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La contingenza che fagocita l’universalità

di Adelino Zanini

Di un nuovo Marx non v’è bisogno alcuno, né Thomas Piketty sembra coltivare una simile ambizione. L’equivoco, forse ad arte suscitato, deriva certamente da un’indebita enfatizzazione di parte del titolo del ponderoso Il capitale nel XXI secolo; si dissolve però non appena il libro lo si legga per intero, cogliendo, in particolare, quello che è uno dei problemi fondamentali oggetto di disputa, ossia la definizione stessa di capitale (lo ha chia­rito James W. Galbraith nella recensione apparsa su “Dissent” la scorsa primavera). E del resto è l’autore medesimo a dichiararsi non solo “vaccinato a vita contro i discorsi antica­pitalistici”, ma anche, cosa sicuramente più importante, non interessato a “denunciare le disuguaglianze o il capitalismo in quanto tale, tanto più che le disuguaglianze sociali non costituiscono un problema in sé, purché siano giustificate”. Riuscire a giustificarle po­trebbe rappresentare un bel rompicapo, e non solo perché, in linea di principio, si potrebbe obiettare che la giustificazione morale della disuguaglianza sociale non è mai in grado di indicare quale sia il limite oltre il quale il giustificabile diviene ingiustificabile.

Ma, in ogni caso, all’autore dev’essere riconosciuto il diritto di affrontare lo scoglio. Che non lo faccia è però un dato di fatto. O meglio, che si rifiuti di gettarsi nel mare periglioso dopo aver esaurientemente dimostrato come e perché la diseguaglianza ci sia e si moltiplichi, credo risulti palese anche al lettore meno accorto.

Nell’asserzione (tesi centrale del libro) secondo cui, quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito, il capitalismo produce diseguaglianze destinate via via ad aggravarsi e tali da mettere in discussione i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche, la consecuzione esprime una relazione tra merito e democrazia che Piketty legittimamente può assumere, ma che la sua ricerca non fonda necessariamente. Che il contrasto, tipico dei sistemi de­mocratici e accentuato dal fattore ereditario, tra cittadinanza e disuguaglianza effettiva delle reali condizioni di vita possa e debba scaturire da principi razionali e universali, non da contingenze arbitrarie, è un’asserzione ragionevole ma non semplice da dimostrarsi se­condo modalità condivise. Il “passato divora il futuro” proprio perché la contingenza fago­cita l’universalità. Si potrebbe osservare che l’autore ha inteso, con più saggia modestia, contribuire solamente “a determinare le forme di organizzazione sociale, le istituzioni e le politiche pubbliche più appropriate, che consentano di istituire una società giusta, il tutto nel quadro di uno stato di diritto, le cui regole siano prestabilite, applicabili a tutti e oggetto di dibattito democratico”. Senonché, rispetto a ciò, si può anticipare, l’argomentazione dell’autore non riesce a essere molto convincente. Infatti, quando si dice che “la dialettica democratica non può svilupparsi senza una base statistica affidabile”, giacché il “rifiuto della contabilità ha raramente giovato ai più poveri”, corre l’obbligo di cautelarsi circa il fatto che le idee riformatrici che sui dati statistici si fondano abbiano non solo una plausibilità teorica, ma anche una vocazione utopica (dall’autore peraltro riconosciuta) misurata, tale cioè da non rischiare di vanificare non certo quei medesimi dati, quanto il “calculemus!” che la ricerca connota. Il poter dimostrare che la “rendita” è avversa alla democrazia e quindi al merito non implica il poter dimostrare anche che al merito debba conseguire una diseguaglianza scaturita da principi razionali e universali. In breve, la grande rilevanza del lavoro di Piketty è per molte ragioni evidente e indiscutibile, non per questo, però, palesa una sufficiente evidenza anche la visione etica e politica che lo sorregge.

