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la prospettiva

Come uscire dalla crisi

Intervista a Emiliano Brancaccio

In più occasioni ci è capitato di leggere dell’Europa come di un continente destinato al declino. C’è ancora spazio per il “vecchio mondo” o siamo destinati a essere “periferia dell’economia mondiale”?

L’Unione europea è il più grande esportatore mondiale di manufatti e servizi. Definirla una “periferia” mondiale è un errore. Seguendo una chiave interpretativa ancora attuale, fondata sulla categoria di imperialismo, l’Unione europea si situa tuttora al “centro” degli assetti del capitale mondiale, e mantiene un rapporto di controllo sulle periferie che orbitano attorno ad essa. Si tratta di un controllo economico ma anche politico e militare, come la guerra in Libia sta dimostrando in questi mesi.

Il grande limite dell’Europa, rispetto agli USA, risiede principalmente nella moneta. Gli Stati Uniti, forti della posizione di dominio monetario internazionale garantita dal dollaro, hanno per lungo tempo governato endogenamente lo sviluppo nazionale e mondiale. L’Europa invece si è mossa al traino, in una posizione che sul piano macroeconomico è stata quasi sempre subordinata agli USA. La stessa moneta unica non è nata con il proposito di diventare una moneta internazionale realmente alternativa al dollaro, ma sembra piuttosto essersi proposta quale baluardo della stabilità monetaria, una sorta di rifugio per il capitale ogni volta che il dollaro fosse stato soggetto a crisi e fluttuazioni eccessive. Fino ad oggi, dunque, le autorità europee non hanno quasi mai messo seriamente in discussione il primato macroeconomico e monetario americano.

Un ruolo nuovo e alternativo dell’Europa potrebbe allora consistere nel contribuire a delineare, con la Cina e gli altri paesi emergenti, un credibile sentiero di uscita dall’era del dollaro. Si tratta di una operazione complessa e potenzialmente rischiosa. Bisogna infatti capire che il passaggio da un regime monetario internazionale a un altro non avviene mai spontaneamente a seguito di una crisi, ma costituisce sempre un dirompente atto politico.


Esistono oggi le condizioni effettive di una teoria economica a livello internazionale della sinistra di alternativa? Dopo la “caduta” del socialismo reale che pur nei suoi limiti aveva alcuni riferimenti economici forti, oggi sembrano assenti anche sul piano teorico, indicazioni di modificazione strutturale e funzionale per la società.

Credo, con altri, che per innovare la riflessione teorica e politica degli eredi del movimento operaio sarebbe utile cominciare a esaminare l’esperienza sovietica, le sue grandezze ed anche i suoi orrori, in chiave finalmente scientifica e storico-critica. Fino ad oggi, anche a sinistra ha prevalso una lettura demagogica della vicenda politica che più di ogni altra ha segnato il Novecento. Questa approssimazione la si sta pagando cara. Si tratta infatti di una questione non desueta ma molto attuale, come dimostra il fatto che la minaccia sovietica è entrata per tanti anni nella funzione di produzione del sistema di welfare occidentale, e che il welfare è entrato in crisi anche a seguito della scomparsa di quella minaccia.

Potremmo dire, a questo riguardo, che la presenza di quel “Grande Altro” in un certo senso rappresentava la ragion d’essere non solo e non semplicemente dei comunisti della terza internazionale ma anche di tutti gli altri eredi della tradizione del movimento operaio, anche degli stessi socialdemocratici. Questi ultimi, non a caso, finita l’esperienza sovietica sono entrati essi stessi in una crisi d’identità generale.

Ridiscutere dell’esperienza sovietica sarebbe utile dunque per ridefinire una possibile alterità politica al mercato, ossia per attualizzare il tema più generale della pianificazione. Occorre indagare in chiave scientifica e storico-critica delle potenzialità e degli enormi limiti della politica economica sovietica proprio per riscoprire la potenziale modernità del “piano”. La crisi iniziata nel 2007-2008, da cui non siamo ancora usciti, offre spunti importanti in questo senso, che purtroppo non sono stati ancora colti.

