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dinamopress

Riformismo in un solo garage

di Augusto Illuminati

La chiassosa partita fra Leopolda 5 e piazza S. Giovanni chiama in causa la tragedia italiana della precarietà ma senza soluzioni convincenti. Però definisce il prossimo terreno di scontro e confronto

Brillantemente ha scritto C. Cerasa, un fogliante renziano cinico: «come capita spesso quando si tratta di renzismo, più che i contenuti conta il contenitore». Il contenitore, in questo caso, era la stazione Leopolda truccata da garage, in un mischio di pubblicità per la Apple delle origini e di citazione del revival garage-punk e grunge dell’originario rock di Detroit anni ’70. In pratica, avanguardia arrabbiata e giovanottistica aggiornata all’altro ieri e resa potabile a un pubblico in camicia bianca, pashmine e alto tasso di eccitazione chimica. Colonna sonora ruffiana al punto giusto: un pizzico di Vasco Rossi e Jovanotti, tanto per gradire, poi Postcards di James Blunt e tanto Maroon 5 e Mumford & Sons.

Con “vip” della statura di Fabio Volo, della cui assenza non avrebbe certo approfittato la banda hollywoodiana di Bling Ring per saccheggiargli casa. Guest star Genny o’ Migliore, con IPhone 6 e gettoni di scorta. Insomma, un poderoso tsunami di fuffa (A. Robecchi), con la mission di demolire Pd e sindacati, rappresentatività parlamentare, posto fisso e antiquata cultura socialdemocratica e keynesiana. Tutta roba che ci riguarderebbe poco, se non implicasse maggiore precarizzazione, erosione dei livelli salariali per tutte le tipologie di lavori, soppressione (nelle sparate del caymano Serra) e limitazioni (reali) al diritto di sciopero, repressione di tutte le piazze sociali dietro lo svillaneggiamento di quella sindacale appena tollerata. Dunque, un terreno di scontro.

Ancor meno eccitante per scenografia e musica (fra Contessa e i Modena City Ramblers), ma alquanto più numerosa e socialmente rappresentativa, la manifestazione Cgil a S. Giovanni aveva una composizione piuttosto interessante, secondo un sondaggio Tecné: il 65% era costituito da non iscritti alla Cgil, e solo il 37% era un lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Il 58% dei partecipanti inoltre aveva meno di 44 anni, con un diploma (48%) o una laurea (16%). Italia multicolore che fatica, insomma, non finanzieri d’assalto e arrampicatori politici, belle fiche che se la tirano e ragazzotti saputi. Dunque, un terreno di contiguità, con alla testa personaggi poco plausibili.

Non crediamo una parola agli ultimatum e penultimatum di sciopero generale, non prendiamo sul serio né le minacce di scissione Pd né le proclamazione che loro mai, prendiamo atto che difendono il diritto al lavoro e non la liberazione dal lavoro (neppure in timide vesti scandinave di ammortizzatore universale), che chiedono più lavoro e non più reddito, che i vari Fassina, Epifani, Cuperlo e Civati non sono in grado neppure di dirigere un circolo anziani un po’ dinamico, eppure constatiamo che si è prodotta una spaccatura antropologica ed emotiva insanabile dentro l’area di sinistra e che su questo occorre riflettere e operare.

Certo, i dirigenti politici e sindacali antirenziani cercano ogni pretesto per non rompere, dichiarano di non capire, di trovarsi in una situazione surreale, fanno di tutto per incassare senza reagire, hanno sciupato l’unica occasione di rovesciare Renzi al Senato sul Jobs Act e minacciano di dissociarsi da lui alla Camera, dove non hanno i numeri –una bella figura, senza conseguenze. Però emergono due fattori: uno morale e uno pratico. Quello morale è che la loro base ha rotto con Renzi senza ritorno: o qualcuno li porta con sé in un’alternativa o abbandoneranno la militanza e pure il voto. Un lento e infruttuoso esodo per farsi i cazzi propri. Quello pratico è che la rottura la vuole Renzi: o almeno tirare la corda fino a sputtanare chi non rompe e così neutralizzarlo per sempre. Il problema è che una rottura subita controvoglia è sporca, genererebbe un’acrimoniosa frazione lavorista, un operaismo neanderthaliano. Del Psiup abbiamo cattivi ricordi e la maggioranza dei nostri lettori, per fortuna, nessun ricordo.

Dove vuole andare a parare Renzi? Vuole costringere i suoi oppositori interni ad andarsene in ordine sparso, sotto la minaccia di elezioni anticipate, ben conoscendone la riluttanza e il pavore o addirittura giocare la carta del voto, tenendo conto del marasma di Fi e del non ancora avvenuto coagulo della destra populista e fascio-leghista? La situazione attuale (lui che bastona, i bastonati che squittiscono, Camusso stupefatta, Berlusconi serpente ipnotizzato, l’Europa ancora incerta) è ideale, ma non può durare. Borse e banche, oltre tutto, non hanno un cuore e non si scaldano più di tanto alla fuffa mielata o acida che si riversa dalla bocca del Pifferaio. Perfino i dati statistici sono inesorabili. Il grosso vantaggio è che Renzi al momento non ha una Syriza alla sua sinistra, né come cartello elettorale né come forza sociale, che il sindacato resta una riserva indiana di pensionati, statali e operai a tempo indeterminato in via di dismissione, senza chiari propositi di rinnovamento sostanziale (tranne forse la Fiom), che ha ancora un protettore e complice al Quirinale. Il saccheggio di voti al centro dello schieramento è assicurato e sostituisce il deflusso da sinistra.

Se tutto sembra indicare il successo nel breve periodo della strategia renziana, il suo riuscito accreditamento nell’universo neo-liberale dove porta d’un colpo solo gli scalpi della Cgil e delle componenti laburiste del Pd, appaiono però le prime crepe, destinate ad amplificarsi nel medio periodo: il disincanto di una parte crescente dell’opinione pubblica, l’incapacità strutturale e la mancanza di mezzi per varare un programma plausibile di flexsecurity, l’imbarazzante inadeguatezza di un ceto di governo e di partito, la permanenza della crisi. Il garage italiano è troppo stretto per farne partire una svolta europea. Malgrado l’arrendevolezza conigliesca e l’ideologia decrepita della leadership sindacale e dell’eterogenea opposizione interna Pd, la loro base si sta sganciando irreversibilmente dall’intruso (purtroppo lo considerano tale, mentre, per certi aspetti è un erede legittimo di Berlinguer e D’Alema, per non dire una versione plus di Veltroni). Una sinistra tradizionale senza capi e senza idee si mischia con uno sciame precario, assai più radicale e con qualche idea ancora minoritaria. Potrebbe venirne fuori qualcosa. Lo sciopero sociale del 14N ne sarà una prima verifica.

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