Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Oltre la nazione. Sviluppo delle forze produttive e polo imperialista europeo

di Luciano Vasapollo

“Tutto è relativo: ho assolutamente ragione” (A. Einstein)

Intervento al seminario “La ragione e la forza”, del 18 giugno 2016

capitalismo 603x3001. Le scienze economiche sono un fenomeno relativamente recente, almeno paragonato alle altre discipline scientifiche, ma hanno fatto in modo di imporsi come il principale strumento di misurazione della realtà sociale e fondamentale mezzo di controllo e gestione della società stessa.

Le nuove idee nascono come eresie e muoiono come dogmi” affermava Albert Einstein, e l’economia assunta come verità incontrovertibile e come unico motore in grado di produrre benessere sociale sembra incalzare perfettamente questa visione. Questo lavoro ha avuto l’intento di sistematizzare una critica scientifica e metodologica alla politica economica internazionale in chiave, evidentemente, marxista.

L’economia nasce quindi accanto alla fisica, all’astronomia, alla biologia e a tutte le altre scienze galileiane, con l’aspirazione e l’ambizione di portarsi, prima o poi, sullo stesso livello; meta raggiunta, in parte, anche grazie al fatto che nasce nell’ambito della Royal Society in Inghilterra, che dà corpo al progetto di Francis Bacon che vede nella scienza il modo per giungere al governo perfetto, quello che descrive nella Nuova Atlantide, l’utopia di una società guidata dagli scienziati.

Si giunge abbastanza presto a capire che al contrario delle altre scienze, l’economia sembra non riuscire a formulare modelli in grado di soddisfare alla necessaria capacità predittiva, anche secoli dopo la nascita delle scienze economiche.

La pretesa scientificità di questa disciplina in senso largo come politica economica internazionale è strettamente e incontrovertibilmente una questione politica, l’impianto di una visione ideologica. Oggi più che mai possiamo renderci conto di ciò: il fallimento del modello dominante neoliberista e capitalista, in generale, è davanti agli occhi di tutti, evidenziando la sua gravità. Un modello economico-culturale che avrebbe dovuto assicurare un benessere diffuso e un miglioramento delle condizioni di vita ha generato tutto il contrario, una crisi globale, una crisi di civiltà .

Qualcuno addurrebbe che la difficoltà (impossibilità) di una previsione è dovuta a una caratteristica intrinseca della materia, al suo essere un sistema caotico e fortemente volatile, un po’ come la meteorologia. Con la differenza che l’uomo non può ancora agire attivamente per modificare le condizioni climatiche e gli eventi naturali, al contrario per ciò che riguarda l’economia. La crisi dipende da uomini e non da eventi naturali ed imprevedibili, che si sono spesso laureati nelle università migliori.

 

2. Come già abbiamo avuto modo di sottolineare in vari lavori, il ciclo economico in cui ci troviamo ha avuto inizio più di quaranta anni fa, quando la crisi di sovrapproduzione ha dato origine ad una grande ed ancora non risolta crisi capitalista di accumulazione.

A tutt’oggi, è solo grazie all’analisi di Marx che si riescono a capire e a valutare criticamente funzionamento e contraddizioni del sistema capitalista e quindi del suo modo di produzione. In ambito accademico, persiste un radicale ostracismo, soprattutto quando la letteratura marxista, che negli ultimi anni si sta diffondendo ai più svariati ambiti disciplinari, è sviluppata come critica dell’economia politica e applicata. La marginalizzazione, o meglio l’espulsione dal campo accademico, ma soprattutto dal generale ambito scientifico, della critica di Marx all’economia politica e dell’economia politica marxista, ci inducono oggi con forza a sviluppare una visione aggiornata dalla funzione metodologica, concettuale ed ideologica della critica dei marxisti all’economia politica e all’economia applicata e quindi la critica alla politica economica internazionale.

Sembra innegabile che la concentrazione e la centralizzazione di capitale rappresentano una caratteristica del sistema economico. La concentrazione comporta che, al fine di garantire il processo di accumulazione, i capitali individuali crescano a dismisura in quantità e in potenza, escludendo di fatto dalla competizione le piccole e medie imprese che, non avendo concentrazioni di capitali sufficienti, finiscono per essere assoggettate al potere delle grandi concentrazioni rappresentate dalle multinazionali, e ciò all’interno non della forma Stato precedente, ma oltre la nazione, nella forma Stato, o meglio sovrananzionale, del polo imperialista .

