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Patrioti please, non ribelli

di Leonardo Clausi

Ho sempre avuto problemi con il concetto di patria. Non mi ci sono mai riconosciuto, non appartiene alla mia cultura politica, lo trovo fastidiosamente retorico il più delle volte. Come altri, sono rimasto folgorato sulla via dell’internazionalismo: un concetto che oggi farà sorridere i custodi dell’ortodossia del “moderno” ma che in fondo ancora oggi obbedisce a dei criteri che rifiutavano una lettura bovina del divenire storico per arrivare direttamente all’essenza di cosa siamo come esseri sociali. Lo devo anche all’assidua lettura di uno storico come Eric Hobsbawm, il cui il formidabile L’invenzione della tradizione mostra come i fondamenti dell’idea di nazione non siano altro che la lenta e inesorabile sedimentazione di una serie di operazioni politico-culturali imposte dall’alto verso il basso, per legittimare, appunto, l’alto rispetto al basso.

Ma oggi è la festa della Liberazione. Un giorno in cui questo Paese, soprattutto negli ultimi vent’anni, si riscopre regolarmente diviso. Io mi pongo fra gli eredi di coloro che resistettero, e che oggi vengono dileggiati per questo. Mi laureai con una tesi sulla storia della Resistenza in una particolare regione italiana, l’Umbria. Nei documenti d’archivio che mi capitò di esaminare, i partigiani si autodefinivano patrioti, in opposizione alla definizione che di loro davano gli avversari nazifascisti.

Com’è noto, i nazi chiamavano i partigiani “banditi”, mentre cosa evidentemente meno nota, soprattutto all’attuale Presidente del consiglio, i fascisti li definivano “ribelli.” Ci si ribella a un ordine legalmente imposto e accettato.

È evidente che tra i due termini ci sia il discrimine cocente della legittimità. E “ribelli” è una definizione che non fa una piega, soprattutto quando ci si consideri depositari di un ordine considerato universalmente valido e accettato da tutti. Cosa che purtroppo il fascismo in parte è stato, in barba agli sforzi strumentali della storiografia resistenziale di matrice comunista. Lo si vede, lo si sarebbe visto esattamente vent’anni dopo, quando lo stesso attendismo, stavolta con l’aiuto della putrefazione del partito che più e meglio di altri si era identificato con la Resistenza, avrebbe una volta di più cacciato il Paese nel suo secondo ferale ventennio tra le braccia della figura paterna/uomo forte cui l’italianità pre e post repubblicana sembra incapace di rinunciare.

Per questo il cinguettio giulivo mattutino di Matteo Renzi, che usa la parola “ribelli” come Steve Jobs usava la parola “foolish,” tanto per dare un frisson rivoluzionario alla sua immagine di leader pret-a-porter, suona tristemente falso, anzi, come tutto ciò che dice, pubblicitario. Serve a lanciare un contentino a quei vecchi bacucchi dell’ANPI, un’associazione che, dopo aver redento grazie a una ribellione prima minoritaria e poi – non del tutto indiscutibilmente – dilagante una nazione allo sbando, sembra diventata nient’altro che una fastidiosa palla al piede.

Ma la Resistenza è stata roba terribilmente seria. È incredibile pensarci oggi, sepolti da sessantanove anni di storia repubblicana caratterizzati dal crescente strapotere dell’avanspettacolo. E la sua memoria infastidisce terribilmente gli eredi della zona grigia, per tacere poi delle infinite, pestifere reincarnazioni del perenne incubo fascista che, puntuale ad ogni crisi economica, si riaffaccia all’orizzonte offrendo le proprie – comode e schifose – soluzioni. Le stesse alle quali gli eventi politici che avvenivano esattamente vent’anni fa preparavano la strada, in mezzo alle risate – sguaiate e fasulle – che cazzate televisive i cui autori oggi sono considerati geni della comunicazione suscitavano in quantità. La ventennale salita al potere di questo figuro, che col beneplacito della post-sinistra avrebbe efficacemente dissolto nell’acido delle sue fregnacce mediatiche quel poco di autocoscienza politica e sociale che questo Paese aveva costruito sul sangue di migliaia di caduti, è stato un viaggio da incubo, che ci ha portato esattamente dove siamo: nelle mani del bottegaio attivista delle Acli.

Vent’anni fa, esattamente quest’oggi, interruppi la preparazione della mia tesi di laurea per prendere un autobus del sindacato che mi avrebbe portato nella triste Milano (città che la Resistenza, a differenza della Roma della grande stanchezza e attendismo, fece veramente) a manifestare il mio sgomento, il mio disgusto e la mia indignazione per la salita al potere di una figura che avvertivo già allora come terribilmente aliena, una sorta di virus culturale che stava avendo facilmente ragione delle stremate difese immunitarie di un Paese ormai preoccupato soltanto della pantomima del proprio finto benessere.

Poco dopo, finita l’università, scritta l’inutile tesi, me ne sarei venuto via, pensando non senza arroganza alla mia fuga dall’Italia come a quella di un fuoruscito, uno che scappava da un posto dove l’aria stava rapidamente diventando irrespirabile. Me ne andai per venire qui, in un Paese che ha sempre vinto, assoggettato, dominato, amministrato, esportato con successo la presunta infallibilità di un modello che ha l’iniquità sociale iscritta nella propria missione storica. E che grazie ai proventi materiali di tutto questo daffare, è diventato l’unico vero bastione della conservazione globale. Molto più dei propri cugini oltreoceano.

E quando da qui guardo, come ho fatto in questi ultimi vent’anni, con un misto di rabbia, disgusto, passione civile e spesso incontaminata disperazione, alla festa della Liberazione italiana, che anno dopo anno continua a ricevere le bordate di un post-fascismo diffuso al quale, spesso, verrebbe la tentazione di sottrarre il prefisso, non posso fare a meno di sentirmi investito di una strana, elettrica sensazione di orgoglio.

È l’orgoglio di appartenere a un Paese che ha vissuto sulla sua pelle e nella sua carne le ferite profonde di un’esperienza politica e civile tra le più raccapriccianti del XX Secolo, che attraverso il proprio sacrificio – pagato solo da alcuni della cui memoria oggi cerchiamo con cazzona insofferenza di liberarci - ha dimostrato al mondo di saper risollevare la testa dall’umiliazione nella quale gli eredi politici proprio di coloro che quella testa spinsero nel fango e nel sangue vorrebbero in qualche modo ricacciare.

Concludo, scusandomi per la solita lungaggine. La festa della liberazione non è un qualcosa per la quale ringraziare dei “ribelli” come se si trattasse di un gruppo pop degli anni ‘60. Sono, una volta tanto, i patrioti che vanno ringraziati. Perché se c’è stato un momento nella storia dell’Italia unitaria, pre e post repubblicana, in cui il concetto di Patria ha assunto una valenza capace di trascendere le porcherie nazionalistiche al quale è di solito assoggettato, quello è stato il 25 aprile del 1945.

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