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Moneta e linguaggio

Christian Marazzi

È lecito chiedersi se la politica monetaria espansiva, in un periodo di “trappola della liquidità”, non sia di fatto una politica a tutto vantaggio del rentier, di colui che vive di rendite finanziarie e basta

È del 18 giugno la decisione della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, di continuare a mantenere i tassi di interesse direttori prossimi allo zero e di ridurre di dieci miliardi di dollari l’acquisto mensile di obbligazioni del tesoro e ipotecarie.

Quest’ultima misura di politica monetaria, cosiddetta non convenzionale, era stata messa in atto oltre un anno e mezzo fa per stimolare la crescita economica americana grazie all’iniezione di quantità formidabili di liquidità. Si tratta di una strategia che con il passare del tempo ha influenzato le politiche monetarie di tutte le maggiori banche centrali dall’Inghilterra al Giappone fino anche alla Bce che, tra le varie misure per stimolare la crescita, ha recentemente annunciato di volere anch’essa perseguire una politica di allentamento quantitativo.

Non è affatto chiaro se queste politiche monetarie molto espansive siano davvero il modo migliore per fare uscire le economie dallo stato di crisi in cui si trovano dal 2008 ad oggi.

Nel caso degli Stati Uniti, dopo anni di credito facile, ci si trova confrontati con tassi di crescita anemici, un’inflazione che – seppur superiore a quella dell’eurozona – non sfonda il 2%, e soprattutto con una disoccupazione in termini assoluti sempre parecchio elevata. L’unica cosa appurata è che la crescita dei mercati finanziari e l’aumento del divario tra ricchi e poveri sono inconfutabili. È lecito chiedersi se la politica monetaria espansiva, in un periodo di “trappola della liquidità”, non sia di fatto una politica a tutto vantaggio del rentier, di colui che vive di rendite finanziarie e basta.

È per questa ragione che – a detta degli osservatori più attenti – la riunione della Federal Reserve è stata più che altro un esercizio di proiezioni relative all’andamento futuro del Pil, della disoccupazione e dell’inflazione. Ne è uscita una valutazione che lascia davvero perplessi, ossia che gli Stati Uniti potrebbero muoversi per un certo periodo ad una velocità sostenuta e superiore alla crescita potenziale.

Di fronte a questo scenario di crescita accelerata i governatori della Fed si sono scoperti un po’ più falchi, ossia maggiormente propensi ad aumentare i tassi di interesse in tempi relativamente brevi. Si cita ad esempio la riduzione del tasso di disoccupazione e i suoi effetti sul costo del lavoro. Ma tutti sanno che il minor tasso di disoccupazione è dovuto alla riduzione del tasso di partecipazione della forza-lavoro, cioè al fatto che molti disoccupati hanno ormai rinunciato a cercare lavoro.

È comunque chiaro che la Federal Reserve ha voluto lanciare un messaggio ai mercati: “d’ora in poi sappiate che è nostra intenzione alzare i tassi di interesse”. Sembra più che altro una mossa linguistica, per così dire, che ha una strategia fondata su dati reali.

I filosofi del linguaggio chiamano “performativo” questo uso creativo delle parole, questo fare cose con le parole. Il che non dovrebbe sorprendere, vista l’inefficacia della politica monetaria nel perseguire i suoi scopi. Ma basterà dire per fare?

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