Quasi tutti i settori dell’economia saranno, visto questo andamento centralizzante, dominate da poche imprese su scala mondiale, al punto che anche il commercio internazionale (COMIN) sarà, in un certo modo è già, sottoposto ai flussi determinati dalle grandi imprese che perseguono le loro proprie strategie di localizzazione.

Il fenomeno di crisi generalizzata dell’intero sistema economico colpisce più duramente quei paesi che non dispongono delle risorse necessarie per far fronte a quanto accade, i paesi del Sud, e in Europa appunto i PIGS, ma non risparmia di certo le economie sviluppate dove assistiamo ad un lungo periodo di tendenza al ristagno, con una ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione e un’abbreviazione dei cicli delle crisi finanziarie mondiali 1 .

La competizione globale imperialistica, insieme agli effetti della crisi economico-finanziaria e politica, e con le drammatiche ricadute sociali sui lavoratori e sugli interessi dei movimenti di classe, evidenzia sempre di più un processo di finanziarizzazione del capitale imperiale internazionale, oltre che un ricorso sempre più massiccio alla militarizzazione del tentativo di uscire da una crisi sistemica che annuncia ormai la fine dell’era del dominio del capitale. A questo proposito il capitale attacca interi Stati per i propri interessi speculativi, si espande sempre di più e conquista nuovi mercati attraverso le guerre, che si moltiplicano sia sul piano militare, soprattutto là dove sono in gioco risorse strategiche come quelle energetiche (e in particolar modo il petrolio), ma anche e sempre più con guerre economico-finanziarie e sociali.

Nella nuova fase di trasformazione produttiva il capitale deve affrontare il conflitto capitale-lavoro in una maniera totalmente differente, tenendo ben presente che l’inquadramento della classe operaia all’interno della fabbrica fordista si era già esaurita negli anni ’70 del secolo scorso. La nuova proposta vede la precarizzazione del lavoro come modello sociale fondamentale: destrutturazione della collettività operaia operata mediante un processo di perdita progressiva della soggettività collettiva del conflitto e l’introiezione dell’idealismo individualista del merito personale.

La teoria economica dominante contempla e diffonde essenzialmente modelli di riduzione dei costi di produzione, grazie a licenziamenti e a precarizzazione di un numero sempre maggiore di lavoratori, inutili in un mondo produttivo sempre più meccanizzato. È questa la regola di un non meglio chiamato mondo postfordista dell’accumulazione flessibile, che non ha bisogno di reinserire nuovamente l’espulso nel ciclo produttivo.

Il mancato rilancio della produttività, la mancanza di una alternativa energetica e quanto appena esposto circa la desocializzazione del conflitto di classe, determinano i limiti della nuova fase di accumulazione capitalista e questo dà vita a tutta una serie di conseguenze, come ad esempio la fuga verso la finanziarizzazione dei profitti e la lotta per il controllo delle risorse energetiche fossili.

Anche il tema della politica economica del settore commerciale è un punto focale delle discussioni sulla transizione poiché è proprio su questo tema che si incrociano le più diverse teorie e punti di vista del COMIN e le pratiche reali poste in marcia da Paesi o organizzazioni regionali.

Proprio a questo proposito è interessante sottolineare che, quando parliamo delle differenti manifestazioni delle politiche commerciali e della loro attuazione da parte dei blocchi o dei poli imperialisti, la situazione si complica notevolmente vista la forte influenza che questi hanno tanto nell’economia internazionale quanto nei flussi commerciali. Nonostante ciò, i dati che abbiamo a disposizione circa le correnti di commercio internazionale sono sempre più incompleti, specialmente per il fatto che, come già accennato, spesso non viene preso in considerazione il commercio intra-firma (cioè quello tra aziende), né tanto meno la formazione delle catene transnazionali. Tutto ciò concorre nel generare una certa difficoltà e confusione al momento di valutare la correttezza degli studi empirici.

 

3. Anche la così detta “terza rivoluzione industriale” gioca un ruolo fondamentale in questo panorama. La virata in questo senso inizia negli anni ’50 con lo sviluppo dell’informazione come forza produttiva e della vita organica come materia prima fondamentale: è il boom delle biotecnologie.

