Print Friendly, PDF & Email
kelebek3

Satana, il guastatore delle migliori passioni

Miguel Martinez

Satan the Waster è il nome che Violet Page – meglio nota come Vernon Lee – diede nel 1919 alla stesura definitiva, e molto più lunga, di un breve testo sulla guerra che vi abbiamo presentato qualche giorno fa.

Mi prometto (promessa da marinaio) di ritornarci, perché credo che questo testo, scritto quasi un secolo fa, sia ancora insuperato come analisi del rapporto tra le passioni umane e i grandi delitti, il ballo tra il bellissimo e sempre cieco Eroismo e la Morte.

Infatti, Vernon Lee va molto oltre la banale critica agli orrori della guerra; va all’essenza, cioè alla demoniaca perversione di quanto vi sia di migliore negli esseri umani: ecco il concetto del guastatore.

In questi giorni mi sono preso il tempo di guardare alcuni video sulla guerra in Siria. Dove i paesaggi hanno qualcosa di familiare e i visi sono indistinguibili da quelli italiani, per cui non si corre il rischio di perdersi nell’esotico.

Innanzitutto i video che riguardano l’ISIS.

 

Dove si vede una gioventù molto bella e fiera, che per idealismo ha scelto di rischiare la vita. Per quanto parlino in arabo, si colgono gli stessi toni degli adolescenti nostri, le stesse timide risate, solo con uno sguardo più intenso e più innocente. Come il cieco Eroismo di Vernon Lee, sono quanto di meglio vi sia nella gioventù del mondo.

Facce di persone con tanti anni meno di me, e che presto moriranno nel modo più atroce, se non finiranno in qualche Guantánamo.

Come la ragazzina francese che da un Internet point di Raqqa – uguale a qualunque altro del mondo – che per Skype cerca di dire a genitori in lutto, che sono tutte menzogne, quel che si dice dell’ISIS; o il medico islamista che si prodiga per i bambini affetti da cancro nel reparto dell’ospedale di Ninivè; o il nonno che racconta delle vessazioni subite dal regime siriano e della sua gioia nel parlare con i giovani volontari venuti a liberare i sunniti.

Persone, come il ragazzo olandese di origine turca (credo che militi in Jabhat al-Nusra e non nell’ISIS, ma lo spirito è simile) che ha lasciato una carriera nell’esercito, perché non poteva stare con le mani in mano mentre la gente veniva massacrata in Siria, e ha insegnato allora le prime arti a contadini che non sapevano come difendersi.

Ma sul fronte opposto, o su uno degli innumerevoli fronti opposti, il giovane svizzero, che per quel che ha fatto rischia cinque anni di carcere in patria, che ha scelto di venire in Siria per insegnare alla gente di un villaggio cristiano, con i loro crocifissi tatuati e i bambini dai grandi occhi, come difendersi dagli amici del medico di Ninivè.

Poi un video (interessantissimo) di Vice, su Rojava, la povera terra curda autogestita nel nord della Siria. Dove altri contadini molto semplici, dei ragazzi e (particolarità curda) anche delle ragazze – qualcuna cristiana – si organizzano per non farsi massacrare dai discepoli del ragazzo olandese o dai fidanzati delle ragazzine francesi.

Quelle di Rojava sono piccole persone, normali e limpide, che devono difendere i campi e la vita comune di curdi e arabi, musulmani e cristiani, non solo contro orde di fanatici calate da mezzo mondo, ma anche contro l’inumana potenza dello Stato turco che sostiene quei fanatici.

Il nemico non si vede mai, è solo uno sparo in lontananza. Appare da vicino solo come il tremendo coltellaccio militare che i curdi hanno preso a un jihadista venuto chissà da dove (magari dall’Olanda?): “è un coltello americano, c’era scritto ‘non dimenticheremo mai l’undici settembre‘, quando l’abbiamo trovato era ricoperto di sangue, l’avevano usato per tagliare una testa”.

Un video poi sui volontari che affiancano l’esercito ufficiale siriano, giovani uomini e ancora donne che hanno accettato di rischiare la vita per salvare le comunità minacciate di massacro. E anche lì cogli tutta la sincera intensità di chi viene intervistato, sapendo che magari vivrà ancora poco.

O questa donna, madre quarantatreenne di dieci figli, che ad Aleppo dirige una squadra di donne islamiste con il niqab che combatte contro l’esercito siriano che “non ha lasciato vivo una donna, un bambino o un vecchio”. Accanto a lei, suo figlio tredicenne torturato dai governativi, che ringrazia la madre per avergli insegnato a combattere.

Infine, gli abitanti di un villaggio sciita libanese, contadini anche loro, che si organizzano per combattere in Siria. Perché, come spiegano con logica inconfutabile, se la Siria viene conquistata dai takfiri da coloro che condannano a morte tutti coloro che vedono l’Islam in maniera diversa dalla loro, gli sciiti verranno tutti sterminati. Come fare con un nemico che non esista a usare autobombe per massacrare civili a caso? E ovviamente hanno ben più ragione di certi italiani che temono il terrorismo.

Per combattere chi ti vuole uccidere, spiega ineccepibilmente un ufficiale di Hezbollah, “aspetti forse che entri in casa tua? Se qualcuno ti viene incontro con un coltello in mano, per tagliarti la testa, strapparti cuori e reni, violentare le tue donne, e rubare la tua terra, cosa fai?” 

E così i combattenti di Hezbollah hanno sconfitto i takfiri, cacciando migliaia di profughi sunniti in una sacca dentro lo stesso Libano. Nel campo di coloro che sono fuggiti da Hezbollah, una donna che regge in braccio un bambino con lo stesso sguardo dei bambini curdi, di quelli dell’ISIS, di quelli cristiani, di quelli di Hezbollah, spiega: “ci hanno inseguiti e bombardati. Hanno usato di tutto, ci hanno bombardati con gli aerei, con i razzi e con le bombe. Non so come siamo riusciti a scappare, ma ce l’abbiamo fatta.” Ma ora sono circondati, “siamo cascati dalla padella nella brace”.

Infine, nello stesso video, il piccolo cimitero del villaggio sciita, dove i visi sono tutti così familiari; dove la tragedia diventa comunque quasi festa, perché l’alternativa sarebbe una tragedia ben maggiore.

Trovarmi qui, con il computer davanti, a innumerevoli miglia da tutto ciò, a guardare video, è già una condanna morale… ma so anche quanto sia facile, quando il Guastatore lancia il suo richiamo, cadere nella sua trappola del volerci essere, cioè di partecipare anche noi al Balletto della Morte.

In una guerra civile, non abbiamo nemmeno lo storico alibi dei pacifisti di una volta: il Piero di De Andrè reclutato a forza e mandato a morire per qualcosa che non sa. Ognuno di questi sa, e a modo suo ha scelto, e ha fatto una scelta giusta. Tutti i loro discorsi sono fondati e non sono semplicemente il frutto di una superficiale propaganda, ma di ferite personali che non possiamo nemmeno immaginare.

Add comment

Submit