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manifesto

Il controtempo di una prassi radicale

Roberto Finelli

«Insorgenze» di Mario Pezzella per Jaca Book. Il culto del denaro e del profitto. Una sofisticata analisi della società contemporanea

Mario Pez­zella è da sem­pre un intel­let­tuale raf­fi­nato e a tutto tondo, di come ormai ne com­pa­iono sem­pre più rara­mente. Stu­dioso di filo­so­fia, let­te­ra­tura, este­tica, cinema, tra­dut­tore dal tede­sco e dal fran­cese, fre­quen­ta­tore dell’impegno poli­tico e civile, ha sem­pre stretto que­ste diver­sità di campi e disci­pline nell’unità del radi­ca­li­smo cri­tico, d’ispirazione mar­xiana. Ricer­cando con osti­na­zione e acume vie d’uscita pos­si­bili dalla gab­bia d’acciaio e dalla regres­sione, eco­no­mica, ma, non di meno, morale, psi­co­lo­gica e antro­po­lo­gica indotta dalla dif­fu­sione, a piene mani, sulla scena mon­diale dell’unica civiltà del «Capi­tale». Fedele a que­ste istanze, con una coe­renza di per­corso che con­duce fre­quen­te­mente alla soli­tu­dine e al disco­no­sci­mento, Pez­zella ripro­pone oggi la ric­chezza della sua rifles­sione estetico-filosofico-politica nel suo ultimo volume, Insor­genze, pub­bli­cato da Jaca Book.

La tesi fon­da­men­tale del libro, di con­tro a let­ture solo eco­no­mi­ci­sti­che del mondo con­tem­po­ra­neo e pre­senti ancora in un certo mar­xi­smo sem­pre più resi­duale, è sulla natura teo­lo­gica, «spi­ri­tuale», del capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato nel quale viviamo. L’anima del capi­tale è infatti «astratta», imma­te­riale, volta solo al pro­fitto e alla sua accu­mu­la­zione: alla cre­scita della sua quan­tità ini­ziale di denaro e all’espansione, sem­pre più ampia, di que­sto ciclo. Pena la pro­gres­siva emar­gi­na­zione ed espul­sione dal mer­cato a motivo della con­cor­renza degli altri capi­tali.

Fon­dato su una ric­chezza astratta, il capi­tale è dun­que un sog­getto sto­rico e sociale para­dos­sal­mente «imma­te­riale», pronto a calarsi e a con­cre­tiz­zarsi in qual­siasi pro­du­zione di beni e di ser­vizi, in qual­siasi occa­sione di gua­da­gno finan­zia­rio e di borsa, in qual­siasi tipo­lo­gia del mer­cato del lavoro, da quello più garan­tito dei cen­tri dello svi­luppo a quello semi­schia­vi­stico del sot­to­svi­luppo o del turbosviluppo.

 

La teo­lo­gia del denaro

La rifles­sione di Marx sul moderno, mediata da Pez­zella con spunti fecon­dis­simi tratti da Ben­ja­min, Kafka e altri autori con­tem­po­ra­nei va iscritta dun­que, sor­pren­den­te­mente, in una cor­nice, solo appa­ren­te­mente mate­ria­li­stica, quanto invece teologico-spiritualistica: quale sistema di una società in cui pro­to­colli astratti d’accumulazione for­zata svuo­tano di senso le nostre vite. A que­sta cor­nice teo­lo­gica dell’economico moderno, a que­sta teo­lo­gia del denaro — assai diversa dalle inda­gini genealogiche-patristiche del teo­lo­gico come oiko­sno­mia di Gior­gio Agam­ben, per­ché rivolta invece all’originalità attuale, mai veri­fi­ca­tasi nella sto­ria pre­ce­dente, di un’«Astrazione Quan­ti­ta­tiva come Spirito/Dio» — Pez­zella dedica non a caso quat­tro capi­toli cen­trali del suo volume: 1) Il debito 2) il gioco 3) il culto della merce 4) imma­gini di sogno.

Ma ogni dimen­sione teo­lo­gica ha, com’è noto, al di là della favola della sua pre­tesa auto­suf­fi­cienza divina, un pro­fondo biso­gno dell’umano, del sen­si­bile, del con­creto per vivere e mani­fe­starsi e que­sto signi­fica per Pez­zella com­pren­dere e met­tere a tema anche e soprat­tutto le modi­fi­ca­zioni pro­fonde del nostro modo di sen­tire e di per­ce­pire la vita, cui quella coa­bi­ta­zione for­zata con la sog­get­ti­vità astratta e imper­so­nale dell’economico-capitalistico ci con­duce e ci obbliga. Così ad esem­pio già l’analisi dei qua­dri di Paul Klee, fin dal primo decen­nio del Nove­cento, mostra il diso­rien­ta­mento verso l’oggettività, che ormai asse­dia l’abitante della moder­nità. In quella pit­tura infatti le cose per­dono la loro fami­lia­rità con l’uomo che le ha pro­dotte e acqui­stano un carat­tere per­tur­bante e fan­to­ma­tico: secondo quanto già si pro­fe­tiz­zava nei cele­ber­rimi passi mar­xiani sul feti­ci­smo e la vita auto­noma delle merci.