Naturalmente, sarebbe ingenuo discutere oggi di “pianificazione socialista” in termini ideali. Il discorso sulla pianificazione si articola e si modifica in funzione dell’articolazione e del mutamento dei rapporti di forza. È chiaro quindi che esso andrebbe sviluppato e riproposto in funzione della dinamica di quei rapporti, perché “piano” può significare molte cose. Basti ricordare che durante la prima crisi petrolifera furono addirittura gli Stati Uniti ad essere investiti da un grande dibattito sulla pianificazione, a seguito delle proposte avanzate al Congresso dal Comitato per la Pianificazione Nazionale guidato dal premio Nobel per l’economia Wassily Leontief. A mio avviso, nell’attuale fase storica, maggiore sarà la capacità di articolare il discorso della pianificazione, maggiori saranno le possibilità di costituire un insieme credibile di alternative alla ideologia anarco-liberista del mercato capitalistico, in piena crisi ma tutt’altro che sconfitta.


La situazione economica è tale da creare oggettive difficoltà per una politica di redistribuzione della ricchezza. Ciò deriva non solo dai rapporti di forza tra le classi (elemento sicuramente importante) ma anche dall’assenza di strumenti internazionali votati ad una visione più equa dei rapporti fra lavoro e capitale. Secondo te un governo di centrosinistra, ammettendo anche una presenza non marginale della sinistra, avrebbe la possibilità concreta di dare un effettivo segnale di inversione di tendenza alle masse popolari e lavoratori?

Cominciamo col dire che l’Italia si trova in questo momento all’intero di una partita che riguarda l’assetto dell’unione monetaria europea. Una partita che ruota attorno ad un progetto di matrice tedesca e che mira a fare dell’Europa una sorta di “grande Germania”. Si tratta di un processo che dura da tempo ma che a seguito della crisi 2007-2008 è andato inasprendosi. Ciò determina uno scontro interno agli assetti del capitale europeo, tra paesi e capitali in avanzo e paesi e capitali in disavanzo. Oggi più che mai la contesa tra capitale e lavoro non può essere esaminata separatamente dallo scontro in atto tra capitali. Anzi, potremmo dire che esaminarla in termini separati è del tutto velleitario.

In questo scenario una politica economica nazionale dovrebbe vertere su due obbiettivi chiave.

Il primo obiettivo dovrebbe consistere nel mettere in discussione il progetto di “germanizzazione europea”. Questo progetto mira a fare dell’Europa una sorta di gigantografia della Germania: vale a dire una grande zona economica votata alla deflazione, alla competizione internazionale e alla esportazione di merci e servizi all’estero. Per realizzare questo programma occorre tuttavia che il controllo del capitale europeo risulti sempre più centralizzato e unificato. Questo meccanismo unificante avviene in termini conflittuali, nel senso che il paese guida, la Germania, attua una deflazione competitiva che colpisce duramente i capitali periferici del’Unione e i lavoratori europei nel loro complesso. Per questo motivo bisognerebbe assumere una posizione precisa nello scenario europeo, alternativa a quella tedesca. Se mai ciò avvenisse, sarebbe una interessante novità sul piano dei rapporti politici intra-europei.

In secondo luogo, occorre partire da una evidenza: il capitale nazionale è in estrema difficoltà nella contesa europea in atto. Si fatica a riconoscerlo, ma sussiste persino un rischio di take-over esteri sul capitale bancario nazionale. Tra i motivi di questo continuo affanno del sistema produttivo italiano vi è il fatto che nel nostro paese, non solo al Sud ma anche al Nord, c’è una netta prevalenza di piccole e piccolissime imprese. Il capitale dunque risulta polverizzato, frammentato, disorganizzato e quindi, a lungo andare, scarsamente competitivo. Abbiamo a lungo assecondato questi micro-capitali a colpi di de-sindacalizzazioni, agevolazioni e prebende. I risultati sono stati a dir poco deludenti. Siamo passati dai salari tra i più alti ai salari tra i più bassi d’Europa, abbiamo fatto precipitare gli indici di protezione del lavoro. Eppure la competitività dei capitali nazionali si è comunque ridotta. Per uscire dalla crisi nazionale in atto bisognerebbe allora chiudere quella lunga stagione di politica economica e del consenso che si è fondata sullo slogan “piccolo è bello”. Bisognerebbe cioè fare in modo che si acceleri un processo di riorganizzazione e centralizzazione dei capitali nazionali. Affinché questo processo possa iniziare occorre che i costi di produzione non diminuiscano, ma aumentino! In altre parole, la dinamica dei salari dovrebbe essere resa più sostenuta attraverso un rilancio dei contratti nazionali, bisognerebbe chiudere la stagione delle prebende a favore di piccole imprese fuori mercato, bisognerebbe insistere con la lotta all’evasione fiscale e alle violazioni delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro. Tutto questo potrebbe creare condizioni favorevoli per “forzare” il capitale nazionale a riorganizzarsi per una volta in termini “virtuosi”. Sono in molti a riconoscere che questo è il sentiero di politica economica e industriale che un paese periferico come il nostro dovrebbe percorrere. Tuttavia, allo stato dei fatti, è molto difficile che si possano creare le condizioni affinché una operazione politica così ambiziosa possa compiersi in Italia. Di certo è molto improbabile che ciò avvenga in assenza di nuove spinte e rivendicazioni provenienti dal mondo del lavoro.


