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Il modello Tor Sapienza che rischia di prodursi nel futuro

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I fatti di Tor Sapienza sono noti ai più solo attraverso il racconto giornalistico. Chiunque abbia avuto la possibilità (e il coraggio politico) di interfacciarsi direttamente con quella realtà, scavalcando narrazioni mediatiche e verità di comodo, interagendo direttamente con la gente del quartiere, sa bene quali dinamiche abbiano prodotto i fatti della scorsa settimana. I palazzi di viale Giorgio Morandi, seppur nella loro specificità, rappresentano una situazione tipica di tutte le altre periferie romane. Quelle periferie sorte ai margini del Raccordo o chilometri fuori da questo, in un’espansione infinita e disordinata che sta covando una bomba sociale di proporzioni storiche. Dato per assodato che ormai la questione Tor Sapienza è per noi chiusa e l’impossibilità di parlare con quella parte del quartiere acclarata, potremmo però tentare di tirare fuori da questa esperienza la capacità di intervenire nella prossima periferia in sommossa. E’ per questo, perché possa servire da esperienza, che bisognerebbe cogliere i punti nodali di questa situazione. Sgomberando il campo da alcuni dubbi che un giretto a Giorgio Morandi toglierebbe anche al più chiuso ideologicamente dei compagni.

Purtroppo per noi, le periferie romane oggi non si chiamano Centocelle, Cinecittà, Tufello, Pigneto, Alessandrino, Montesacro, Tor Pignattara, Garbatella e via dicendo. Le borgate e i quartieri periferici di una volta sono stati oggi inglobati nella città ufficiale e riconosciuta, quella interna al Raccordo e tutto sommato integrata. Sacche di degrado permangono anche in questa zona semicentrale, come ovunque a Roma – anche nelle zone interne alle mura Aureliane – ma il dato significativo è che la *periferia*, a Roma, è un’altra cosa. E’ Tor Bella Monaca, Colle Salario, Fidene, La Rustica, Tor Sapienza, Corviale, Giardinetti, Setteville, Guidonia, Ponte di Nona, eccetera. Salvo alcune encomiabili eccezioni, si pensa la periferia con canoni di trenta o quaranta anni fa: oggi la periferia, la città esclusa, marginalizzata, percepita come illegale anche quando prevista dai piani urbanistici del Comune, è quella a ridosso del Raccordo e fuori, non quella a ridosso della Tangenziale. In questa enorme fascia territoriale e di popolazione, in cui abita la maggior parte della cittadinanza romana, che occupa la maggiore estensione della città metropolitana, non esiste alcun tipo di intervento sociale delle sinistre (tranne sempre lodevoli eccezioni). Pensare che in contesti del genere la coscienza media di una popolazione allo sbando, lasciata a se stessa da istituzioni e politica, intrisa di degrado, quello vero e non quello cavalcato dalle destre, possa esprimersi direttamente come qualcosa dotato di coscienza non diciamo politica, ma quantomeno sociale, significa equivocare totalmente la situazione reale, sbagliare i presupposti di ogni possibile intervento. Oggi è questo il campo in cui si gioca la sopravvivenza della sinistra di classe romana, e lo è perché è un campo in cui si sta formando un’alternativa. L’alternativa è la destra razzista e populista in cerca di una sua base sociale popolare.

Insomma, ragionare del proletariato e sottoproletariato romano nei termini di un soggetto già tutto sommato cosciente di sé sulla falsariga dell’operaio di fabbrica, magari impolitico ma organizzato sindacalmente, consapevole dei propri nemici quantomeno economici, è un errore di prospettiva decisivo. Oggi quella fascia popolare – ripetiamo: la maggior parte della popolazione romana – è completamente esclusa da ogni possibile processo di integrazione, anche sociale, anche pre-politica. Una zona d’ombra formata da razzismo strisciante, cultura da branco o da stadio, affascinata da logiche malavitose. La lontananza della politica da queste zone impedisce pure alle destre di organizzare anche una piccola parte di questa composizione, ma ciò non significa che questo lo sarà per sempre. O ci proviamo noi e ci riusciranno loro, è questo il tema oggi.

