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Ecco come Merkel e Draghi cuociono l’Italia e gli altri PIIGS

di Guido Iodice

La BCE «userà tutti gli strumenti a sua disposizione contro la deflazione». Così si è espresso Mario Draghi giovedì scorso nella conferenza stampa seguita alla riunione del board della Banca Centrale Europea. Una dichiarazione che ricalca da vicino il famoso «preserveremo l’euro con ogni mezzo necessario» pronunciato  il 26 luglio 2012. Da quel giorno gli spread dei paesi periferici dell’area euro (cioè la differenza tra gli interessi pagati sui titoli di stato rispetto a quelli pagati dal governo tedesco sui propri) si stanno riducendo costantemente. Il nostro paese è da alcuni giorni sotto quota 200 punti base (2% di differenza con gli interessi dei Bund decennali).

 Il tutto è avvenuto senza che Draghi attivasse gli strumenti annunciati in quell’occasione, chiamati OMT (Outright monetary transactions). E’ bastata la parola del presidente della BCE per convincere i mercati a ridurre le scommesse sull’uscita degli stati indebitati, una clamorosa conferma della dottrina keynesiana, secondo la quale la banca centrale decide i tassi di interesse. Sembra insomma che la “febbre” dell’euro sia sotto controllo. Ma le cose stanno davvero così?

LA PENTOLA DI MARIO E ANGELA – La situazione attuale dell’eurozona rassomiglia a quella di una cucina affollata e chiassosa. Sul fornello c’è una pentola a pressione che sta cuocendo un succulento brasato: i paesi periferici dell’UE, cioè Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (in sigla: PIIGS, maiali). Dentro c’è un po’ di tutto: i lavoratori a cui vengono tolti i diritti attraverso le “riforme strutturali”, le piccole imprese che chiudono, le imprese più grandi in odore di acquisizione da parte dei capitali del “centro” dell’Unione europea.

E sono proprio questi capitali i commensali che aspettano di mangiare il brasato cotto a puntino da due chef di eccezione: Angela Merkel e Mario Draghi. Ma c’è un problema. La pentola a pressione ha la valvola difettosa e per giunta il manometro rotto. Mario ed Angela, procedendo a tentoni, devono evitare un doppio rischio: se la pressione è troppo alta la pentola potrebbe esplodere, se è troppo bassa la carne rimarrà cruda. Così ogni tanto aprono la valvola per far sfiatare il vapore, ma non troppo e soprattutto quasi sempre all’ultimo secondo prima che la pressione faccia saltare il coperchio. In altri casi invece alzano la fiamma sotto la pentola. Come se non bastasse, i commensali mostrano tutta la loro impazienza e mandano di tanto in tanto degli emissari in cucina a protestare, il più chiassoso dei quali è il governatore della Bundesbank Jens Weidmann. Riusciranno Draghi e Merkel nella loro impresa?



LA DEFLAZIONE – Se nella prima fase della crisi dell’eurozona la Germania ha imposto l’austerità ai paesi periferici, ora il nuovo mantra sono le “riforme strutturali”, vale a dire liberalizzazioni, privatizzazioni e riforme del mercato del lavoro (a sfavore dei lavoratori, si intende). Entrambe le misure però stanno avendo come effetto la deflazione, cioè la riduzione dei prezzi, effetto della riduzione dei salari e del crollo della domanda nei paesi deboli. Tolta di mezzo la spesa pubblica e il consumo privato, l’unica fonte di domanda rimangono le esportazioni, ma per recuperare la competitività perduta rispetto alla Germania la deflazione dovrebbe aggirarsi intorno al 20%, e di questo passo ci vorrebbero decenni. La deflazione (o comunque un aumento dei prezzi ridotto rispetto a quello atteso) ha però un effetto collaterale potenzialmente catastrofico, quello di aumentare gli interessi reali e quindi aggravare la posizione dei debitori. Austerità e tendenza deflattiva rendono così insostenibili i debiti per imprese e famiglie (ma lo stesso discorso può estendersi ai governi) e quindi le sofferenze bancarie aumentano vertiginosamente. Con quali risultati?

GLI SCENARI -  Se le banche incominciano a fallire a causa dei debiti non rimborsati dai debitori insolventi, la pentola dell’euro è a rischio. Finora le contromisure sembrano insufficienti: il fondo salva-stati è troppo piccolo e i farraginosi e discutibili meccanismi dell’unione bancaria e della vigilanza BCE, recentemente approvate, non convincono gran parte degli esperti, anche perché lasciano fuori dalla lente dell’eurotower le casse di risparmio tedesche. Nonostante l’abbassamento dello spread, insomma, la crisi dell’euro non è affatto passata. Del resto i mercati che oggi segnalano maggiore fiducia nella tenuta dell’area euro chiedendo tassi di interessi nominali meno onerosi, sono gli stessi che per un decennio hanno creduto che Grecia e Germania presentassero gli stessi rischi. In questa situazione Merkel e Draghi si muovono sul filo di un rasoio e il terrore per la deflazione manifestato dalla BCE  ne è la dimostrazione. Un errore di valutazione, un intervento in ritardo o un nuovo shock esterno potrebbero quindi scombinare i piani e riportare le lancette dell’orologio al 2011, cioè ad un passo dalla deflagrazione dell’euro. In questo caso si tratterebbe di una deflagrazione improvvisa, che potrebbe iniziare con l’uscita di un paese periferico dall’euro, seguito a ruota da tutti gli altri, in modo scoordinato e senza nessun paracadute.

L’ALTERNATIVA – Lo scenario alternativo non è però più rassicurante perché significa che Draghi e Merkel riusciranno a “cuocere” la pietanza: i paesi periferici. Ciò a cui si assisterebbe in questo caso è quindi non solo una crisi alla giapponese, con bassissima crescita dell’eurozona, ma la continuazione della divaricazione tra “centro” e “periferia” e l’acquisizioni delle grandi imprese dei paesi periferici da parte di quelle degli Stati dominanti, peraltro già iniziata. Una sorta di colonizzazione insomma, favorita dai processi di privatizzazione e liberalizzazione. Che una situazione del genere possa durare ininterrottamente è difficile da immaginare. Mentre le aree povere degli Stati nazionali godono dei trasferimenti fiscali, infatti, le periferie europee non hanno alcun sostegno dai paesi forti. Anche in questo caso si ripropone quindi la possibilità di una rottura. Ma a quel punto potrebbe essere la stessa Germania a dichiarare finita l’esperienza della moneta unica, dopo aver incassato i suoi dividendi, per non pagarne gli inevitabili costi. E tutto questo avviene mentre la politica sembra non avere alcuna idea su come togliere la pentola dal fuoco.

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