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carmilla

Figli di nessuno. Storie conflittuali nell’alta Lombardia degli anni ’70

di Gioacchino Toni

Sergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90

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«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere». S. Bianchi (p. 34)

Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di pagine rispetto all’edizione del 2015, racconta un periodo di storia conflittuale collettiva nell’alta Lombardia a cui ha preso parte in prima persona l’autore a partire dai primi anni ’70. In apertura di volume, Bianchi sottolinea come quelle insorgenze sociali che hanno investito anche la provincia alto-lombarda, originatesi sull’onda lunga del biennio ’68-’69, possono dirsi concluse nei primi anni ’90 con la diffusione in quei territori del progetto leghista.

Se il biennio ’68-’69 può essere visto come momento di detonazione di quell’onda lunga che poi investirà le realtà di provincia descritte nel volume, secondo Bianchi vale la pena spendere qualche pagina sul “pre-sessantotto” di quelle zone, periodo già precedentemente affrontato dall’autore sotto forma di romanzo (La gamba del Felice, 2006) [su Carmilla]. Il capitolo d’apertura di Figli di nessuno ricostruisce le trasformazioni subite dalla provincia a nord di Milano tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; quasi un quindicennio di lento ed inesorabile declino del mondo contadino distrutto dalla meccanizzazione della campagna a totale beneficio dei grandi proprietari terrieri e da una mentalità individualista che non ha saputo dar vita a soluzioni associative cooperativistiche.

Tutto ciò ha determinato da una parte l’abbandono delle campagne da parte dei giovani e, dall’altro, la perdita d’identità e di autorevolezza sociale della componente più anziana del mondo contadino. Nello stesso periodo la tessitura diviene “la grande fabbrica” di quei territori un tempo contadini. «La conduzione padronale è paternalistica, la classe operaia laboriosa e riconoscente dell’occasione di lavoro offerto. […] Il sindacato è inesistente» (p. 13).

A partire dai primi anni ’60 i processi di modernizzazione riplasmano le fabbriche medio-grandi portando ad una dequalificazione del lavoro, all’espulsione di parecchia manodopera ed all’incentivazione dell’autoimprenditorialità diffusa. A tali trasformazioni si deve aggiungere il fenomeno migratorio che portò nel nord della Lombardia dapprima una manodopera di provenienza veneta, negli anni ’50, poi meridionale, nel decennio successivo. «Per primi arrivano gli uomini […] Si accontentano di stare anche in sei o sette nelle stalle, nelle cantine, nei locali fatiscenti delle case abitate precedentemente dai contadini […] Gli abitanti del paese […] li emarginano e li denigrano per via delle condizioni in cui accettano di vivere e di lavorare (p. 15). Poi è la volta della costruzione di abitazioni durante il tempo extra lavorativo, dunque della chiamata di mogli, figli e genitori che porta al raddoppiamento della popolazione. Parallelamente a tutto ciò si diffonde anche il contrabbando di sigarette con la vicina Svizzera che origina un fenomeno rilevante di illegalità di massa che consente anche ad alcuni settori della popolazione non appartenenti alle classi agiate di avere a che fare con il consumismo e lo spreco.

Da tali premesse prendono il via le storie narrate da Bianchi a partire dalle vicende personali che lo vedono, nativo di Tradate in provincia di Varese, prendere parte dal 1973, sedicenne, al 1978 ad alcuni collettivi autonomi tra Varese, Como e Milano, per poi finire per essere risucchiato in un’interminabile turbinio di arresti e detenzioni che lo proiettano all’interno del carcere speciale di Trani durante la rivolta dei detenuti del dicembre 1980, fino alla scarcerazione ed all’espatrio in Francia ove resta fino a metà degli anni ’80.

All’inizio degli anni ’70 il territorio dell’alta Lombardia era caratterizzato da un processo di sindacalizzazione delle piccole fabbriche e dalla nascita di diversi collettivi di giovani operai, il più delle volte non passati dall’esperienza dei gruppi extraparlamentari ormai in disfacimento. Questa generazione di giovani di provincia si era avvicinata genericamente alla politica ed alla militanza, sull’eco del nascente fenomeno dell’Autonomia operaia e facendo riferimento ai testi teorici di derivazione operaista: «il nostro ambito era costituito a stragrande maggioranza da giovani e giovanissimi operai che dimostravano un’indisponibilità ad accettare le condizioni del regime di fabbrica, l’identità operaia stessa e non avevano assolutamente intenzione di percorrere il terreno sindacale nei termini classici […] Quell’area di giovani operai rimase fortemente influenzata dalle tematiche operaiste: una parola d’ordine come “rifiuto del lavoro” aveva in sé una forte capacità di suggestione nel senso che corrispondeva a un bisogno materiale immediato di non accettare quelle condizioni di vita, solo dopo si è capito che aveva anche un suo rilevantissimo fondamento teorico» (p. 34).

