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Le stesse cose che ritornano

L’Europa e il nostro sciopero contro la miseria del presente

Sciopero dentro e contro lEuropaInsieme a molti altri abbiamo ripetuto che l’Europa è il terreno minimo di lotta. Di fronte agli stati di emergenza, al terrorismo di Daesh, alle guerre dichiarate o semplicemente praticate, dopo le recenti elezioni francesi sembra di essere catturati in un’infinita involuzione europea. Sembra che le stesse cose continuino a ritornare per minacciarci con la loro miseria. Eppure proprio di fronte a tutto questo noi siamo quanto mai convinti che l’unica scelta praticabile sia fare dell’Europa un terreno di scontro diverso da quello che ci vogliono imporre. La scala di tutti i processi nei quali siamo coinvolti è quanto meno europea: la cupa oppressione che grava su di noi non rispetta i confini nazionali, i movimenti sui quali possiamo fare affidamento ci attraversano senza pace. La difficoltà del momento risiede nell’essere all’altezza di queste dimensioni transnazionali. Nessuno oggi può difendere l’Europa realmente esistente, possiamo solo utilizzare questo spazio mobile, solcato da profonde differenze, per costruire un progetto politico di liberazione dal regime globale di sfruttamento, guerra e terrore. Solo dentro l’Europa e contro l’Europa rivela il suo senso politico la proposta lanciata a Póznan di una giornata di scioperi e iniziative coordinate a partire dalla centralità politica del lavoro migrante. Il primo marzo 2016 deve essere l’esperimento su scala europea del nostro sciopero contro la paura. In gioco c’è molto di più di una giornata di solidarietà con i migranti. In gioco c’è la nostra capacità collettiva di rovesciare le miserie del presente.

Lo diciamo chiaramente: dentro alla presente condizione dell’Europa, il lavoro migrante non solo può rendere realmente sociale e transnazionale lo sciopero, ma può anche lanciare un segnale di insubordinazione nei confronti di un regime fatto di xenofobia, razzismo e precarietà. I migranti sono molto di più che individui da accogliere e da accudire. Sono una massa di uomini e donne che si stabilisce in Europa cambiandola per sempre. La loro presenza ha due caratteristiche fondamentali: una disponibilità al lavoro imposta dalle misure legislative e amministrative che regolano la loro presenza e il rifiuto pratico di una mobilità governata. I migranti non sono una figura della produzione sociale tra le altre: la loro posizione indica concretamente le dinamiche attorno alle quali si costituisce la precarietà come condizione globale: il lavoro migrante nella sua apparente specificità esprime una condizione generale e perciò permette di rompere un assetto del lavoro fondato su quella segmentazione che costringe le figure del lavoro a prendere parola isolatamente o come categorie. Partire dal lavoro migrante oggi significa porre come problema le condizioni politiche dello sfruttamento, ovvero quel governo della mobilità – l’insieme di misure e pratiche che mirano a limitare e sfruttare i movimenti interni allo spazio europeo – che sempre più drasticamente colpisce anche chi ha in tasca un documento europeo di cittadinanza; significa riconoscere che la precarietà sta dentro e fuori i luoghi di lavoro, perché è prodotta tanto dal regime del salario, quanto dal progressivo svuotamento dei diritti; significa assumere come fatto che la riproduzione sociale è sempre più basata su una divisione sessuale del lavoro transnazionale e sulla salarizzazione delle prestazioni di cura; significa attraversare la fabbrica non come luogo di un’uguaglianza di categoria o nello sfruttamento, ma come spazio che si alimenta di differenze e le produce.

