisti e si dileguano, i lavoratori tentano fino all’ultimo di rimediare ma nelle rimesse l’unità cede e la lotta per il momento si arresta. Questa la cronaca di una capitolazione annunciata. Annunciata perché se la votazione è stata evidentemente falsata, non si può neppure sostenere che la maggioranza dei tranvieri avrebbe voluto, e soprattutto potuto, continuare lo sciopero. La maggioranza dei lavoratori si è resa perfettamente conto che non era possibile andare avanti in quel modo, con le multe che si accumulavano, le precettazioni e soprattutto senza che politicamente qualcosa fosse in grado di fare la differenza. Lo sciopero non era dilagato in altre città, i lavoratori e i subalterni della Lanterna non erano andati oltre attestati verbali di solidarietà, una tregua era l’unica ipotesi possibile agli occhi di chi la lotta l’aveva retta tutta sulle sue spalle fino a quel momento. Il dato più importante uscito dalla fine della lotta di sabato 23 novembre è stato la delegittimazione totale dei sindacati, compreso quello autonomo che ancora aveva voce in capitolo tra i lavoratori. La FAISA si ritrova fortemente ridimensionata e ben difficilmente sarà ancora in grado di esercitare quel livello di egemonia che, ancora cinque giorni prima, l’aveva fatta apparire non solo forte ma florida e autorevole.

L’errore della FAISA, in pieno panico cognitivo, è stato negare ai lavoratori quella dignità politica che si erano conquistati in battaglia, imponendogli una modalità decisionale da gregge invece che da corpo unito e cosciente di operai in lotta. Alla prefigurazione dei soviet, dei consigli dei lavoratori nata dalla loro azione di lotta, i sindacati si sono trovati costretti a ripiegare sulla decisione calata dall’alto e, per di più, a farlo attraverso una procedura decisamente beffarda. Una mossa chiaramente fallimentare, delle cui conseguenze negative non è possibile pensare che le dirigenze sindacali, per quanto ottuse, non si rendessero conto. Il punto è che in quel momento esse non avevano altra scelta possibile. Avevano le spalle al muro e si trovavano in quella condizione, nonostante la linea di condotta studiata e messa in atto con disciplina nelle giornate precedenti, perché il sindacalismo tradizionale all’interno di questa fase storica oggettivamente non ha più la possibilità di svolgere un ruolo di concertazione e mediazione. Perché di fatto il tempo della mediazione è finito. Storicamente, durante il Novecento, nel nostro Paese e in quei Paesi dell’Europa occidentale facenti parte del Patto Atlantico la mediazione sindacale è stata uno degli strumenti fondamentali attraverso cui il patto socialdemocratico è stato messo in forma. Se vogliamo, il punto massimo di quel patto nel nostro Paese è stato rappresentato dalla firma dello Statuto dei lavoratori. Frutto di lotte agguerrite da parte della classe operaia, quel patto ha sancito un punto di mediazione nel rapporto conflittuale tra capitale e lavoro salariato in cui i due termini del rapporto si riconoscevano mutualmente sullo stesso piano e con pari diritti. Come diceva Marx, a pari diritti, vince la forza. Una forza che la classe operaia italiana traeva anche dall’esistenza del blocco socialista e dalla paura che le classi dominanti del nostro Paese e l’imperialismo Nord Atlantico avevano del possibile innesco di un processo rivoluzionario all’interno dei propri confini. Dall’’89 in poi questo scenario è tramontato. Una grande trasformazione ha avuto inizio, quella che in molti hanno chiamato la fase globale del capitalismo.

Una serie di processi che per necessità di sintesi potrebbero essere ascritti tutti sotto il segno della globalizzazione economica hanno modificato sempre più nettamente i rapporti tra capitale e lavoro salariato nei paesi dell’Europa occidentale. Gradualmente il sistema di Welfare che contraddistingueva l’area nordatlantica è stato smantellato. La crisi economica del capitalismo, acutizzatasi e diventata palesemente crisi sistemica, dal 2008 ha velocizzato le  trasformazioni in atto e reso sempre più dura la lotta di classe dall’alto condotta dalle classi dominanti per continuare a fare profitti nonostante la caduta del saggio di profitto renda il processo di valorizzazione del capitale sempre più difficoltoso. Questa sintetica e sommaria ricostruzione delle trasformazioni epocali cui abbiamo assistito negli ultimi venticinque anni serve a chiarire perché e dentro quali cambiamenti storico-politici il ruolo di mediazione e  concertazione svolto dai sindacati sia venuto meno. Serve dunque a chiarire perché nonostante le buone intenzioni, la FAISA si sia trovata nel vicolo cieco che l’ha portata a mancare il suo obiettivo: sopravvivere alla tempesta operaia.


