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manifesto

Le passioni tristi dell’economia

Alfonso Gianni

Il con­fronto tra due noti eco­no­mi­sti, Tho­mas Piketty, autore del for­tu­nato Il Capi­tale nel XXI secolo e Gre­gory Man­kiw, con­ser­va­tore ex con­si­gliere di Bush, tenu­tosi l’altro giorno a Boston nella gre­mi­tis­sima Indi­pen­dence Ball­room dell’Hotel She­ra­ton è stata stra­vinta dal primo. A rife­rirlo – e anche que­sto è molto signi­fi­ca­tivo – è il Sole24Ore, tra­mite la penna di Carlo Basta­sin che colora il suo arti­colo di gustosi epi­sodi, come le cri­ti­che di John Sti­glitz alle teo­rie di Man­kiw pro­iet­tate sulle pareti della sala in con­tem­po­ra­nea alla discus­sione, oppure l’accorato appello di un gio­vane eco­no­mi­sta alla ribel­lione nei con­fronti del capi­ta­li­smo e a por­tare la pro­te­sta nelle Uni­ver­sità. Tanto da far dire all’articolista del gior­nale con­fin­du­striale che erano decenni che un dibat­tito eco­no­mico non susci­tava pas­sioni tipi­che di una assem­blea stu­den­te­sca di stampo sessantottino.

Eppure il libro di Piketty ha susci­tato per­ples­sità e cri­ti­che anche a sini­stra, alcune delle quali più che giu­sti­fi­cate. Come quelle di David Har­vey o di Chri­stian Marazzi, per citarne solo alcune tra le più auto­re­voli, che hanno giu­sta­mente impu­tato all’autore fran­cese di con­si­de­rare il capi­tale come una cosa, scri­vendo di fatto una sto­ria del patri­mo­nio, e non un rap­porto sociale mediato da cose come in effetti è. Infatti il lungo sag­gio di Piketty si con­cen­tra più sui sin­tomi che non sulle cause dell’aumento delle dise­gua­glianze sociali. Inol­tre è assente l’analisi del ruolo poli­tico del debito nella pola­riz­za­zione della ric­chezza a sca­pito del lavoro vivo e della coo­pe­ra­zione sociale.

Tut­ta­via ciò che conta – al di là dell’ambizione spro­po­si­tata del titolo, pro­ba­bil­mente non col­ti­vata dall’autore mede­simo – è che Il Capi­tale nel XXI secolo è una incon­fu­ta­bile foto­gra­fia del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo che con «pre­ci­sione atroce», per dirla con lo stesso Har­vey, ha regi­strato il dila­tarsi delle disu­gua­glianze lungo il secolo pas­sato a livello mon­diale. Ed è in que­sta chiave che va letto e con­si­de­rato. Qui sta la sua forza pro­rom­pente di cri­tica al neo­li­be­ri­smo, ossia a quelle teo­rie che hanno con­ce­pito la dise­gua­glianza, quindi la com­pe­ti­zione, come il motore dello sviluppo.

Piketty è pas­sato anche da que­ste parti. Ha tenuto con­fe­renze, fra le quali una alla Camera dei Depu­tati, ma senza susci­tare così forti entu­sia­smi. E’ curioso – se riper­cor­riamo con nostal­gia il ricordo degli anni Ses­santa e Set­tanta — e anzi forse spia­ce­vole dirlo, ma biso­gna ammet­tere che l’ambiente intel­let­tuale che si respira oltre Atlan­tico, almeno in ambito uni­ver­si­ta­rio o negli imme­diati din­torni, è molto più ricet­tivo che non nel nostro paese e in tanta parte d’Europa. Mal­grado la crisi eco­no­mica abbia pro­prio nel nostro vec­chio con­ti­nente le con­se­guenze più pro­fonde e dura­ture, a cause delle scia­gu­rate poli­ti­che pro cicli­che por­tate avanti dalla Ue e dai sin­goli governi. E quindi più urgente sia la neces­sità dell’elaborazione di alter­na­tive di poli­tica economica.

