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manifesto

I miracoli (elettorali) della Troika

Alfonso Gianni

A quin­dici giorni dalle ele­zioni euro­pee fanno capo­lino improv­vi­sa­mente valu­ta­zioni più rosee sullo stato dell’ eco­no­mia del nostro con­ti­nente. L’ipotesi più sem­plice, nep­pure troppo mali­ziosa, è che si voglia arta­ta­mente spar­gere otti­mi­smo sulle pos­si­bi­lità di uscita dalla crisi , pro­prio per con­te­nere gli effetti di un dif­fuso euro­scet­ti­ci­smo.

Il caso più citato è quello del Por­to­gallo. Lo si è visto anche in una recente pun­tata del pro­gramma Bal­larò. Il pros­simo 17 mag­gio il paese lusi­tano uscirà dal “pro­gramma di assi­stenza”, appron­tato dalla Troika tre anni fa, che ha por­tato nelle casse esau­ste di Lisbona 78 miliardi di euro. Il fatto che ora il Por­to­gallo possa tor­nare a rifi­nan­ziarsi sul mer­cato inter­na­zio­nale e che i tassi di inte­resse sui decen­nali siano scesi dal 10,6% del 2011 al 3,6% attuale, viene pre­sen­tato come un suc­cesso delle poli­ti­che di austerity.

Il rigore quindi ha vinto? Niente affatto, se si leg­gono i dati della eco­no­mia reale del Por­to­gallo: il tasso di disoc­cu­pa­zione ha toc­cato nel 2013 il 16,3%, quello gio­va­nile è supe­riore al 40%, il tasso di occu­pa­zione è tor­nato ai livelli degli anni Ottanta; 827mila per­sone sono in stato di disoc­cu­pa­zione, tra que­ste più di mezzo milione lo sono da più di 12 mesi, l’asticella che le qua­li­fica come disoc­cu­pati di lunga durata. Il set­tore delle costru­zioni è in piena crisi occu­pa­zio­nale.

L’emigrazione ha ripreso a svuo­tare il paese. Pra­ti­ca­mente ogni giorno 350 por­to­ghesi cer­cano for­tuna oltre­con­fine. Intanto l’indebitamento del set­tore pri­vato è enor­me­mente cre­sciuto, le tasse sono aumen­tate, l’Iva è pas­sata dal 13 al 23%, i ser­vizi pub­blici arran­cano, le pen­sioni sono state ridotte. L’ultimo asse­gno di 2,6 miliardi di euro che com­pleta il piano di “aiuti” costerà nuove sof­fe­renze in ter­mini di incre­mento dell’Iva e di tas­sa­zioni dirette sul lavoro. Circa un milione di per­sone ha attra­ver­sato le strade di Lisbona per pro­te­stare con­tro il deserto lasciato dall’aiuto della troika. Ma tutto que­sto viene oscu­rato per esal­tare le virtù delle poli­ti­che di rigore.

Se le aste dei titoli di stato dei paesi in dif­fi­coltà comin­ciano ad andare meglio e i tassi scen­dono non è dovuto ad una ripresa della eco­no­mia reale, ma sem­pli­ce­mente alla nuova dire­zione geo­fi­nan­zia­ria che hanno assunto i capi­tali. L’effetto con­giunto del tape­ring della Fede­ral Reserve sta­tu­ni­tense e le cre­scenti dif­fi­coltà dei Brics, riso­spin­gono i capi­tali nella vec­chia Europa, verso ren­di­menti “nor­mali”, cioè più con­te­nuti ma meno rischiosi.

In Ita­lia si suo­nano addi­rit­tura le trombe per­ché Fitch, dopo Moody’s, ha con­fer­mato il rating BBB+, ma con un outlook sta­bile. Si aspetta ora cosa dirà la terza sorella, Standard&Poor’s, ma il suo responso sul rating del nostro paese avverrà solo il 6 giu­gno, dopo la prova elet­to­rale. Ma che l’uscita dalla crisi per il nostro paese sia un puro mirag­gio ce lo con­fer­mano le stime dell’Ocse.