In tale contesto, tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, iniziò a svilupparsi all’interno delle fabbriche del territorio un clima conflittuale senza precedenti e ben presto i militanti compresero che la frantumazione del tessuto produttivo imponeva la necessità di tentare una ricomposizione della classe su base territoriale. Tale bisogno portò alla nascita di uno spazio sociale capace di aggregare un tessuto che si stava pericolosamente sfilacciando all’interno delle piccole unità produttive distribuite nel territorio. Sul finire del 1975 a Tradate, in maniera totalmente autonoma, si organizzò una prima occupazione di uno spazio di proprietà della Curia: «Il nostro centro sociale era immaginato come un posto che doveva servire a ricomporre le varie figure del lavoro operaio frantumate sul territorio» (pp. 35-36). Dopo lo sgombero la lotta per lo spazio sociale si risolve con l’ottenimento di uno spazio da parte delle autorità locali incalzate da una serie di iniziative politiche.

«Comunque, l’elemento conflittuale era prevalentemente generazionale […] Lì c’era una soggettività che spingeva forte sul terreno del rifiuto del lavoro operaio e che faticava a trovare mediazioni, perché l’aspirazione era prioritariamente quella di uscire dalla fabbrica, cosa che poi è avvenuta qualche anno dopo in maniera definitiva: più nessuno, infatti, è rimasto in fabbrica» (p. 36). Tale fenomeno di abbandono della fabbrica coinvolse in quei territori, sottolinea l’autore, centinaia di soggetti che fino ad allora erano stati elementi rappresentativi all’interno dei Consigli di fabbrica. L’età di questi militanti era decisamente bassa, Bianchi sostiene che, attorno alla metà degli anni ’70, nessuno aveva più di trent’anni. «Quel movimento ha costituito una rottura culturale dentro quel territorio, perché la rivolta era anche dentro al famiglia, con il figlio operaio incazzato che si scontrava con il padre operaio sindacalizzato, il quale riteneva folli le argomentazioni e le proposte del figlio» (p. 37).

Nella ricostruzione proposta da Sergio Bianchi emerge come, nonostante questo giovane movimento autonomo avesse finito per affrontare tematiche molto diversificate, legate ai bisogni sentiti da quella generazione, non venne mai messa in discussione l’idea diffusa e condivisa che la centralità doveva restare ben salda sulla questione materiale ed in particolare sulla figura operaia.

I rapporti con Milano iniziarono ad intensificarsi a metà degli anni ’70 e dalla metropoli non mancarono tentativi egemonici nei confronti dei piccoli collettivi della provincia. Anche la realtà di Tradate si trovò presto ad aver rapporti con le diverse anime del movimento milanese; alcune componenti di Potere operaio e di Lotta continua erano confluite nel gruppo di Senza Tregua, maggiormente legato agli ambienti operai, oppure, particolarmente attiva era l’area di Rosso che aveva avuto maggior influenza sui militanti di Tradate. «La teorizzazione dell’“operaio sociale” […] prevedeva un innesto di tematiche che rischiavano di snaturare la tradizionale militanza in fabbrica, la tenuta della centralità operaia […] ma per come la vedevamo noi quel tipo di intuizione era pertinente alla materialità della soggettività che ci trovavamo di fronte …] te ne rendevi conto subito analizzando la situazione, facendo inchiesta. L’operaio era sociale […] Era proprio quello il tipo di figura che ci trovavamo davanti, un nuovo strano operaio che si scontrava con l’altro, quello più tradizionale perché legato al sindacato e al partito» (pp. 44-45).

Nonostante la giovane età e l’essere etichettati come appartenenti ad un’area estremista costantemente criminalizzata, il movimento nella provincia lombarda seppe  mantenersi interno alle dinamiche sociali, evitando la rottura definitiva con gli altri ambiti della classe nonostante i dissidi e le difficoltà di relazione.