Organizzazione di massa e soggettività politica

La risposta a tale domanda, ci conduce esattamente dentro il cuore della questione. In apparenza quanto accaduto potrebbe sembrare paradossale: il potere politico, negandogli qualsiasi funzione concertativa concreta, ha  tranquillamente permesso che un sindacato corporativo (quindi quanto di più distante possa esistere da un sindacato conflittuale e di classe) potesse essere sacrificato. Ma si tratta proprio di un sacrificio oppure, dietro la contingenza di questa vicenda, vi è qualcosa di decisivo? Un vero e proprio “di più”? Ciò che, da quanto accaduto, sembra sensato trarre è la necessità, da parte del potere politico, di accelerare la scomparsa di qualunque forma di rappresentanza sociale da parte dei lavoratori. Poco importa che tale rappresentanza sia consociativa o corporativa poiché, questo il cuore strategico dell’operazione oggettivamente condotta dalle classi dominanti, ogni forma di rappresentanza presuppone il suo riconoscimento pubblico ma non solo. Ogni forma di rappresentanza, e quanto accaduto nelle cinque giornate di Genova lo conferma ampiamente, è sempre foriera di un pericolo latente. Con ogni probabilità, senza la presenza così forte e radicata della FAISA dentro l’AMT, la lotta degli autisti non avrebbe potuto esprimersi attraverso la forma legittima, ancorché “selvaggia”, dello sciopero ma sarebbe stata costretta a declinare immediatamente nella rivolta. Esattamente questa sembra essere la vera ciccia della questione. Questo il vero scarto storico con il quale dobbiamo misurarci. Compito non facile perché, quanto è ormai in atto, rompe con tutta una tradizione storica non solo del movimento operaio e proletario ma con la stessa linea di condotta delle classi dominanti. Ciò a cui, sin dall’epoca fascista, abbiamo assistito è stata la necessità da parte delle classi dominanti di irreggimentare la classe operaia dentro strutture il cui principale compito era quello di contenerle. Ciò che è stato vero per i sindacati fascisti è diventato forse ancora più palese per i sindacati riformisti e consociativi. Volta per volta il problema, ridotto all’osso, era sempre quello di limitare la rappresentanza entro perimetri ben definiti. In poche parole scongiurare l’affermarsi, dentro l’organizzazione di massa, di una linea di classe in grado di spostare sul terreno della politica rivoluzionaria le contraddizioni del modo di produzione capitalista. L’alternativa che costantemente doveva porsi era riforma o rivoluzione. La parentesi fascista, in fondo, non si è staccata di molto da ciò. La “nazionalizzazione delle masse” di stampo fascista, notoriamente, è stata accompagnata da una serie di politiche sociali inclusive che avevano l’esatto scopo di legare la classe al regime. Il problema era sempre lo stesso: far sì che la classe approdasse a una forma politica, il nazionalismo e/o il riformismo, a discapito dell’ipotesi rivoluzionaria. Tutte queste opzioni, per quanto diverse tra loro, hanno un tratto comune: il riconoscimento della dimensione politica della classe. Dimensione che le classi dominanti non ponevano in discussione.

Questa, però, è ormai storia di ieri. Ciò che oggi si afferma, rispetto a tutta l’esperienza Novecentesca, è qualcosa di assai diverso. È il rapporto Stato – masse che si modifica alla radice tanto che, anche se non è questo il luogo in cui si può affrontare la questione, si può iniziare a parlare di “Stato caritatevole” (si veda al proposito l’ipotesi sul reddito minimo) il quale ha come suo presupposto la messa al bando delle masse dalla scena politica. Di ciò, Berlusconi era stato un solerte anticipatore quando, qualche anno addietro, aveva candidamente annunciato: “Della questione sociale se ne occupino le Chiese e gli Istituti caritatevoli”. Le classi dominanti oggi, rispetto all’intero ‘900, perseguono un obiettivo ben diverso: la fine della rappresentatività politica e sociale delle masse e il loro confinamento in un ambito entro il quale l’alternativa non si pone più tra riforma o rivoluzione bensì tra rassegnazione o rivolta. Alternative alla base delle quali la dimensione politica è definitivamente elusa. Allora sembra chiaro che qualunque ragionamento intorno alla rappresentanza non possa che fare i conti con questo passaggio. Paradossalmente non si pone neppure più, o almeno non più di tanto, il problema del rapporto con le organizzazioni di massa prone al consociativismo o al corporativismo poiché queste stesse organizzazioni hanno perso gran parte della loro funzione. Si tratta, quindi, di pensare e ricostituire l’organizzazione di massa avendo a mente lo scenario completamente nuovo che si è determinato. Ciò che è vero per l’organizzazione di massa vale, forse ancor più, per la soggettività politica. Come si è visto,  tranne la nostra realtà e qualche altro piccolissimo gruppo, nessuna organizzazione politica si è posta nell’ottica di relazionarsi con la lotta AMT. Questo non è un caso.

