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quiete o tempesta

Se muoiono due poliziotti

Davide Grasso

Assistiamo, da anni, a forme di tensione latente tra forze di polizia e altre istituzioni. Quanto sta accadendo in questi giorni a New York, con le ripetute contestazioni di poliziotti (e sindacati di polizia) al sindaco della città, rimanda ad altri episodi, anche italiani. Si pensi alle veementi richieste di sindacati di polizia per ottenere “mano libera”, negli ultimi anni, contro i No Tav in Val Susa, con la minaccia di proteste o mobilitazioni in caso contrario; alle ovazioni per tre agenti che hanno ucciso Federico Aldrovandi a un’assemblea sindacale (agenti che pure erano stati condannati in via definitiva dall’organo giudiziario); alle conseguenti prese di posizione di diverse sigle sindacali contro il governo e il presidente della repubblica, colpevoli di aver condannato gli appalusi all’indirizzo dei tre assassini. In tutti questi casi, come in quello statunitense di questi giorni, prendiamo atto di una sorta di ribellismo delle forze di polizia rispetto alle loro catene di comando istituzionali.

Certo, il contesto è diverso. Negli Stati Uniti continuano indisturbati gli omicidi polizieschi di persone dalla pelle nera (e non solo), e da quest’estate sta crescendo un movimento di protesta radicato ed esteso, che gode delle simpatie anche di molti bianchi e sicuramente della comunità ispanica. Una mobilitazione che ha messo i rappresentanti democratici con le spalle al muro: Obama non ha potuto non ammettere che esiste un senso comune di ingiustizia tra molti statunitensi riguardo all’operato di giudici e polizia.

De Blasio ha dovuto rivolgersi a una città particolarmente sensibile qual è New York andando anche oltre: dicendo addirittura che i ragazzi neri, anche se si comportano “bene”, devono stare attenti alla polizia quando rincasano la sera (di qui le contestazioni al suo indirizzo). Uno sfondo razziale che esprime un portato storico-simbolico che in Italia, e più generale in Europa, non esiste o si esprime in tutt’altre forme. Resta però l’analogia di fatto tra forme o episodi di scollamento tra operatori di polizia e politica istituzionale.