Nel quadro che abbiamo tracciato, quale dovrebbe essere a tuo giudizio l’atteggiamento delle forze di sinistra d’alternativa nei confronti della dimensione europea?

Qualche segnale di ripensamento intorno all’impianto del trattato europeo lo abbiamo avvertito, in maniera anche netta. Sia pure con un enorme ritardo, che rischiamo di pagare caro, anche l’ultimo documento del PSE, pubblicato a Varsavia nel dicembre 2010, rappresenta una svolta rispetto a quella che era la linea prevalente tra i socialdemocratici fino a poco tempo fa. Questo significa che anche tra i più riottosi nei confronti di un’esigenza di riforma dei trattati la crisi morde e produce qualche effetto positivo.

Fondamentalmente, in questo documento, come in altri, si indica un’alternativa al progetto di “germanizzazione europea”. In alternativa alla logica deflazionista del progetto di marca tedesca, questi documenti suggeriscono una linea che consiste nella definizione di un motore interno dello sviluppo economico europeo.

E’ la strada giusta, Tuttavia, anche nei documenti di impronta socialista più avanzati di solito manca un’analisi approfondita degli squilibri interni all’Unione europea, tra paesi centrali caratterizzati da un sistematico surplus verso l’estero e paesi periferici caratterizzati da un crescente deficit verso l’estero.

Le forze di sinistra e le rappresentanze politiche e sociali del lavoro dovrebbero allora concentrarsi proprio su questi squilibri interni. Personalmente ho avanzato una proposta in questo senso: si chiama “standard salariale” o “standard retributivo europeo” (per articoli e interviste dedicate all’argomento si può visitare il sito www.emilianobrancaccio.it, Ndr). Si tratta di uno strumento che mira a costringere la Germania e gli altri paesi in surplus commerciale a far crescere i salari reali più della produttività. In questo modo i paesi in surplus non potrebbero più condurre l’Europa lungo un sentiero di deflazione competitiva ma dovrebbero al contrario sviluppare la loro domanda interna, a partire dai redditi dei lavoratori, attivando così da un lato un meccanismo endogeno di sviluppo dell’Europa nel suo complesso, e determinando dall’altro anche un processo di riequilibro commerciale tra centri e periferie europee. Questo è uno strumento interessante perché ci fa capire che l’interesse all’unità europea può essere fatto coincidere con gli interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi o greci, italiani o spagnoli. Potremmo definirlo un modo concreto e non retorico di concepire un nuovo internazionalismo del lavoro.

In effetti di “standard retributivo” si è iniziato a discutere in sede politica, a livello nazionale ed europeo. Naturalmente, è difficile dire se vi siano oggi i margini per tramutarlo in una proposta politica concreta. Quel che è certo è che se non si verrà a creare un varco per una linea di politica economica alternativa, finalizzata alla costituzione di un motore interno dello sviluppo e di un meccanismo di riequilibrio tra centri e periferie, l’unità europea correrà un grave rischio e i lavoratori del continente, più di tutti, continueranno a subire i pesantissimi effetti della deflazione.

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