Print Friendly, PDF & Email
manifesto

Pasolini, quel sapere impotente

Alberto Burgio

Quarant’anni e paiono quat­tro­cento. Men­tre, per con­verso, poche pagine pre­ci­pi­tano tra le nostre carte con altret­tanta rovente attua­lità. Stiamo par­lando di quel vio­lento edi­to­riale (poi ribat­tez­zato «Il romanzo delle stragi») che Pier Paolo Paso­lini pub­blicò sul Cor­riere della sera, il 14 novem­bre del 1974, un anno prima di finire mas­sa­crato sul lito­rale di Ostia. «Io so. Io so i nomi dei responsabili…»

Fu un bru­tale attacco all’«establishment» che coman­dava l’Italia. Accu­sato di avere ordito «tra una messa e l’altra» la tra­gica spi­rale di vio­lenza che da un lustro – da piazza Fon­tana a piazza della Log­gia, all’Italicus – insan­gui­nava il paese. E accu­sato, a mag­gior ragione, di omertà per la deter­mi­na­zione a coprire man­danti ed ese­cu­tori mate­riali di una «serie di ’gol­pes’ isti­tui­tasi a sistema di pro­te­zione del potere» demo­cri­stiano e atlan­tico.

Il ragio­na­mento di Paso­lini è lim­pido. Chi abita le stanze del Palazzo (non sol­tanto i poli­tici, atten­zione: anche chi con­trolla l’informazione, cioè la disin­for­ma­zione pub­blica) cono­sce l’identità dei respon­sa­bili delle «spa­ven­tose stragi» di Stato. Ha prove che inchio­de­reb­bero sicari – mili­tari, neo­fa­sci­sti, mafiosi e cri­mi­nali comuni – e mandanti.

Ma impe­di­sce che quei nomi ven­gano resi noti per­ché con­di­vide le fina­lità delle stragi. Anche gli intel­let­tuali sanno chi si è mac­chiato di quei cri­mini e vor­reb­bero – loro – dirlo aper­ta­mente. Ma, men­tre poli­tici e gior­na­li­sti tac­ciono pur avendo le prove, gli intel­let­tuali, che avreb­bero il corag­gio di denun­ciare, non dispon­gono nem­meno di indizi. Il loro è un sapere diverso, figlio dell’intelligenza e dell’immaginazione. Dell’estraneità a un mondo poli­tico degra­dato e della ripu­gnanza per la sua cor­ru­zione e i suoi silenzi. Un sapere in appa­renza apo­li­tico, in realtà poli­ti­cis­simo per­ché sor­retto dalla domanda di tra­spa­renza e giustizia.

Un sapere incon­tro­ver­ti­bile per­ché fon­dato sull’istinto della verità. Ma, poi­ché non docu­men­tato, impo­tente a istruire quel pro­cesso pub­blico che il biso­gno di verità e giu­sti­zia reclama. L’accusa di Paso­lini coin­volge l’intera «classe poli­tica» ita­liana, anche il Pci, che pure è ai suoi occhi affatto diverso dalla Dc. Un paese intatto e one­sto con­tro un paese diso­ne­sto; un paese intel­li­gente con­tro un paese idiota; un paese colto con­tro un paese igno­rante. Addi­rit­tura un’altra nazione che un bara­tro separa dall’Italia degra­data e dalla quale dipende la sal­vezza delle sue «povere isti­tu­zioni demo­cra­ti­che». Il fatto è che anche i poli­tici del Pci si com­por­tano come «uomini di potere» e per ciò non solo tac­ciono quei nomi, ma dif­fi­dano anch’essi degli intel­let­tuali liberi. Ai quali negano quelle prove che, divul­gate, sca­te­ne­reb­bero un ter­re­moto sin nelle fon­da­menta del Palazzo. Que­sta la con­clu­sione bru­ciante: «il corag­gio intel­let­tuale della verità e la pra­tica poli­tica sono due cose incon­ci­lia­bili in Ita­lia». Ragion per cui gli intel­let­tuali sono ben voluti solo come chie­rici senza pas­sione civile. Solo se si limi­tano a dibat­tere que­stioni astratte fini a se stesse. Se riman­gono docili nei ran­ghi dei «servi del potere».

