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lindice

A tutti i costi per la Terra di Mezzo

Franco Pezzini

Wu Ming 4, Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien, con un saggio di T.A. Shippey, traduzione dall’inglese di Wu Ming 4, Odoya (collana Odoya Library), Bologna 2013, pagg. 280, euro 18,00

Nel catalogo della casa Odoya di Bologna uno dei titoli più brillanti conquistati negli ultimi tempi è certamente questo saggio di Wu Ming 4. Che raccoglie riadattamenti di scritti 2011-2013 e altri inediti, nel recupero critico di un ampio panorama di studi italiani e soprattutto anglosassoni (Defending Middle-Earth era appunto il titolo di un celebre saggio di Patrick Curry degli anni Novanta): e il risultato è un libro bellissimo e lucido, che al rigore dell’impianto unisce una qualità di scrittura avvincente e ricca di suggestioni.

Dove l’originalità non sta tanto, in apparenza, nell’argomento, a fronte del successo evergreen della saga tolkieniana in libreria (e anche su schermo, in ultimo con quel sontuoso e godibilissimo Lo Hobbit che ha però il limite di dilatare indebitamente una storia dal sapore narrativo diverso); ma piuttosto nello sforzo dell’autore di aiutare a rileggere Tolkien con sguardo nuovo e libero da interpretazioni manipolatorie.

Senza farne beninteso un santino, e collocandolo sul piano storico, sociale e culturale nella sua specifica realtà di uomo e di letterato; per esaminarne poi la fortuna (quanti sanno che i Beatles avevano progettato una trasposizione in film di The Lord of the Rings con Lennon come Gollum?) a fronte dei limiti degli epigoni.

Il risultato – come dichiarato in aletta – è “Un libro da battaglia, che fa piazza pulita dei pregiudizi sul padre della Terra di Mezzo […] schiacciato tra lo snobismo della critica paludata nei confronti della letteratura fantastica e le tirate per la giacca dei lettori confessionali o tradizionalisti”. Da un lato infatti Il Signore degli Anelli è sì “un’opera religiosa e cattolica” (come la definisce Tolkien stesso) ma in senso “etico-culturale, cioè al netto di ogni indirizzo confessionale”. La visione cristiana di Tolkien, scrittore di fede autentica e problematica, conosce i dubbi dolorosi e la messa alla prova del paradosso della finitezza – per cui tristezza per la morte e necessità di sfuggire a una nevrotica ossessione conservativa si confrontano in una dimensione di dilemma umanamente irrisolto – ma comunque entro una scrittura “senza intenti pedagogici o morali”.

D’altro canto, attraverso il tessuto non solo delle opere più note ma di lettere e lezioni di Tolkien, emerge (e il volume ne dà analiticamente conto) l’inconsistenza di una certa interpretazione eroicistica/destrorsa italica propagandata a fini ideologici nel tentativo di lottizzare autori del fantastico. Benché l’eucatastrofe finale del Signore degli Anelli non sia completamente consolatoria, e l’opera tolkieniana appaia “pervasa da un senso d’ineluttabile perdita, senza la quale non ci sarebbe possibilità di rinnovamento”, l’apertura a quella speranza non passa attraverso rimpianto, equivoco orgoglio o disperazione, ma solo attraverso il resistere e l’umile piantare “buoni semi per il futuro”.

A brillare è piuttosto la lezione di una scrittura presa sul serio, “per la grande potenzialità dei miti e delle storie di dirci qualcosa su noi stessi”. “Tolkien realizza il metodo mitico caro ai modernisti, non già attraverso la citazione colta, ma attraverso la mitopoiesi, coniando nuovi miti dal materiale antico, senza la mediazione ironica”: e alla mitologia vede inestricabilmente legato il linguaggio. Al punto dal rispondere spesso a chi gli chiedesse l’argomento del romanzo più noto, che si trattava “soprattutto [di] un saggio sull’estetica linguistica”.

Nel dar conto così dello spessore di un’opera ma anche del suo potere attrattivo di un pubblico popolarissimo, il saggio finisce con l’aprirsi ai più vasti orizzonti delle ragioni del mito e della letteratura – in una straordinaria lezione che meriterebbe l’adozione già sui banchi del liceo. E che non manca peraltro di cogliere “l’attualità di alcuni temi del romanzo rispetto alle grandi questioni etiche poste dalla storia del XX secolo”: a partire dall’idea “che l’utilizzo degli stessi mezzi del nemico renda indistinguibili da lui. […] nel Signore degli Anelli […] la forza seduttiva del male consiste proprio nella tentazione di intraprendere la scorciatoia per far trionfare il bene”. Se lo stregone buono Gandalf, ci dice Tolkien in una lettera, fosse caduto sotto l’influsso dell’anello del Potere, sarebbe divenuto persino peggiore dell’arcicattivo Sauron: “Sarebbe rimasto onesto, ma di un’onestà ipocrita. Avrebbe continuato a regnare e a dare ordini nel ‘bene’, per il benessere dei suoi subordinati in base alla sua saggezza” e in questo modo “avrebbe reso il bene detestabile e l’avrebbe fatto assomigliare al male”. Note che oggi non suonano meno pungenti di fronte a strutture di potere più o meno democratiche e buonistiche. Di certa fantasy solo apparentemente lontana dai giochi della realtà, insomma, abbiamo forse ancora un gran bisogno.

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