La rilevanza è quella dell’imponente ricerca storico-statistica, di cui altri, meglio di me, hanno argomentato. Ricerca che costituisce la ragione dell’enorme lavoro puntigliosamente svolto e giustamente apprezzato da personalità di grande rilievo scientifico. Alquanto lon­tano dal mainstream economico spesso autoreferenziale e molto ideologico, l’autore riven­dica il proprio approccio storico e l’appartenenza della ricerca economica all’ambito delle scienze sociali. Egli dichiara ad esempio di preferire di gran lunga Lucien Febvre o Fernand Braudel a Robert Solow o allo stesso Simon Kuznets. Affermazione indubbia­mente coraggiosa, giacché si spinge sino ad accantonare la sussiegosa espressione “scienza economica” (terribilmente arrogante, dice Piketty, quasi si trattasse di una scienza staccata dalle altre scienze sociali) preferendole di gran lunga l’espressione “economia politica”, il cui merito è quello di mettere in luce quella che “è l’unica peculiarità dell’economia accet­tabile nell’ambito delle scienze sociali: la prospettiva politica, normativa, morale”.

Nel lavoro di Piketty tale prospettiva si delinea tramite un’accuratissima indagine storico-statistica, corroborata anche da apprezzabili rinvii storico-letterari (Balzac e Austen, in primis) grazie ai quali emergono iconiche evocazioni di tipi umani che appartengono tanto alla storia letteraria di epoche diverse, quanto al costume di ceti sociali di quelle epoche rappresentativi. Tuttavia, quando la prospettiva si restringa, qualcosa manca, lo ha notato tra gli altri David Harvey. Se si considera ad esempio il modo in cui l’autore presenta lo scenario degli anni cosiddetti “trenta gloriosi”, non si può fare a meno di notare il modo a dir poco sbrigativo con cui egli affronta il “dettaglio” storico. Sia chiaro, Piketty dedica un gran numero di pagine alla disamina dei dati statistici inerenti alla divisione capitale-lavoro. E sono dati che pesano e che permettono di vedere in altra luce importanti teorizzazioni spesso riproposte senza cautela alcuna nella manualistica economica. È però davvero poca cosa il cenno (tutto “francese”) al maggio 1968 e all’imporsi della questione salariale; e ancor più semplicistico è il modo in cui se ne inquadra la sconfitta e l’emergere del thatche­rismo. Eppure, sono quelli gli eventi storici che meglio spiegano il forte aumento delle di­seguaglianze e il fatto che “la quota dei profitti nel prodotto nazionale risale a razzo per tutti gli anni ottanta”. Quella che l’autore stesso definisce una cronologia “molto politica” sembra in realtà risolversi in una storia senza soggetti e in cui i protagonisti rischiano di es­sere veramente delle mere caricature dei Rastignac e dei Vautrin balzachiani.

Ambiziosa quanto fragile è la proposta politica (seppur pensata “procedendo per tappe graduali”) secondo cui “lo strumento ideale per evitare una spirale di disuguaglianza senza fine e per riprendere il controllo della dinamica in corso sarebbe un’imposta mondiale pro­gressiva sul capitale”. Non che non sia auspicabile, ça va sans dire, ma è l’autore stesso a misurarne l’impraticabilità ove osserva che “la crescita della concorrenza fiscale nel corso degli ultimi decenni, in un contesto di libera circolazione dei capitali, ha portato a uno svi­luppo senza precedenti dei regimi in deroga riguardanti i redditi da capitale”. Egli stesso non manca di ricorrere poi al paradosso, conseguente al fatto che un’integrazione norma­tiva iniziale (almeno per macroaree) presupporrebbe, contemporaneamente, l’operare e il dissolversi di una figura politica che, se da un lato è già agonizzante, dall’altro è però palesemente coinvolta nel gioco perverso: lo stato-nazione. Del resto, è qui che s’inciampa ogni volta in cui ci si debba misurare con i processi economici globali che hanno decretato la morte politica dello stato-nazione senza tuttavia rinunciare al sussidio offerto da alcuni dei suoi più tradizionali strumenti di controllo e selezione, naturalmente a saldi invariati.

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