Il decentramento produttivo, dispiegatosi con forza in tali territori a partire dalla metà degli anni ’70, determinò un forte cambiamento della composizione tecnica della classe operaia. Bianchi, nel cartografare le modalità produttive presenti sul territorio, segnala tre grandi blocchi tra di loro, ovviamente, legati. Vi erano industrie medio-grandi con una manodopera anziana e sempre più risicata nei numeri a causa del processo di automazione. In tali ambienti lavorativi era presente, sostiene l’autore, «una consolidata presenza sindacale “sensibile” alle necessità delle direzioni aziendali» (p. 53). Vi era poi un indotto composto da unità produttive di piccole dimensioni, spesso artigianali, in cui trovavano occupazione poche unità “regolari” e diversi studenti-lavoratori, operai dediti al “doppio lavoro”, donne non inquadrate nel lavoro ufficiale-tutelato, ecc. Infine vi erano piccolissime unità produttive collocate nelle abitazioni, nelle cantine e nei garage. Si trattava di rapporti di lavoro totalmente deregolamentati che sfruttavano casalinghe, pensionati, invalidi, bambini e disoccupati.

In tale contesto si sviluppò l’esperienza dei Collettivi autonomi nel nord della Lombardia, collettivi composti da giovani operai di bassa scolarizzazione, politicamente “figli di nessuno”. Il centro della scena venne preso da una soggettività proletaria inedita capace di costruirsi analisi e progettualità politiche autonome. «Il bisogno di rivolta esistenziale per i “figli di nessuno” muoveva comunque dall’intuizione che la fabbrica, il suo paradigma di sfruttamento, la sua “centralità” acquisiva, diffondendosi, carattere di totalità, finiva cioè col dominare tutto il complesso delle relazioni sociali in cui era inserita […] Per questi motivi sui “figli di nessuno” più che le teorie pseudoleniniste dei partitini extraparlamentari fece presa la combinazione di concetti quali “autonomia”, “rifiuto del lavoro” e tutto il colorito e suggestivo repertorio delle “controculture”» (p. 54). Ciò che veniva chiaramente percepito da questi giovani operai era la necessità di proiettarsi in avanti mettendo al centro della progettualità e dell’agire politico non la liberazione del lavoro ma la liberazione dal lavoro.

La scoperta di una lettura storica diversa delle lotte operaie proposta dagli scritti operaisti permise a questi “figli di nessuno” di scegliersi i propri padri nelle lotte dell’“altro movimento operaio”, quello autonomo e rivoluzionario che da quindici anni, nelle grandi concentrazioni produttive, aveva prodotto un volume di lotta tale da determinare la crisi del sistema di produzione, costringendo il capitale a progettare scientificamente la scomposizione del ciclo produttivo, e con esso della classe, attraverso il ricorso alla “fabbrica diffusa”. «Giovanilismo, culto della marginalità e del ghetto furono tendenze presenti in quel movimento che nella sua espansione attirò inevitabilmente a sé figure sociali tra le più disparate, e tra queste anche alcune effettivamente cariche di gravi disagi. Ma il nucleo principale restò, almeno fino agli inizi del 1978, quello operaio, e solo ciò garantì la tenuta insieme di tutte le differenze» (p. 71).

Sul finire del 1977 iniziò un vero e proprio esodo dalle fabbriche dell’alta Lombardia che portò molti operai alla ricerca di fonti alternative di reddito. Ciò, sostiene Bianchi, finì col mettere in crisi le strutture identitarie di quei soggetti che improvvisamente si trovarono ad essere smarriti in un indefinita collocazione sociale, dunque politica. Il 1977 finì con l’accelerare diversi processi già in atto e gli ambiti politici con minor legame sociale diedero vita ad una sorta di simulazione territoriale di uno scontro che risultò in molti casi scollegato da contesti di lotta reali: Bianchi lo definisce «emulazione in piccola scala di un insurrezionalismo privo di contesto, una rappresentazione spettacolare che attraverso l’esemplificazione di gesti simbolicamente o concretamente violenti mirava a creare un punto di riferimento per soggetti singoli o piccoli gruppi che maggiormente vivevano le conseguenze del disagio indotto dalla crisi» (pp. 75-76) ed, a tali compagini, non mancarono di unirsi frotte di sbandati e disperati.