Non si capi­sce come il mini­stro dell’economia Padoan possa tro­vare molto inco­rag­giante l’analisi dell’organizzazione pari­gina, dal momento che que­sta taglia le stime di cre­scita rispetto a quelle del nostro governo e della stessa com­mis­sione euro­pea. L’Italia, al pari della Gre­cia o giù di lì, si col­loca al fondo della clas­si­fica dei paesi dell’Eurozona. Le stime della disoc­cu­pa­zione ven­gono modi­fi­cate in nega­tivo: il pros­simo anno si toc­cherà il 12,5% invece del 12,1% come pre­ce­den­te­mente pre­vi­sto. Se ci sarà mag­giore domanda di mano­do­pera – ci dice l’Ocse – que­sta verrà inte­ra­mente assor­bita da un aumento di ore lavo­rate da chi il lavoro lo ha già, senza nes­sun incre­mento occu­pa­zio­nale. E, gra­zie al decreto Poletti incre­di­bil­mente peg­gio­rato dal Senato, la pre­ca­rietà diven­terà la con­di­zione asso­lu­ta­mente pre­va­lente, come ha osser­vato anche Tito Boeri. Men­tre l’Istat già cal­cola che l’impatto sulla ripresa dei con­sumi degli 80 euro (in realtà 53 in media) pro­messi da Renzi sarà minimo.

Anche se Mario Dra­ghi dovesse deci­dere, come da più parti si chiede, visto che l’inflazione è scesa allo 0,7%, di por­tare i tassi a zero (dallo 0,25% attuale) e di intro­durre tassi nega­tivi per le ban­che che posteg­giano i loro capi­tali presso la Bce, anzi­ché farli cir­co­lare in pre­stiti a fami­glie e imprese, que­sto non sarà di per sé suf­fi­ciente a risol­le­vare il nostro con­ti­nente dalla depressione.

Ci vuole una svolta radi­cale. Biso­gna che l’Europa sia sal­vata dalle sue distrut­tive poli­ti­che. Che i trat­tati e la mis­sion della Bce ven­gano pro­fon­da­mente modi­fi­cati ponendo il tema della piena occu­pa­zione e della ridu­zione dell’orario di lavoro come obiet­tivi prio­ri­tari, soste­nen­doli con un piano finan­ziato con almeno 100 miliardi di euro all’anno per 10 anni a carico del bilan­cio euro­peo e con il red­dito minimo garan­tito per i gio­vani, Visto ciò che si è messo a dispo­si­zione delle ban­che in que­sta crisi (oltre 4mila miliardi), non si tratta di cifre proi­bi­tive. Anche se le recen­tis­sime deci­sioni di Eco­fin di svuo­tare la Tobin tax non vanno certo in que­sta direzione.

Per il debito non c’è altra strada che la sua riduzione/ristrutturazione e mutua­liz­za­zione. Quindi il fiscal com­pact va abo­lito, altri­menti stran­go­lerà qua­lun­que tipo di cre­scita. Come ha detto Amar­tya Sen – non solo Tsi­pras — in un recente con­ve­gno romano: «Biso­gna uscire da misure anti-debito che equi­val­gono a misure anti-crescita. I debiti sovrani euro­pei erano molto peg­giori dopo la seconda guerra mon­diale, ma gra­zie alla cre­scita eco­no­mica i paesi sono riu­sciti a ripa­garli». Non inte­ra­mente, come sap­piamo dal caso tedesco.

Tanto più è vero oggi, poi­ché non si tratta di ritor­nare alla vec­chia cre­scita, ma a un modello di pro­du­zione e di con­sumi qua­li­ta­ti­va­mente inno­va­tivo, per cui è deci­sivo l’intervento pub­blico diretto in eco­no­mia. Non si esce dalla crisi e dal capi­ta­li­smo in crisi, solo modi­fi­cando la distri­bu­zione dell’esistente, ma ponen­dosi con­cre­ta­mente il pro­blema di cosa, per chi e come produrre.

 

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