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huffington post

Rating Italia: Renzi avvisato, mezzo salvato

Luigi Pandolfi

Presi come siamo dalle notizie che giungono dalla Capitale - certamente gravi, rivelatrici di un grado di degenerazione del sistema politico da far tremar le vene e polsi - stiamo forse sottovalutando quel che sta accadendo intorno a noi sul versante dell'economia e dei conti pubblici.

Ciò, nonostante alcuni segnali inequivocabili e convergenti giunti in questi giorni da diverse parti. Ad aprire le danze è stata Standard & Poor's, che ha declassato il rating del debito italiano a BBB-, ovvero ad un livello che nella scala utilizzata dalla nota agenzia di rating esprime il rischio di un peggioramento della capacità di pagamento degli interessi e del capitale ("qualità medio -bassa") da parte di un paese. L'ultimo stadio prima di dichiarare il nostro debito una merce "speculativa", ad elevato rischio di insolvenza.

Si sta preparando un nuovo attacco speculativo ai danni del nostro paese? Vedremo. Intanto registriamo che la Commissione e l'Eurogruppo hanno preso la palla al balzo per ammonirci sulla necessità di accelerare sulle "riforme strutturali" e di intervenire risolutamente per correggere, già a partire dal 2015, il deficit strutturale, non escludendo l'avvio di una nuova procedura di infrazione a nostro carico.

Si è fatta sentire anche la Merkel, affermando che le riforme messe in cantiere dal nostro paese sono ancora insufficienti. Un fuoco di fila che può essere letto in vario modo. Ciò che appare evidente, in ogni caso, è che per i mercati finanziari ed i tecnocrati di Bruxelles l'attivismo di facciata del premier non è più sufficiente. Gli chiedono interventi rapidi e concreti volti a destrutturare lo stato sociale, o quello che ne rimane, per conseguire più alti surplus primari da destinare alla riduzione del debito. Almeno a parole. Di fatto, stanti le attuali condizioni dell'economia, il rastrellamento di nuove risorse andrebbe solo a vantaggio della rendita finanziaria (interessi), senza incidere minimamente sullo stock del debito, che, com'è noto, continua a cresce inesorabilmente, nonostante le misure di austerity (più corretto sarebbe dire "anche grazie alle misure di austerity"). Parlano i numeri: nel 2007 il nostro debito faceva il 103,2% sul Pil, oggi il 133,8%. Una percentuale che, secondo recenti stime dell'Ocse, potrebbe fino al 138% prima che l'anno in corso si chiuda. C'è una correlazione tra recessione e aumento del debito? E tra austerità e recessione? Non lo nega più nessuno.

Nel mondo rovesciato in cui viviamo, il potere politico, che di "sovrano" ha ben poco ormai (meno che mai il debito), è continuamente soggetto ai condizionamenti, ed al ricatto, del potere finanziario, che può, in determinate situazioni, imporre anche cambi di governo e nuovi scenari politico-istituzionali. Renzi è andato a Palazzo Chigi giovandosi del favore di gran parte dei centri di potere locali, europei ed internazionali. In questi mesi si sta applicando molto nel picconamento delle infrastrutture di base del nostro welfare, al netto delle dichiarazioni (propagandistiche) di insofferenza verso "l'Europa delle banche e dell'austerità". Nondimeno, a leggere quello che sta accadendo in questi giorni, sembra che l'alunno non stia rendendo per come i "maestri" si attendevano. Si impegna ma non rende. Deve fare di più, adesso. In fin dei conti si è arrivati ad una censura non convenzionale della manovra di bilancio appena approvata, con una morsa a tenaglia tra agenzie di rating ed istituzioni europee. Chiarissimo il comunicato dell'Eurogruppo: "C'è un buco tra quanto proposto e quanto offerto. La differenza tra 0,1 e 0,5% del Pil è pari a 0,4%. Questo può essere chiuso con nuove misure o con misure più efficaci tra quelle già prese o con un accordo sulle cose da fare". Ancora più chiaro il rapporto di S&P sulla via da seguire: "Prendiamo atto che il premier Renzi ha fatto passi avanti col Jobs Act, ma si teme che i decreti attuativi della riforma possano essere ammorbiditi alla luce di una opposizione crescente". Tradotto: urgono nuovi tagli alla spesa pubblica, meno tutele sul lavoro, più libertà per le imprese. Il premier è avvisato.

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