Come sa chiunque si sia affacciato a Giorgio Morandi, nessuna organizzazione neofascista ha prodotto o si è inserita nella rivolta di quartiere contro il centro migranti. Il degrado sociale, economico, culturale, politico che vivono le case popolari di Tor Sapienza – case assegnate agli ex-occupanti degli anni settanta e ottanta dei palazzi occupati lungo la Tiburtina: Casalbruciato, Tiburtino Terzo, San Basilio, Ponte Mammolo – e appartenenti tutti alla ex Lista di Lotta, cioè il movimento di lotta per la casa degli anni Ottanta a Roma, è un fatto evidente da anni. Un degrado di cui i residenti sanno benissimo chi sono i responsabili. Ragionare di questi fatti partendo dall’oggi e legando tutta la rivolta a presunti complotti contro Marino significa raccontarsi una favola completamente fuori dalla realtà delle cose. Non è Marino che non può entrare a Tor Sapienza, ma la politica. Borghezio, il M5S, Alemanno, i centri sociali, Casapound: è rifiutato in blocco quel tipo di politica che per decenni si è disinteressata ai bisogni e alle necessità di un corpo sociale martoriato dal degrado sociale, e che oggi si affaccia solo perché la questione ha assunto rilevanza nazionale e i titoli dei giornali impongono di interessarsi alla vicenda.

Affermare che la destra non c’entra nulla con la vicenda non significa dire che quegli abitanti sono di sinistra, anche questo è bene chiarirlo subito onde evitare scontate reprimende da chierichetti del lavoro sociale. C’è molto razzismo di borgata, c’è sottocultura da branco, c’è la logica della comitiva e dinamica legate alla microcriminalità di quartiere: tutto vero, ma questo fatto riguarda tutte le periferie romane. Se queste situazioni costituiscono a prescindere un muro al lavoro sociale delle sinistre nei quartieri popolari, significa abbandonare la nave, dichiarare la resa politica di fronte a una composizione con cui scegliamo di non avere nulla a che fare. Il problema, come dicevamo, è che il nostro abbandono apre le porte al tentativo politico di una destra che sta teorizzando proprio l’internità a queste situazioni, che sta costruendo una sua base sociale volta alla creazione di un nuovo polo politico. Se noi abbandoniamo questo campo il nostro futuro è quello francese: una sinistra che legge i libri a Belleville pensando che quella sia la periferia parigina e una destra che organizza i settori popolari della società francese sfruttando il sacrosanto risentimento dei lavoratori verso la politica in chiave razzista e populista.

Oggi ci sarà un’assemblea di quartiere a Tor Sapienza. Il gioco è però ormai fatto. Non solo l’assemblea avverrà in tutt’altra zona, quella ripulita e “per bene”, che non a caso vede la presenza organizzata di forze neofasciste che, non riuscendo ad entrare tra le gente delle case popolari di viale Giorgio Morandi, si riduce ad organizzare le villette di Piazza de Cupis. L’assemblea di stasera è opportuna, e allo stesso tempo certifica la nostra incapacità di dialogare con le contraddizioni di un quartiere popolare. Può servire a fare esperienza per la prossima rivolta sociale, ma di certo non da una bella immagine dello stato dell’arte della sinistra in questa città. Noi ci parteciperemo, sapendo però che non è a Piazza de Cupis che si gioca la partita, ma a Viale Giorgio Morandi e nelle altre mille vie simili della città, che sono un’altra cosa, socialmente e politicamente.

Piccola aggiunta ex post:

img 4639 mappa

Questa è la città di Roma con la suddivisione in municipi prima della riforma. L’anello grigio è il Raccordo. Il primo municipio, in bianco, corrisponde al centro storico. Quelli semicentrali sono il 2, 3, 6, 7, 9, 10, 11, 17 e parte del 20. Tutto il resto è la città esclusa, dove non arriva politica, attività sociale, presenza istituzionale. L’80% della città.

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