Del resto sta pro­prio nella natura dell’uomo del post­mo­derno, o meglio sarebbe dire dell’ipermoderno, essere domi­nato da imma­gini e rap­pre­sen­ta­zioni solo di super­fi­cie: tanto più acce­canti e tota­li­ta­rie, in quanto esito di un’esperienza sia di lavoro che di non-lavoro, di con­sumo di media e d’informazioni, al cui interno il mondo del con­creto, colo­niz­zato e svuo­tato dalla logica dell’astratto e della sua accu­mu­la­zione, appare ridursi a mera super­fi­cie, imbel­let­tata, luc­ci­cante e alti­so­nante, pro­prio a com­pen­sare la sua vuo­tezza interiore.

Così nelle pagine del libro si sus­se­guono ana­lisi di film come Il pro­cesso di Orson Wel­les, Tau­rus di Soku­rov, I can­celli del cielo di Michel Cimino, a cui si affian­cano delu­ci­da­zioni di testi let­te­rari come le Poe­sie di Paul Celan: in un insieme che rende più leg­gera l’esposizione e con­ta­mina l’asprezza della rifles­sione sul teo­lo­gico con una raf­fi­nata e più distesa con­cre­tiz­za­zione este­tica. Per pro­porre infine Pez­zella, sul piano della filo­so­fia poli­tica e di una pos­si­bile via d’uscita, ter­rena e laica, dalla teo­lo­gia del capi­tale una sin­go­lare com­mi­stione tra la con­ce­zione del tempo, dell’ora, come ten­sione dia­let­tica in Ben­ja­min da un lato e la teo­ria dell’azione poli­tica di Han­nah Arendt dall’altro: riletta e fecon­data alla luce di pen­sa­tori della demo­cra­zia radi­cale e insor­gente come Miguel Abensour.

 

Resi­stenze emozionali

Il tempo del capi­tale è infatti il tempo della ripe­ti­zione osses­siva e demo­niaca, che ripro­pone nel pre­sente, senza novità e dif­fe­renze, il pas­sato. È il tempo che spe­gne l’irrompere e l’accendersi dell’emozionale, del nuovo, del vitale, per­ché nella sua logica elea­tica d’insistenza sul sem­pre eguale, del pro­fitto e della sua osses­sione quan­ti­ta­tiva, l’eracliteo è solo appa­renza, il domani eguale all’oggi e l’oggi eguale allo ieri. È il tempo, in que­sta ripe­ti­zione dell’identico, della for­clu­sione delle emo­zioni, dell’impossibilità cioè del forte sen­tire e della costri­zione appunto a una vita di super­fi­cie, senza pro­fon­dità emo­tiva. Si tratta allora per tutti coloro che resi­stono e s’oppongono a que­sta vita anaf­fet­tiva, ridotta alla ripro­du­zione mesta e melan­co­nica della pro­pria sog­get­ti­vità ammi­ni­strata da altri, di gene­rare insor­genze, brecce, sospen­sioni del dive­nire. Fare dell’ora un pre­ci­pi­tato di rot­tura della ripe­ti­zione e di con­ce­pi­mento del nuovo, a muo­vere dall’acquisizione defi­ni­tiva che demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva signi­fi­chi ormai, e irre­ver­si­bil­mente, tota­li­ta­ri­smo degli isti­tuti e dei par­titi della rap­pre­sen­tanza, volti solo alla ripro­du­zione pri­vi­le­giata del pro­prio sé.

Una realtà cioè com­ples­siva della demo­cra­zia, come la viviamo nei paesi occi­den­tali, come luogo dell’alienazione poli­tica, come uti­liz­za­zione dell’universale pub­blico per la ripro­du­zione di un ceto pri­vato, a cui non può che con­trap­porsi la rifles­sione della Arendt sulla qua­lità e il tempo della vera azione poli­tica: la quale per l’autrice tede­sca, diver­sa­mente dagli obbli­ghi e le neces­sità del tempo di lavoro, immette nella sto­ria una plu­ra­lità di esseri umani — cia­scuno di essi indi­vi­duati e tra loro non ridu­ci­bili ad Uno — che pro­get­tano e creano, ogni volta in modo ori­gi­nale attra­verso la con­di­vi­sione e la distanza reci­proca, lo spa­zio e la deci­sione pubblica.

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