Il fenomeno dell’internazionalizzazione del capitale e della produzione non è una scoperta recente. Già Lenin 2 aveva, al principio del XX secolo, stabilito chiaramente le caratteristiche del capitalismo come modo di produzione: concentrazione di capitali e produzione, nascita dei monopoli, capitali finanziari, esportazione di capitali, tutto faceva dello sviluppo del capitalismo all’epoca, segnata dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione e delle imprese coloniali, e ben poco è cambiato in oltre un secolo. Va tuttavia notato che le imprese che oggi denominiamo comunemente “multinazionali” sono un fenomeno ben precedente al fenomeno dei monopoli, e quindi dell’imperialismo economico. Ciò significa che con il sorgere del primo capitalismo si manifesta anche una prima forma di monopolio, non ancora dominante, ma con modalità di rapporto già indirizzate in quel senso.

La conformazione geopolitica attuale della UE come polo imperialista è il frutto dell’instaurazione di una dinamica estremamente complessa nella formulazione della politica economica: l’economia della fase attuale di mondializzazione si trova immersa in un paradigma tecnologico predominante molto diverso da quello dell’epoca di Lenin, e senza andare così indietro nel tempo, da quello della seconda metà del secolo passato.

Ciò a cui assistiamo, in sostanza, è una forte contrapposizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalista, che di fatto rende impossibile il rilancio della produttività, ovvero la capacità di generare ulteriore plusvalore relativo (vedi Appendice dati statistico-economici).

L’esclusione della forza lavoro salariato nella formazione di valore aggiunto provoca ulteriori difficoltà alla relazione del valore, con la conseguenza che la crisi in atto si manifesta come una crisi di sovrapproduzione/sottoconsumo.

C’è da tenere ben presente che la ricchezza di cui i paesi ricchi godono non si sarebbe mantenuta tale senza la politica imperiale funzionale alla borghesia trasnazionale europea e le conseguenti conquiste del Sud mediterraneo (i PIGS). Il neocolonialismo interno alla UE ed esterno verso le periferie ha giocato un ruolo fondamentale in questo processo poiché non erano solo delocalizzazioni, deindustrializzazioni naturali che hanno l’accumulazione e la produzione di ricchezza, ma anche e soprattutto una forza lavoro prima schiavizzata e poi super-sfruttata e sottopagata.

Dalla maggiore differenza tra livelli di produttività ed intensità del lavoro tra paesi si sviluppa il maggiore sfruttamento al quale sono sottomessi i paesi più poveri da parte di quelli più ricchi nel contesto del mercato mondiale, poiché nello scambio i più forti economicamente ottengono una quantità di lavoro maggiore di quella che cedono 3 .

Questo scambio diseguale è una delle ragioni alla base dello sviluppo politico ed economico diseguale anche nel polo UE, che rappresenta sempre più incontrovertibilmente una legge del MPC, come già aveva ammonito Lenin 4 .

Quanto detto finora è facilmente comprensibile se si ragiona sul fatto che, alla saturazione del mercato interno, il capitale non è più in grado di valorizzarsi. La sovrapproduzione di merci che ne deriva genera la necessità di esportarle all’estero, così come avviene per quei capitali che, nel mercato interno, non sono più in grado di valorizzarsi. Questa è precisamente la caratteristica della fase superiore del capitalismo che Lenin aveva individuato.

La conseguenza di tutto ciò è che l’economia capitalista si mondializza e lo fa in funzione della sua necessità di valorizzarsi, giungendo così ad uno scontro con altri capitali globali, scontro che avviene non solo in ambito puramente economico e/o finanziario, ma anche sul piano giuridico, come dimostrano le politiche protezioniste di alcuni stati, i trattati di libero commercio e l’esplosione di patenti e brevetti; ma anche militare, sia attraverso interventi diretti sia approfittando di questo o quel gruppo di pressione. Ecco la competizione globale, il conflitto interimperialista (Vedi Appendice statistico-economica).

 

4. Oggi la situazione è diversa in apparenza, in particolare per l’imperialismo UE. La mancanza di colonia “formali” non implica necessariamente la scomparsa del rapporto di sfruttamento colonialista: siamo di fronte a ciò che Magdoff ha definito “imperialismo senza colonie” 5 , dove il moderno stato imperialista non ha la necessità di controllare in via diretta politicamente e militarmente il paese obiettivo, bensì riesce ad ottenere lo stesso risultato attraverso coinvolgimenti indiretti nella vita economica e sociale di quel paese; con un profitto e un utile ancora maggiore.