Nessuna forza politica istituzionale ha potuto, solo lontanamente,  rapportarsi con i lavoratori AMT poiché per tutte le forze politiche istituzionali la necessità dell’inclusione delle classi subalterne nello Stato e dunque della loro rappresentanza politica è venuta meno. Come sappiamo, nonostante la partecipazione politica della popolazione (aumento esponenziale dell’astensionismo) sia in caduta libera, di ciò le forze politiche non si mostrano per nulla preoccupate, anzi. Ciò che all’orizzonte si prefigura è una rappresentanza politica dell’appena il 40% della popolazione, con intorno una sterminata quantità di subalterni ridotti a semplici masse senza volto. Dentro questo scenario politico, obiettivamente nuovo e mai sperimentato, siamo costretti a misurarci. Passaggio irto di ostacoli ma che può vantare anche un non secondario vantaggio per le avanguardie di classe: dentro i territori proletari non sembra porsi il problema di dover competere con le tradizionali forze politiche socialdemocratiche il cui principale scopo era quello di catturare il consenso tra ampie quote di subalterni. Al proposito è abbastanza significativo che il PD, il giorno dopo la conclusione dello sciopero, non sia corso nei quartieri a cercare di recuperare la frattura ma, con un cinismo che rasenta l’imbecillità e la provocazione, ha riempito i bus di enormi cartelli elettorali in vista delle sue primarie. Quanto accaduto, evidentemente, per il PD non ha alcuna importanza. La sua estraneità ai luoghi di lavoro e ai territori proletari non solo non è un problema ma sembra essere addirittura rivendicata. Così come, nel corso della lotta dei lavoratori AMT, nessuna forza politica istituzionale (tranne Grillo il quale ha cercato, senza trovarla, una vetrina elettorale e ha dovuto velocemente abbandonare i cortei), si è presentata in piazza con lo scopo di offrire una rappresentanza politica concreta ai lavoratori, è difficile pensare che, oggi, queste stesse forze politiche si presentino di fronte alle autorimesse o nei quartieri maggiormente abitati dai tranvieri per “recuperare” la loro assenza. Esse semplicemente non sono interessate a farlo e non lo faranno.

Lo stesso Movimento 5 Stelle quando a entrare in ballo sono questioni concrete e materiali si scioglie come neve al sole. Un conto è urlare Vaffanculo al mondo, un conto è schierarsi su questioni quali salario, servizi pubblici, privatizzazioni, liberismo, Fiscal Compact ecc. Un conto è gridare genericamente una serie di insulti contro la “casta”, altra cosa è affrontare i padroni come classe coesa e organizzata. Di fronte a ciò, il Movimento 5 Stelle, non può che darsela a gambe levate. Obiettivamente non ci siamo che noi, le avanguardie di classe che muovono i primi passi verso la costituzione di una soggettività organizzata. Il che, di per sé, vuol dire tutto e nulla. Ci siamo solo noi in potenza, il che è ben diverso dal poter dire ci siamo realmente e a tutti gli effetti. Diciamo però che abbiamo il dovere di provarci. Dobbiamo, pur con tutti i limiti che indubbiamente abbiamo, iniziare a costruite degli embrioni di organismi di massa sul territorio. Dobbiamo lanciare una campagna di solidarietà verso i lavoratori AMT e una propaganda sulle privatizzazioni e le sue ricadute. Lì, dove per una settimana l’accumulo di forza di classe si è mostrato maggiore, dobbiamo cercare di inserire un cuneo di classe e comunista. Nel vivo della lotta, durante le giornate frenetiche di sciopero, abbiamo tastato con mano quanto i tanti anni di assenza delle forze politiche di classe dentro i territori operai abbiano pesato sulla possibilità di creare legami e fiducia con i lavoratori.