In questo clima si arrivò presto a lacerazioni interne al movimento determinate dalla scelta o dal rifiuto di accettare il terreno della militarizzazione dello scontro nei confronti dello stato. In un clima irreale di «attesa dell’inesorabile precipitazione degli eventi» (p. 77) il movimento iniziò a “perdere pezzi” ed in molti optarono per l’abbandono della politica scivolando spesso nella spirale dell’eroina. Per molti la crisi del movimento significò la perdita di identità e di visione del futuro e l’eroina si prestò facilmente a tale processo di autodistruzione. A tutto ciò una parte del movimento, l’area militante, decise di rispondere con la chiusura e l’espulsione dalle proprie fila di quanti dichiararono e rivendicarono l’uso di eroina presentando tale scelta come espressione di radicale antagonismo. «L’area militante reagì con il disperato istinto della sopravvivenza, come se si trattasse di affrontare una cancrena e non tentennò mai per un attimo nella decisione dell’“amputazione”» (p. 79). A proposito della disgregazione del movimento, Sergio Bianchi riporta, condividendola, una storica dichiarazione di Sergio Bologna (La tribù delle talpe): «l’autonomia del soggetto non può elidere il potere, la sua realtà. Se diciamo che la forza del soggetto è proprio quella di liberarsi della realtà, di avere come unico parametro il proprio desiderio antagonista, allora dobbiamo anche sapere che la sola pratica di comportamento coerente con tale ideologia è l’eroina. Oggi, in Italia, febbraio 1978» (riportata a p. 80).

Una parte del volume è composta da un’antologia di testi (interventi di collettivi locali, stralci tratti da riviste del periodo, testi di canzoni, poesie, interviste a militanti ecc.) utile a contestualizzare e comprendere meglio gli eventi descritti da Bianchi. Nella nuova edizione (2016) ampliata si trovano scritti di: Nanni Balestrini, Marco Bascetta, Franco Berardi (Bifo), Lanfranco Caminiti, Marina Campanale, Roberto Carcano, Paolo Demaestri, Rossana De Simone (Crudelia), Massimo Kunstler, Enrico Livraghi, Primo Moroni, Toni Negri, Rossana Rossanda, Ada Tosatti, Pino Tripodi, Mauro Trotta, Maria Teresa Zoni.

In chiusura vale la pena riportare i versi di una celebre poesia di Nanni Balestrini, presente nell’antologia del volume, pensando a tutti coloro che hanno tirato un sospiro di sollievo quando questi “figli di nessuno” si sono (e sono stati), in un modo o nell’altro, tolti di mezzo.


C’è chi loda il letamaio

Qual è il segno culturale del nostro tempo
il bello di cattivo gusto
cioè la merda
le belle pubblicità di merda i bei abiti

di merda il bell’erotismo di merda
le belle banche di merda i bei romanzi
di merda il bel giornalismo di
i bei talk show di merda insomma

tutti i belli super professionali
di merda prodotti della cultura spettacolo
di merda con quella incancellabile e richiesta
vena di cattivo gusto cioè di merda

diciamo la cultura dei professionisti di massa
di merda che lavorano per le masse di merda
è difficile diciamo noi
disobbedire al proprio tempo

ci sono tempi che danno licenza di buon gusto
e tempi di merda che la tolgono
e chi contravviene alla merda se va bene
sarà apprezzato dai posteri

oggi i buoni professionisti della merda
selezionati dai grandi media di merda
sanno mettere insieme colori immagini di merda
luci effetti di merda tridimensionali

belli bellissimi sanno organizzare i bei
dibattiti sado-maso di merda le belle
inchieste tutte ritmo e suspense
ma mettendoci quel tanto di cattivo gusto

cioè di merda che hanno coltivato invece di soffocare
per piacere allo spettatore massa di merda
e senza un po’ di cattivo gusto
cioè di merda oggi si campa male

a noi tocca vivere nella cultura spettacolo
di merda del bello di cattivo gusto
cioè di merda ben retribuiti e puniti
ogni giorno della fama di merda

è difficile disobbedire al proprio tempo di merda
non curarsi del suo segno culturale di merda
oggi uno che non ha successo
perché guarda in alto e comunque non nel letamaio

non viene guardato dalla merda
come un’intelligenza esigente
come il potatore di una grande ambizione
ma come un corpo estraneo alla merda

vivere in sintonia con la cultura di massa
di merda è vivere nel migliore dei mondi
di merda oggi possibile
è quasi impossibile sottrarsi

alla cultura del proprio tempo di merda
i compensi agli intelligenti perché producano
merda per i rozzi e volgari sono ottimi
e tutti più o meno ci siamo adeguati alla merda

Nanni Balestrini (1985)

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