In Ita­lia e in buona parte d’Europa – con la grande ecce­zione della Gre­cia e della Spa­gna — la cri­tica supera a stento l’ambito acca­de­mico o una sini­stra spesso stol­ta­mente ver­go­gnosa dell’importanza data nel pas­sato alle que­stioni eco­no­mi­che. Intanto Oli­vier Blan­chard, il capo eco­no­mi­sta del Fondo Mone­ta­rio ci avverte che ci sono degli «angoli bui» nella teo­ria eco­no­mica (più ele­gan­te­mente Nas­sim Nicho­las Taleb li avrebbe chia­mati «cigni neri») che hanno impe­dito di pre­dire e ana­liz­zare per tempo la crisi. La famosa domanda rivolta anni addie­tro dalla Regina Eli­sa­betta a un ple­num di eco­no­mi­sti «Come mai non avete pre­vi­sto la più ter­ri­bile crisi di tutti i tempi?» è rima­sta ancora senza rispo­sta. Intanto tutti i modelli – inter­pre­ta­tivi e pre­dit­tivi – sono sal­tati, spe­cie quelli mate­ma­tici che pare­vano a torto i più solidi.

La distanza è side­rale. Basta con­fron­tare la pro­po­sta che emerge dal lavoro di Piketty e che è rim­bal­zata nella discus­sione di Boston sulla neces­sità di isti­tuire una tassa mon­diale sulla ric­chezza, una sorta di patri­mo­niale uni­ver­sale, e lo squal­lido dibat­tito, con annessi risvolti da romanzo giallo d’appendice, attual­mente in corso sul fami­ge­rato arti­colo 19 bis del decreto di delega fiscale, che ha isti­tuito una sorta di «modica quan­tità» di eva­sione fiscale, pari al 3% dell’imponibile e che avrebbe garan­tito la deru­bri­ca­zione di reati e la can­cel­la­zione di ini­bi­zioni ai pub­blici uffici per Sil­vio Ber­lu­sconi. Da una parte si cerca almeno di tagliare le unghie a quei ric­chi che con orgo­glio – vedi le dichia­ra­zioni di War­ren Buf­fet — hanno riven­di­cato di avere vinto quella fase della lotta di classe che si è svi­lup­pata nel mondo negli ultimi qua­ranta anni; dall’altra truf­fal­di­na­mente si tenta di garan­tire nuovi mar­gini e impu­nità all’evasione e l’elusione fiscale.

Solo la forza delle idee non riu­scirà a bucare quella imper­mea­bi­liz­za­zione che il capi­ta­li­smo euro­peo ha saputo costruire a sua pro­te­zione.
E’ evi­dente che ci vuole un fatto con­creto ed esterno al dibat­tito eco­no­mico per dare una scrol­lata. L’occasione c’è ed è quella della più che pro­ba­bile vit­to­ria di Syriza in Gre­cia. A con­di­zione che si sap­pia che la cosa più dif­fi­cile viene dopo, quando comin­cerà un brac­cio di ferro con le eli­tes poli­ti­che, buro­cra­ti­che ed eco­no­mi­che della Ue per pro­ce­dere ad una ristrut­tu­ra­zione del debito.

In que­sto senso pos­siamo essere più otti­mi­sti di qual­che tempo fa. Il pen­siero unico in campo eco­no­mico è defi­ni­ti­va­mente spez­zato e le pos­si­bi­lità per un rivol­gi­mento poli­tico in Europa non abi­tano sol­tanto nel mondo dei desi­deri. Come è noto Key­nes con­clu­deva la sua opera mag­giore dicendo che spesso i gover­nanti seguono le indi­ca­zioni di qual­che oscuro eco­no­mi­sta del passato.

E’ suc­cesso così per il neo­li­be­ri­smo. Per Key­nes, che mar­xi­sta pro­prio non era, «pre­sto o tardi sono le idee, non gli inte­ressi costi­tuiti, che sono peri­co­lose sia nel bene che nel male». Spe­riamo che que­sta volta lo siano nel bene e presto.

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