Abbiamo visto le forze di polizia creare disinformazione tra i lavoratori, i quali faticavano a riconoscere immediatamente in noi, seppure fossimo in quel momento concretamente al loro fianco, i propri compagni di lotta. I legami, la  fiducia, la legittimità politica non si costruiscono nel giro di un attimo, non basta l’entusiasmo o il furore della lotta. Ciò che serve è l’aver fatto un lavoro quotidiano costante, la presenza e l’impegno dentro i territori di classe per poter svolgere il ruolo di avanguardie anche nel vivo della battaglia. Di tutto questo abbiamo avuto riscontro pratico durante le giornate di lotta. Così come ci siamo resi conto concretamente di come fossero sensate alcune intuizioni sulla difficoltà di ricostruire la ricomposizione di classe a partire da figure lavorative e lotte trainanti. I lavoratori AMT hanno mostrato una compattezza e una unità al loro interno quasi sorprendente. La loro compattezza e la loro determinazione però non sono bastate a tirarsi dietro altre categorie di lavoratori e a portarle in sciopero. Perché? Non certo perché tra gli altri lavoratori sia mancata la condivisione della rabbia e della necessità di lottare contro le condizioni di sfruttamento sempre peggiori che vengono imposte dalle classi padronali. Non certo perché si sia creata una frattura tra chi ancora ha un lavoro parzialmente garantito e chi vive condizioni lavorative fondate sulla  precarietà. Anzi, il tentativo fatto dalla propaganda padronale di dividere i lavoratori mostrando gli autisti AMT come privilegiati, come casta che difende i propri privilegi, è naufragato nella sua stessa miseria e insensatezza. I  subalterni sanno perfettamente che nessun salariato oggi è un privilegiato. Sanno, perché lo vivono quotidianamente sulla propria pelle, che il lavoro salariato è sotto attacco nella sua complessità. Che i lavoratori garantiti lo sono ancora per poco e che le classi dominanti tramite l’attacco e la cancellazione di quelle garanzie cercano di imporre condizioni sempre peggiori alla massa di precari e non garantiti.

“Se perdono loro, perdiamo tutti” non è stato uno slogan vuoto ma la consapevolezza che ha unito e suscitato la solidarietà delle classi subalterne durante la lotta dei lavoratori AMT. Eppure, come si notava, questa consapevolezza non è bastata ad innescare lo sciopero di altri lavoratori, a creare una situazione di lotta generalizzata. La massa dei salariati non si è mossa, la protesta non è dilagata. Questo, ci sembra vada ricondotto all’attuale frammentazione  complessiva del mondo del lavoro salariato. Non solo non esistono più i grandi comparti industriali che radunavano centinaia di migliaia di lavoratori nello stesso luogo di lavoro ma per di più le riforme liberiste del lavoro degli ultimi vent’anni hanno creato centinaia di figure lavorative diverse, con forme contrattuali differenti. Spazi, tempi, forme giuridiche e forme contrattuali, dentro il mondo del lavoro salariato, hanno assunto una forma caleidoscopica e questo rende oggettivamente difficilissimo un’unione dei subalterni a partire dai comparti lavorativi. Questo vuol dire allora che è venuto meno il conflitto capitale – lavoro salariato o che non è più questo il nodo centrale su cui fondare la lotta di classe? Chiaramente no. E senza ricorrere ad argomentazione teoriche, in questo caso basta portare l’esempio concreto della lotta operaia da cui ha preso le mosse questo testo. Così come la teoria del valore di Marx mostra oggi tutta la sua validità, è necessario affermare che il conflitto capitale – lavoro salariato resta il motore della lotta di classe.

Però, come abbiamo concretamente sperimentato durante le giornate di lotta genovesi, per la configurazione attuale dei rapporti di produzione, l’accumulo di forza operaia in un singolo comparto lavorativo non basta ad innescare la miccia della conflittualità generalizzata dentro l’insieme degli ambiti lavorativi e questo “semplicemente” perché per una quantità sempre maggiore di forza lavoro la metropoli è la fabbrica diffusa e la precarietà l’orizzonte temporale dentro cui si svolge il proprio lavoro. Dove, a partire da quale base è possibile ricostruire il filo della ricomposizione di classe e accumulare il potenziale necessario a dare respiro politico alle lotte operaie? Se dentro i territori  metropolitani le classi subalterne fossero state pronte a dare manforte ai lavoratori AMT in lotta, organizzando focolai di resistenza, molto sarebbe cambiato nella capacità di reggere la lotta e di resistere. E’ su questo fronte, nel lavoro che sappia riportare e organizzare il conflitto capitale-lavoro salariato dentro ai territori, che sembra sensato lavorare. Partire dalle lotte reali e organizzare il fronte di lotta dentro i territori in cui vivono i subalterni e gli sfruttati. Se al momento non è ancora un programma di lavoro definito, pensiamo occorra lavorare per renderlo tale.