La centralità politica del lavoro migrante è evidente alle istituzioni europee, che dopo qualche oscillazione hanno deciso di rispondere alla tempesta scatenata dai migranti sui confini con l’accentramento e l’irrigidimento del governo della mobilità, estendendone il raggio anche fuori dall’Europa. Per evitare di essere un passo indietro rispetto a questa aggressione ci dobbiamo allora domandare: come possiamo noi offrire una prospettiva organizzativa che renda chiaro che il primo marzo non riguarda solo i migranti, ma tutti coloro che migrano da un lavoro all’altro, coloro che sono costretti a pagare anche i servizi più necessari, coloro ai quali viene negata persino una dimora, coloro che si sentono schiacciati da una condizione precaria che pare non offrire uscita? Come possiamo noi, qui, ora e in ogni punto d’Europa, fare dello sciopero una possibilità nelle mani di chi ogni giorno fa esperienza della precarietà dentro e fuori i posti di lavoro, rendendolo finalmente sociale e transnazionale? Come possiamo rovesciare la fascinazione sovranista, nazionalista e identitaria che si fa largo come risposta alla crisi e alle sue insicurezze?

Come radicare una lotta espansiva sul piano transnazionale è un rompicapo politico la cui soluzione non è data. Radicamento ed espansività trovano nella dimensione territoriale, nella quale tutti necessariamente ci muoviamo, un limite che dobbiamo riuscire a superare per ampliare la nostra capacità di iniziativa. Non abbiamo bisogno di fortini in cui difenderci, ma di strumenti mobili di connessione per contrattaccare. Non è solo un radicamento territoriale che dovremmo cercare, ma un radicamento politico. Le pratiche di sindacalismo sociale colgono il problema di organizzare una precarietà che esce dal posto di lavoro per investire la vita, ma rischiano contemporaneamente di tradursi in esperienze molecolari vocate a replicare la segmentazione del lavoro contemporaneo, oppure a dare per scontato che il piano vertenziale possa sostituirsi all’iniziativa politica.

Partire dalle questioni politicamente centrali sollevate dal lavoro migrante offre alle esperienze e alle vertenze già in atto sui territori una via d’uscita dal confinamento e dalla segmentazione. Il lavoro migrante può infatti essere il vettore che permette di condensare le iniziative già in campo e produrne di nuove attorno al progetto dello sciopero. Può essere lo strumento discorsivo e organizzativo che ci permette di svelare e rovesciare i rapporti di forza che l’Europa vuole imporre. Si tratta allora di costruire in ogni territorio le strutture incaricate di realizzare questo progetto verso il primo marzo: luoghi di comunicazione all’interno dei quali diverse figure del lavoro e diverse condizioni di precarietà possano efficacemente riconoscersi nel percorso verso questa prima sperimentazione transnazionale dello sciopero sociale.

Costruire questi luoghi di coordinamento significa produrre processi che devono portarci ad andare oltre le identità di partenza. I laboratori per lo sciopero sociale hanno funzionato, in Italia, per fare del 14 novembre 2014 un processo condiviso di politicizzazione. Oggi una coalizione che voglia efficacemente portare avanti questo metodo non dovrebbe ridimensionare la sfida di «organizzare l’inorganizzabile» alla più debole prospettiva di «rappresentare il non rappresentato», per occupare gli spazi lasciati vuoti dai sindacati tradizionali. Il sindacalismo sociale non può esistere solamente in spazi trascurati o abbandonati da altri. Esso deve avere l’audacia di un progetto complessivo, che non può risolversi nella lotta di categoria o in un confederalismo minore. Come il mutualismo non può essere semplicemente un benevolo soccorso, così il sindacalismo di cui abbiamo bisogno deve prendere le mosse dalla crisi profonda e irreversibile del sindacalismo esistente, per osare qualcosa di più e di diverso della somma tra le pratiche dei centri sociali e quelle del sindacato. Esso non può essere la somma di due tradizioni, più o meno efficaci a seconda dei contesti locali, ma la rottura di entrambe.