L’elemento della disuguaglianza spaziale-localizzativo e delle soggettività del lavoro e del lavoro negato, è strettamente correlato a quello dell’integrazione tra mansioni, produzioni e sistemi economici: la grande disparità di salari tra un paese e l’altro è funzionale alla divisione del lavoro così come le disuguaglianze in tema di condizioni economiche e costi di produzione sono funzionali all’espansione dei mercati. Possiamo giungere così alla conclusione che la disuguaglianza non è solo una conseguenza del modo di produzione capitalista, ma ne costituisce in qualche modo la premessa, assecondando i criteri dell’accumulazione del massimo profitto.

Ovviamente il mantenimento delle strutture asimmetriche delle relazioni economiche internazionali imperialiste richiede un uso centrale della forza. Ciò è stato chiaramente visibile in epoca coloniale, ma sopravvive ancora oggi in epoca neoliberista in forma di “keynesismo militare”.

Questo militarismo svolge due funzioni molto importanti: se da un lato agisce per mantenere inalterato lo “squilibrio” fra diversi paesi, dall’altro rappresenta una risorsa produttiva più che significante. Basti pensare che negli Stati Uniti d’America la spesa pubblica militare, espressa come spesa pianificata del settore pubblico, contribuisce a contrastare le inefficienze e gli sperperi di mercato poiché attraverso la spesa militare viene pianificata una parte ingente dell’economia industriale e dei servizi nordamericani.

Un ulteriore aspetto pare degno di essere sottolineato: il ricorso crescente alle forza militare sembra essere un dato che segna le transizioni interne al capitalismo stesso che, a differenza dei modelli produttivi precedenti, ha la capacità di trasformare lo stesso sforzo bellico in un fattore che contribuisce all’accumulazione. E questo perché il capitale non pone limiti alla sua stessa valorizzazione generando da un lato uno scontro tra i diversi poli capitalistici, quindi la tendenza alla guerra e, ancor prima al fomento di una forte industria in questo settore; dall’altro la necessità di forzare il limite naturale, a qualunque costo.

È importante porre attenzione alle modalità attuative del progetto degli imperialismi, e per noi l’analisi si concretizza sul come e perché del polo imperialistico europeo, nell’odierno processo di mondializzazione e guardare alla gestione del capitale sotto il profilo soggettivo, in modo da individuare come si decidono, si comunicano, si eseguono e si controllano l’insieme delle operazioni gestionali finalizzate al dominio della logica di mercato su tutte le entità valoriali che si liberano nella sfera sociale.

Si tratta di un modello incentrato, in maniera sempre più accentuata, sulla ricerca di forme di accumulazione cosiddetta flessibile, basate cioè su criteri di flessibilità produttiva, di precarietà del lavoro e dell’intero vivere sociale, a partire dalla valorizzazione dei nuovi modelli comunicazionali devianti, capaci di imporre nel territorio il dogma culturale del mercato, del profitto, del vivere secondo i principi d’impresa. Ecco come la variabile guerra diventa guerra economica, guerra massmediatica, guerra psicologica (ad esempio con il concretizzarsi contro i governi rivoluzionari di Venezuela, Cuba, Bolivia).

 

5. Ci sono essenzialmente due modi per capire la realtà economica. Una è quella che considera che la competenza dell’economista non concerne l’economia del vivere, del lavoro e della convivenza civile ma è soltanto quella di studiare gli aspetti della realtà che hanno un’espressione monetaria (per esempio, secondo questa concezione, il compito dell’economia applicata e quindi della politica economica internazionale è esclusivamente quello di riuscire a stabilire gli equilibri contabili fondamentali: offerta e domanda, importazioni ed esportazioni, spesa ed entrate nazionali, quantità di denaro e quantità di produzione, ecc.). Tale concezione, assolutamente dominante nel moderno paradigma neoliberista, si basa sull’idea che nei fatti esistano soltanto individui programmati per agire, in maniera pressoché univoca, in funzione della ricerca razionale e sistematica dell’interesse personale.

È necessario oggi più che mai uscire da questo schema e ricondurre la (pseudo)scienza economica sotto il controllo della politica, non più il contrario.

È necessario pianificare lo sviluppo attraverso la divisione in regioni e macro-regioni nelle quali si possano realizzare le esigenze delle differenti popolazioni e, infine, è necessario creare dipartimenti che attuino in nome del governo nelle questioni amministrative locali.

Negli ultimissimi anni il mondo ha sperimentato un ulteriore deterioramento della base strutturale capitalista di produzione, rimarcando ancora più chiaramente la natura profondamente sistemica di questa crisi tanto più dal momento che lo sviluppo delle forze produttive ha trovato un limite oggettivo nelle attuali forme dei rapporti sociali di produzione e di proprietà.