Tentiamo una chiave di lettura: gli operatori di polizia sono da anni sempre più attraversati da convinzioni particolarmente aggressive. Considerano sé stessi gli unici baluardi dello status quo e si rendono conto che, senza la loro violenza, il sistema istituzionale non riuscirebbe a difendersi. Non sono più tempi di relativa pace sociale, non sono più gli anni Novanta e nemmeno i cupi primi anni Duemila. La legittimazione politica e morale di chi detiene il potere è ai minimi storici, soprattutto in occidente. Gli agenti impegnati nell’ordine pubblico lo percepiscono. La prima reazione è di risentimento per quello che considerano un trattamento economico e lavorativo non proporzionato, più che allo sforzo e allo stress, all’importanza politica del loro ruolo nella tutela dell’ordine pubblico. La reazione conseguente è la non disponibilità ad accettare critiche, tanto più da parte di coloro (i politici) nella cui difesa consiste il (più che deprimente) significato complessivo del loro lavoro.
Tutto ciò ha avuto origine anche nella necessità, da parte delle forze istituzionali e dei media che le sostengono, di cementare la pubblica opinione non attorno a un progetto politico di potere (quelle erano le “ideologie”), ma attorno al negativo e alla paura – tutto ciò che è rimasto alle forze capitaliste dopo la vittoria del 1989. Paura di stranieri che si fanno esplodere o che invadono a milioni i nostri territori, ma anche dei folli, dei fanatici e dei disperati che possono tagliarci la gola ad ogni angolo di strada. Sappiamo quanto questo bombardamento mediatico-culturale sia penetrato nelle rappresentazioni collettive negli ultimi quindici anni, fino a giustificare l’ignobile farsa dell’esercito nelle strade in Italia, la sconvolgente militarizzazione della polizia e della vita pubblica negli Stati Uniti, la letterale invasione dei luoghi pubblici da parte di polizia ed esercito in Francia. Chi è diventato soldato, ma anche chi è entrato in polizia in questi anni, crede di essere il salvatore del popolo, perché ogni giorno legge sui giornali che è così. L’attuale generazione di poliziotti è, in occidente, un misto di risentimento e autoesaltazione, fanatismo e nichilismo, assenza di ideali e rabbiosa ricerca di giustificazioni.
Questo mix spiega la violenza in genere, ma anche l’entusiasmo con cui questi individui ci aggrediscono alle manifestazioni, che sono, si badi, forse gli unici momenti (in parte anche allo stadio) in cui vengono additati collettivamente per ciò che realmente sono. Il problema di molti di essi è che, in verità, capiscono benissimo cosa vogliamo dire quando diamo loro degli infami; e questa consapevolezza del problema etico che sempre più si fa strada tra le persone attorno al reale ruolo della polizia (si pensi allo sporco lavoro di sgomberi e sfratti) rappresenta un problema, in prospettiva, per le istituzioni. È anche questa la ragione per cui è così importante, oggi, a New York, allestire questa enorme spettacolarizzazione attorno ai funerali dei due agenti uccisi. Le istituzioni sanno quanto è diffusa la perplessità, quando non l’ostilità aperta, nei confronti del ruolo sociale della polizia – in regioni mondiali e contesti diversi. Molti sono portati a farsi delle domande, a New York o altrove; e nelle società possono prodursi crepe ancora più gravi.
È possibile che, negli anni che verranno, l’importanza delle forze di polizia diventerà così grande per le istituzioni – unico muro fisico contro la loro potenziale distruzione – che esse diventeranno poteri in parte dotati di una loro indipendenza, come già, tradizionalmente, è l’esercito. L’iperliberismo distrugge ogni intermediazione sociale che non sia la minaccia della violenza. Già sono in atto processi di parziale privatizzazione del compito repressivo, con la cessione ad aziende private di pezzi sempre più importanti del controllo urbano. Nelle rivolte arabe, turche, greche le forze di polizia hanno in vari modi e in diverse direzioni mostrato di voler o poter usare il loro peso politico. La distanza che separa potere militare e potere di polizia tenderà a cadere inesorabilmente: i compiti della polizia sono sempre più, da anni, compiti di guerra civile latente, quelli degli eserciti sempre più ruoli di polizia internazionale. Non conta la dimensione immediata del carico di violenza che si getta sulle persone: le istituzioni moderne sono istituzioni preventive. Il loro compito è impedire che qualcosa inizi. La violenza della polizia funziona oggi soprattutto come minaccia in risposta a un’altra minaccia. Viviamo in un’epoca di latenze.
Queste minacce che si confrontano sono fatti politici. La minaccia poliziesca è costante: non si annida in modo particolare in questa o quella volante, in questo o quel plotone, in questo o quell’ufficiale o agente. L’atteggiamento che dobbiamo tenere nei confronti dell’istituzione come del singolo poliziotto è sempre politico. Anche quando una macchina di pattuglia è ferma tra due avenue di Brooklyn, nel quartiere-ghetto che caratteristicamente confina con quello della movida, il poliziotto rammenta alla popolazione i limiti del suo possibile. Il poliziotto ha scelto da che parte stare, e sa che talvolta il possibile esce dai suoi limiti. Il poliziotto, in Europa o in America, buono o cattivo che sia, bianco, nero o a pallini, spera che il reale coincida con il possibile anche oggi, per portare la pagnotta a casa. Il poliziotto, a Roma come a Parigi, a Istanbul come a New York, è un uomo che ha abiurato alla sua indipendenza in cambio di due soldi, che ha venduto braccia e occhi al potere pur di non andare incontro al comune destino di precarietà sociale e di libertà possibile delle persone che gli stanno attorno. Non cessiamo di rivolgere a questo individuo uno sguardo politico. Ogni poliziotto è nostro nemico.

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