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controlacrisi

Dietro Juncker niente

Le presunte disponibilità della Merkel sulla flessibilità europea

Domenico Moro

Gli ultimi giorni sono stati contrassegnati dall’attivismo dei governi socialdemocratici europei, guidato dalla Francia di Hollande e, in parte, anche dall’Italia di Renzi. Lo scopo di tale attivismo è scambiare l’appoggio alla nomina del popolare Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione Europea con allentamento dell’austerità, in modo da permettere all’Europa di uscire dalla crisi in cui è sprofondata da sette anni. La novità, invece, sarebbe la disponibilità della Merkel ad accogliere queste richieste.

La realtà dei fatti è differente. La Merkel, come sempre, ha riaffermato che i trattati non possono essere rivisti. Ha solo ricordato che i trattati stessi, nella loro configurazione attuale, permettono certi margini di flessibilità. Al di là delle interpretazioni di certi mass media di nuovo non c’è nulla. La presunta flessibilità, che consiste in una dilazione dei tempi di rientro dal deficit eccessivo è stata già impiegata, ad esempio in Francia, senza che ne sia derivato alcun beneficio reale. Inoltre, secondo la Merkel (e su questo sono d’accordo tutti, compresi Renzi e Padoan), la flessibilità bisogna meritarsela, facendo le tanto decantate riforme. Queste non sono altro che controriforme di carattere neoliberista (deregolamentazioni del mercato del lavoro, privatizzazioni, ecc.), come quelle attuate in Italia da circa vent’anni senza alcun risultato positivo.

Sono controriforme che vanno a vantaggio del capitale e penalizzano il lavoro salariato, in tutti i settori, compreso quello fiscale. In Spagna, eretta di recente a modello di virtù europea, il governo ha tagliato le imposte sui profitti dal 30 al 25 per cento, e ha reso meno progressiva l’Irpef riducendo gli scaglioni da sette a cinque e abbassando l’aliquota massima dal 52 al 45 per cento, mentre Bruxelles raccomanda di alzare l’Iva, l’imposta che proporzionalmente pesa di più sui più poveri, per rimettere ordine nei conti pubblici.

Tuttavia, anche se ci fosse un effettivo allentamento dell’austerità e del rigore di bilancio ben difficilmente gli effetti sarebbero sufficienti per una economia come quella europea dove ci sono 27 milioni di disoccupati. Il punto è che per avere qualche risultato di rilievo bisognerebbe mettere in discussione tutta l’architettura dell’euro e dell’integrazione europea. A cominciare dal principio dell’obbligatorietà del pareggio di bilancio, che è stato addirittura inserito nelle costituzioni europee come prevede il Fiscal compact, malgrado la sua assurdità economica, specie in una fase recessiva come quella attuale. E bisognerebbe spingersi ancora oltre, fino a criticare la strategia neoliberista che sottende al tutto, visto che l’integrazione economica e valutaria è la leva principale del capitale europeo per rispondere alla sua crisi epocale.

Dietro l’attivismo dei governi europei di questi giorni non c’è una idea chiara su come uscire dall’impasse della crisi europea, c’è solo la paura generata dalla fortissima ondata euro-scettica delle elezioni europee del mese scorso, che ha spazzato via i meccanismi del bipolarismo e della gestione bipartisan dell’Europa da parte di socialdemocratici e popolari. Nel Regno Unito e in Francia, dove Hollande gode di un gradimento mai così basso per un Presidente della Repubblica, i partiti principali sono stati superati da outsider antieuropei e in Spagna i due partiti principali hanno perso cinque milioni di voti. Anche in Italia Renzi è tutt’altro che sicuro della solidità suo risultato elettorale. Il suo 40,8 per cento, ottenuto peraltro con un’astensione dal voto a livelli record, è un voto a prestito.

Se le promesse non verranno mantenute e se la disoccupazione non potrà essere almeno in parte riassorbita, sarà messo in difficoltà il progetto di Renzi e del capitale italiano di fare del Pd il “partito della nazione”, la versione moderna del partito “pigliatutto”, in grado di raccogliere consensi da tutti i settori sociali. Invece, sul piano politico europeo la mossa di Holland e Renzi dimostra la debolezza e l’inconsistenza della socialdemocrazia europea, rappresentata dal Partito socialista europeo, incapace di pensare ad una qualsivoglia alternativa al Partito popolare europeo della Merkel, sia pure entro le compatibilità del capitale. L’accordo bipartisan proposto su di un personaggio come Juncker, veramente l’ultimo da cui ci si possa aspettare una qualche inversione di tendenza, dimostra che l’epoca delle “larghe intese” europee, sia a livello sovranazionale sia a livello nazionale, non è ancora finita. In questo modo la lezione del voto europeo per la socialdemocrazia sarebbe persa, mentre allo stesso tempo si aprirebbero delle possibilità per le forze di sinistra che però il Gue deve dimostrare di saper sfruttare.

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