(si veda di nuovo Appendice Statistica economica).

I dati, scudo e giustificazione onnipresente, sono uno strumento attraverso il quale far valere le proprie teorie ma la falsificazione di una teoria scientifica è altra cosa dall’utilizzare alcuni dati opportunamente selezionati o accuratamente manipolati per portare acqua al proprio mulino.

Questa visione condiziona l’agire sociale e ci spinge verso il consumo massivo come forma di inclusione sociale in un mondo che non consente di essere “altro”, in virtù dell’idea che ciò che “non è omogeneo” è un pericolo “diverso”, un pericolo da emarginare e sconfiggere.

Al di là delle posizioni politiche delle forze di sinistra rivoluzionaria per la classe e di rottura antisistemica, appare pressoché innegabile che lo sviluppo economico-capitalista non ha una uguale ripartizione, ma anzi è la causa principale delle enormi disuguaglianze e squilibri sul piano temporale, territoriale, settoriale e sociale.

Se per il capitalismo sono funzionali l’anarchia della produzione e del mercato, il socialismo, e la transizione verso quel sistema, richiedono un’economia pianificata ma non per la produzione di plusvalore, bensì per la soddisfazione dei bisogni della società socialista.

Se il processo lavorativo è formato dalle tecniche e se le tecniche a loro volta sono una concretizzazione della scienza, in un sistema socialista sono anche le tecniche e quindi le scienze che devono essere funzionali al pieno sviluppo di tutte le potenzialità insite in ciascuno di noi. Esse devono essere l’espressione di una razionalità diversa da quella capitalista e quindi devono avere un diverso carattere di classe.” 6 .

Quanto evidenziato da Carchedi è una sorta di parafrasi di Marx il quale già al suo tempo aveva bene intuito la falsità e pretenziosità della neutralità della scienza, in maniera particolare quella economica. Marx infatti affermava: “Sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni fatte dal 1830 per il solo scopo di dare al capitale le armi contro le rivolte della classe operaia” 7 .

Dopotutto non è affatto un mistero che le maggiori conquiste scientifiche del secolo scorso sono state sviluppate in ambito militare, quindi in un ambito ben e con un intento ben lungi dall’avere finalità sociali o distributive.

La socializzazione di tali scoperte è avvenuta solo tempo dopo, e più precisamente quando i benefici derivanti dalle applicazioni militari non erano più in grado di remunerare la tecnologia stessa, non garantendo più l’accumulazione di quel dato capitale. In questo modo la messa sul mercato di tali scoperte aveva ancora una volta lo scopo di garantire la remunerabilità delle stesse e non il desiderio o la convinzione che avrebbero migliorato la vita delle persone.

Il livello raggiunto al giorno d’oggi da scienza e tecnica sarebbe teoricamente in grado di risolvere e appianare la maggior parte delle ingiustizie che pervadono la società contemporanea, dalla fame alle malattie, dalle guerre ai disastri naturali. Ma la condivisione non genera profitto. Così milioni di persone muoiono per malanni che in altri paesi sono perfettamente curabili, perché mancano fondi di prevenzione sanitaria e medicinali a prezzi accessibili e altrettante muoiono di fame quando lo spreco alimentare nei paesi del centro capitalista ha raggiunto livelli che nessuno avrebbe mai immaginato 8 .

Queste sono le barbarie a cui quotidianamente assistiamo, e più o meno consciamente aiutiamo a perpetrare. Il consumismo sfrenato a cui siamo stati (mal)educati, grazie alla comunicazione orientata, è ancora una volta necessario per un sistema che fa della caducità e della necessità di produrre sempre più per garantire il compimento di quell’unico scopo: l’accumulazione, sopra tutto, sopra tutti. Definitivamente, il problema della crisi non risiede nello sviluppo delle forze produttive, ma nei rapporti sociali di produzione in grado di tradurre l’applicazione delle scienze alle tecniche di produzione efficiente e compatibile con la scarsità di molte risorse naturali 9 .

 

7. Per queste ragioni la sfida è quella di perseguire una società che vada oltre il capitale ma, allo stesso tempo, di dare risposte immediate alla barbarie che flagella la vita di tutti i giorni di chi lavora, della classe dei lavoratori.

Un modello di società e, quindi, di sviluppo autodeterminato, incentrato su una pianificazione economica e sociale come strumento di uguaglianza e di giustizia, dove sarà possibile uno sviluppo socio-eco-compatibile orientato a nuovi rapporti tanto interumani che tra uomo e natura, per giungere alla ridefinizione delle relazioni e delle finalità tra forze produttive e rapporti di produzione.