Proprio perché partiamo da questa necessaria sperimentazione, noi sappiamo che il prossimo primo marzo non realizzerà il progetto dello sciopero sociale transnazionale in tutta la sua ampiezza. Pensiamo però che a partire dai e dalle migranti e dall’insieme delle questioni politicamente centrali del lavoro migrante sia possibile ricominciare a immaginare e praticare forme di connessione, organizzazione e coalizione dentro e fuori i posti di lavoro. Lo sciopero del primo marzo 2010 ci offre un bagaglio di esperienza, perché ha visto – ad esempio – gli operai delle grandi fabbriche bloccare i cancelli non solo in difesa del contratto nazionale di categoria, ma per consentire di scioperare ai migranti addetti alla manutenzione e formalmente inquadrati come «soci lavoratori» delle cooperative, sfidando limiti che apparivano invalicabili. È in questa direzione che dovremo muoverci; abbiamo la possibilità di coordinare i ricercatori universitari con le lavoratrici delle pulizie, mostrando il nesso tra una precaria produzione di sapere e lo sfruttamento quotidiano di un lavoro mobile e altrettanto precario. Abbiamo la possibilità di mobilitare i lavoratori dell’«accoglienza» e unire la loro lotta a quella degli «accolti» nella consapevolezza che non basta lottare per il proprio salario se altri saranno costretti – da un permesso di soggiorno o da un visto umanitario – ad accettarne uno sempre più basso o a lavorare come «volontari». Abbiamo la possibilità di chiamare gli insegnanti a uno sciopero contro le misure di «integrazione» scolastica basate sulla subordinazione e la segregazione dei giovani figli di migranti. Abbiamo la possibilità di mettere i lavoratori della logistica in comunicazione attraverso i confini e di bloccare lo scambio delle merci per fare sentire la propria forza contro il permesso di soggiorno che la maggior parte di loro si porta in tasca e il regime del salario Europeo – nei magazzini di Amazon a Piacenza non meno che in Germania e in Polonia. Abbiamo la possibilità di spingere le diverse strutture sindacali oltre le logiche di categoria e di riconoscersi in un processo politico condiviso che possa permettere di accumulare la forza necessaria a vincere le singole vertenze e a rendere le loro lotte espansive. Abbiamo infine l’occasione di sfidare le sempre più deboli rendite di posizione, anche sindacali, che impediscono di assumere l’Europa come terreno fondamentale di lotta contro la precarietà a partire da rivendicazioni tanto problematiche quanto cariche di un potenziale che occorre liberare. Questa è la sfida che abbiamo davanti: se il primo marzo riuscirà a dare corpo, almeno in parte, a queste possibilità, sarà all’altezza del progetto di uno sciopero sociale transnazionale e saprà indicare una direzione percorribile anche dopo il primo marzo. La vera alternativa che abbiamo di fronte è tra una difesa dell’esistente e della nostra fondamentale debolezza e l’assunzione della difficoltà di questo progetto. Lo sciopero sociale non è dietro l’angolo, ma deve essere il problema politico attorno al quale produrre organizzazione in ogni luogo.

È un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo. Solo così lo sciopero sociale può essere qualcosa di più di un’occasionale coalizione di istanze che restano separate e può dimostrarsi ancora un’occasione all’altezza del presente. Solo così si potrà trasformare l’Europa in un terreno di scontro, smettendo di perdere tempo con l’idea di uscire dall’Europa. Le elezioni francesi mostrano che cosa significherebbe praticamente questa uscita e chi può capitalizzare politicamente l’antieuropeismo. Di fronte all’arbitrio padronale e all’avanzata delle destre xenofobe che diffondono la paura in questa Europa, dobbiamo essere in grado di rilanciare la nostra iniziativa su un piano più alto. Il primo marzo e il progetto di uno sciopero sociale transnazionale sono gli unici modi che vediamo noi oggi per stare in Europa contro l’Europa. In Italia la coalizione per lo sciopero sociale può contribuire a tutto questo se riporta al centro la sfida dello sciopero, ovvero il problema di una presa di potere che ci permetta di aggredire lo sfruttamento e l’oppressione vissuti quotidianamente da milioni di precarie, operai e migranti in ogni punto d’Europa, rompendo i confini che li dividono e indicando un orizzonte comune di organizzazione e conflitto. Può farlo se, a partire dal primo marzo dei migranti, si pone il problema di impedire che le stesse cose tornino in continuazione con il loro carico di oppressione.

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