Appunti per una campagna cittadina e per un’inchiesta (da sviluppare nei prossimi mesi)

Seguendo questa linea, come collettivo noi saremo tutto Genova abbiamo deciso di portare avanti quella campagna politica cittadina contro le privatizzazioni, già messa in cantiere precedentemente allo scoppio della lotta dei lavoratori Amt, perché fondamentale ci sembra  dare continuità al lavoro politico cominciato durante le giornate di lotta dei tranvieri, consapevoli che al momento si è giunti solo ad una tregua armata e che i nodi torneranno presto al pettine. Riteniamo che le giornate di lotta dei  tranvieri rappresentino l’opportuna per aprire spazi politici inediti per una campagna cittadina contro le privatizzazioni delle partecipate che riesca a coniugare gli interessi dei lavoratori e quelli della popolazione più in generale. Tale campagna necessita di una assunzione di responsabilità da parte della sinistra di classe, che colga l’importanza di non disperdere la forza operaia accumulatasi nei giorni di lotta. L’indicazione forte data dalle giornate di lotta eccezionale degli autisti e dei lavoratori delle partecipate è rimasta sotto-traccia e per ora non si è trasformata in una assunzione di responsabilità collettiva che superi la simpatia e gli attestati di solidarietà virtuale. Si è fermata all’incipit di un movimento d’opinione. Riteniamo fondamentale trovare le forme e le formule in grado di stimolare l’attivazione dei militanti politici di base, degli attivisti delle reti associative, dei singoli del partito “disperso e diffuso” che hanno risposto positivamente agli stimoli dati dall’azione dei lavoratori, per intraprendere un percorso collettivo di mobilitazione e organizzazione. In altre parole, si tratta di dare un impulso decisivo verso la costruzione delle basi soggettive per lo sviluppo di una organizzazione metropolitana di massa. Una organizzazione che sappia confrontarsi con i bisogni popolari, fare i conti con le specificità territoriali , con i loro diversi tessuti relazionali e associativi. Pensiamo che le indicazioni provenienti dalla lotta, a partire dall’azzeramento della credibilità delle rappresentanze sindacali, dalla delegittimazione della politica a tutti i livelli, vadano nella direzione di provare a sperimentare forme di aggregazione di classe inedite attorno a quei nuclei di lavoratori maggiormente consapevoli e combattivi. Senza nulla togliere al contributo che un sindacato di classe e conflittuale potrà apportare alla crescita di questi lavoratori, soprattutto se sarà in grado di andare oltre alla giusta sfida alla rappresentanza sindacale dei sindacati corporativi o subalterni alla sinistra istituzionale, noi riteniamo fondamentale sviluppare la conflittualità di classe nella sua dimensione metropolitana . Questo anche perché un numero sempre più rilevante di sfruttati non è sindacalizzabile ma è senz’altro organizzabile su altri terreni, dove il contributo di questo precariato sociale diffuso diventerà sempre più determinante. Inoltre ci sembra necessario e importante attrezzarci per condurre un’ inchiesta approfondita sulle punte più avanzate della composizione politica di classe che ha portato avanti la lotta eccezionale dei tranvieri genovesi. Si tratta della componente più giovane e meno politicamente rappresentata. Questa parte di lavoratori, fuori dall’ambito strettamente lavorativo, vive condizioni che spesso sommano al disagio abitativo delle periferie post-industriali, caratterizzate proprio dalla carenza dei servizi anche a livello di mobilità, quello della progressiva scomparsa delle forme aggregative popolari e del controllo  capillare sui propri comportamenti individuali. L’inchiesta risponde ad un’esigenza conoscitiva, necessaria ad indirizzare e guidare una prassi all’altezza delle novità che ci troviamo di fronte. Per dirla con Mao, “solo chi fa inchiesta ha diritto di parola”. E, potremmo aggiungere senza forzature, solo chi fa inchiesta può aspirare ad essere un’avanguardia di classe operativa e efficace nelle lotte.

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