8. È sempre più necessario sottolineare che tutte le leggi economiche esprimono una relazione di produzione, ma non tutti i rapporti di produzione possono considerarsi legge economica: mentre leggi economiche, infatti, richiedono un criterio di intenzionalità razionale, questa non è necessariamente presente nei rapporti di produzione, e nel socialismo il fattore predominante è quello cosciente.

Sono convinto che vi è un solo mezzo per eliminare questi gravi mali, e cioè la creazione di un’economia socialista congiunta a un sistema educativo che sia orientato verso obiettivi sociali. In una tale economia i mezzi di produzione sono proprietà della società stessa e vengono utilizzati secondo uno schema pianificato. Un’economia pianificata, che equilibri la produzione e le necessità della comunità, distribuirebbe il lavoro fra tutti gli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’individuo, oltre a incoraggiare le sue innate capacità, si proporrebbe di sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i suoi simili anziché la glorificazione del potere e del successo, come avviene nella nostra società attuale.” 10 .

Già Marx individuava molto bene quello che è il processo di transizione al socialismo: il periodo di trasformazione rivoluzionaria che corrisponde alla transizione tra la società capitalista e quella comunista in cui l’unica forma di stato possibile non è che quella della “dittatura rivoluzionaria del proletariato”.

La necessità di superare i rapporti di proprietà così come definiti dal capitalismo (tenendo ben presente che le relazioni di proprietà costituiscono il nucleo forte dei rapporti di produzione) rappresenta la specificità principale della transizione al socialismo che appare per la prima volta nella storia come necessità economico-sociale in grado di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Il superamento di tali rapporti è l’unica forma che permetterebbe alle forze produttive di trovare una correlazione con le nuove relazioni di produzione caratterizzate dalla presa del potere politico da parte delle classi lavoratrici. Ciò vale a dire che, a differenza dei precedenti, il nuovo Stato non solo crea le condizioni di partenza per stabilire il dominio delle masse ma ha il compito ed il dovere di dirigere e difendere il nuovo modo di produzione.

Questo concetto si basa sull’idea di una gestione sociale ed economica della società che si fonda su un alto livello etico e morale comunitario, le stesse idee che oggi le popolazioni originarie attuali portano avanti nella lotta contro la povertà e la marginalità da una propria specifica interpretazione di opposizione e negazione del lavoro salariato.

Lo studio e la ricerca in campo economico significa percorrere processi reali determinati dall’organizzazione scientifica rivoluzionaria, cioè l’esplicitazione in azione partendo dall’analisi e da una profonda formazione in una coerente e attuale critica marxista dell’economia convenzionale, dell’economia capitalista e imperialista dell’oggi.


Note

1 Per una analisi più approfondita su questi temi: Vasapollo, L., Trattato di critica dell’economia convenzionale. Un sistema che produce crisi, Jaca Book, 2013; Vasapollo, L., Trattato di critica dell’economia convenzionale. Vol. 1: La crisi sistemica. Metodi di analisi economica dei problemi dello sviluppo, Jaca Book, 2012.

2 Lenin, L’imperialismo. Tutti gli scritti sulla fase suprema del capitalismo, Pgreco, 2014.

3 Braun, O., La Meccanica dei Rapporti Imperialisti, Editoriale Jaca Book, 1974.

4 Lenin, L’imperialismo. Tutti gli scritti sulla fase suprema del capitalismo, Pgreco, 2014.

5 Magdoff, H., L’età dell’imperialismo, Edizioni Dedalo, 1994.

6 Carchedi, G., Dalla teoria di Marx l’analisi delle forze produttive e della transizione, in Proteo, N. 2009/3-2010/1. http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=766

7 Marx, K., Il capitale. Volume 1, Editori Riuniti, 2006.

8 Solo ultimamente il tema sta ricevendo attenzione da parte della politica. In Francia il primo caso di “legge contro lo spreco alimentare” è stata approvata solo all’inizio di quest’anno. http://www.repubblica.it/economia/2016/01/04/news/francia_spreco_alimentare-130600990/

9 Per un’argomentazione più dettagliata del processo qui descritto si veda Vasapollo, 2012.

10 Einstein, A., Perché il socialismo?, Monthly Review, New York, maggio 1949.
* * *
Per consultare un'appendice statistico-economica vedi qui.

Add comment

Submit