Si può con­di­vi­dere o meno que­sta gene­rale «mozione di sfi­du­cia». Si può sot­to­scri­vere o meno, in par­ti­co­lare, l’accusa rivolta al gruppo diri­gente comu­ni­sta al tempo del primo Ber­lin­guer. Certo è dif­fi­cile disco­no­scerne la scon­cer­tante attua­lità. Scri­vesse oggi Paso­lini, cam­bie­reb­bero i nomi e gli acca­di­menti. Ma la catena di «comici gol­pes e spa­ven­tose stragi» è con­ti­nuata e con­ti­nua, come il rosa­rio dei turpi segreti di Stato, dei cri­mini della reti­cenza e dell’ipocrisia. Dagli armadi della ver­go­gna ai morti ammaz­zati in car­ceri, caserme e ospe­dali. Dalle P2 e P3 alle disca­ri­che radioat­tive, alle trat­ta­tive tra Stato e mafie. Dallo svuo­ta­mento della Costi­tu­zione anti­fa­sci­sta alla con­giura del silen­zio sui cri­mini eco­no­mici – la cosid­detta auste­rità, la cor­ru­zione, la pri­va­tiz­za­zione dei beni comuni, l’esportazione di capi­tale, l’evasione fiscale – che con l’alibi della crisi e dell’austerità azze­rano i diritti e la dignità degli inermi ricac­ciando il paese verso un nuovo feu­da­le­simo. Oggi anzi le cose stanno peg­gio di ieri, in un paese ver­go­gno­sa­mente ine­guale, immen­sa­mente più ricco e al tempo stesso incom­pa­ra­bil­mente più povero e pre­ca­rio, più fra­gile e spae­sato, più vol­gare, più vio­lento e più ini­quo. Quindi assai meno difeso dal peri­colo di pre­ci­pi­tare in un nuovo fascismo.

Vale anche – oggi più di ieri – l’invettiva con­tro l’opposizione, dive­nuta frat­tanto e con assai dub­bio van­tag­gio per i subal­terni «forza di governo». Se ieri Paso­lini lamen­tava che il Pci fosse un cen­tro di potere, che direbbe oggi – lui comu­ni­sta – di una sedi­cente «sini­stra» inse­diata nelle stanze più ambite del Palazzo e feb­bril­mente impe­gnata in una guerra senza quar­tiere non solo con­tro la verità (la poli­tica ridotta a tra­smis­sione di spot a reti uni­fi­cate) ma anche con­tro il lavoro, per radi­ca­liz­zarne la subor­di­na­zione? Difatti sus­si­stono, per con­tro, anche ele­menti di inat­tua­lità di quella denun­cia, che pro­prio da qui discen­dono.

Intanto: dove scri­ve­rebbe oggi Pier Paolo Paso­lini? Allora poteva sfer­rare attac­chi ad alzo zero con­tro i potenti dalla prima pagina del prin­ci­pale quo­ti­diano ita­liano che già da due anni ospi­tava le sue inau­dite pro­vo­ca­zioni. Lì poteva dirsi orgo­glio­sa­mente comu­ni­sta. E pra­ti­care la libertà dell’intellettuale senza riguardi per diplo­ma­zie e opportunità.

La sua scan­da­losa pre­senza riflet­teva e appro­fon­diva con­trad­di­zioni irri­solte in un sistema di potere che si sarebbe blin­dato solo nel corso degli anni Ottanta, al tempo della strut­tu­rale crisi di espan­si­vità del capi­ta­li­smo maturo. Oggi sarebbe forse imma­gi­na­bile un Paso­lini edi­to­ria­li­sta del Cor­riere della sera o di Repub­blica? Cia­scuno cono­sce la rispo­sta, se appena ha con­tezza del deso­lante pae­sag­gio dell’informazione ita­liana. Che non è un ambito distinto e sepa­rato, ma lo spec­chio fedele della deca­denza intel­let­tuale e morale del paese e della cor­ru­zione di tutta una classe diri­gente.

Ciò vale – anche da que­sto punto di vista lo sce­na­rio è mutato, non in meglio – pure per l’intellettualità. Paso­lini par­lava a nome di un mondo vasto e arti­co­lato, certo di dare voce a molti mossi, come lui, dalla pas­sione per la verità.

Oggi? Anche qui cia­scuno rispon­derà per sé. Dirà, in base alla pro­pria espe­rienza, se sulla scena pub­blica ita­liana scorge tanti intel­let­tuali liberi, ani­mati dal corag­gio civile, dal rigetto dell’ipocrisia e dell’omertà, dispo­sti a «tra­dire» il ruolo ser­vile loro asse­gnato. O vede invece per­lo­più pavidi con­for­mi­sti osse­quiosi alle clien­tele, chie­rici abbar­bi­cati ai pro­pri pri­vi­legi, docili fun­zio­nari dell’industria cul­tu­rale (l’università, l’editoria, i media) in fuga sta­bile dalla responsabilità.

Add comment

Submit