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manifesto

L’ordine cupo del Califfato

Alessandro Dal Lago

Tutto è comin­ciato con la guerra che Sad­dam Hus­sein, in nome e con i soldi dell’occidente, sca­tenò con­tro l’Iran nel 1981. L’esito del con­flitto, ter­mi­nato nel 1988, non fu solo il raf­for­za­mento dei mul­lah al potere a Tehe­ran, ma la crisi finan­zia­ria dell’Iraq, che, nel 1990 invase il Kuwait, il prin­ci­pale paese cre­di­tore. La guerra del 1991, le san­zioni, l’invasione anglo-americana del 2003, la guer­ri­glia e il con­flitto tra sun­niti e sciiti hanno finito per distrug­gere lo stato ira­cheno, spia­nando la strada all’estremismo sun­nita, ad Al-Qaeda e all’Isis.

L’Iraq rap­pre­senta la prova della fal­li­men­tare stra­te­gia ame­ri­cana nel mondo arabo e isla­mico dopo il 1989. Se Osama bin Laden è stato il risul­tato della rea­zione ame­ri­cana all’invasione russa dell’Afghanistan, il Califfo è la con­se­guenza diretta dell’appoggio dei neo-cons a chiun­que com­bat­tesse i cosid­detti «stati cana­glia», ovvero l’Iraq e la Siria. Le foto­gra­fie del sena­tore Mc Cain accanto ai ribelli siriani, con cui ha avuto diversi incon­tri, spie­gano meglio di qual­siasi ana­lisi una spe­cia­lità della poli­tica ame­ri­cana: allearsi con i pro­pri nemici.

D’altronde, è noto che i pila­stri del sistema di alleanze degli Usa, l’Arabia Sau­dita e il Paki­stan, hanno sem­pre fatto il dop­pio gioco. I sau­diti finan­ziano in tutto il mondo i sala­fiti e i ser­vizi segreti pachi­stani appog­giano da sem­pre i tale­bani afghani in fun­zione anti-Kabul. In ultimo, al fronte dei filo-fondamentalisti alleati degli Usa si è aggiunto Erdo­gan, che ha fatto di tutto per sabo­tare la resi­stenza curda nella Siria del nord, men­tre gli ame­ri­cani bom­bar­da­vano l’Isis.

 

Una spe­cie di franchising

La cecità stra­te­gica degli Usa è figlia di diversi fat­tori: un’interminabile osses­sione anti-russa, che si è ina­sprita dopo l’era Eltsin, e l’ostilità verso l’Iran (russi e ira­niani hanno sem­pre appog­giato Assad), l’alleanza sto­rica con l’Arabia Sau­dita, gen­darme del petro­lio nel golfo per­sico, lo spo­sta­mento dell’asse glo­bale verso il Paci­fico e soprat­tutto un’assenza di visione gene­rale che si è tra­dotta in una poli­tica ondi­vaga e con­trad­dit­to­ria. Poco prima di accor­gersi che l’Isis è la prin­ci­pale minac­cia nell’area, Gli stati Uniti si pre­pa­ra­vano a bom­bar­dare Assad, insieme a inglesi e fran­cesi, reduci dall’intervento in Libia, pro­ba­bil­mente l’iniziativa più stu­pida e auto-lesionistica di cui gli stati occi­den­tali si siano resi respon­sa­bili negli ultimi decenni.

Tutto ciò con­tri­bui­sce a spie­gare l’ascesa appa­ren­te­mente irre­si­sti­bile dell’Isis, lo Stato isla­mico della Siria e dell’Iraq, che ora si è spinto fino alle coste della Libia e cerca alleanze, in regime di fran­chi­sing, in mezzo mondo, dal Ciad alla Nige­ria di Boko Haram, dal sud della Tuni­sia e dell’Algeria al Sinai e allo Yemen. Come spiega molto bene Patrick Coc­k­burn in L’ascesa dello stato isla­mico. Il ritorno del Jiha­di­smo (Stampa alter­na­tiva, feb­braio 2014), il dila­gare dello jiha­di­smo sarebbe incom­pren­si­bile senza il ruolo tren­ten­nale dell’occidente nei sus­sulti di un mondo che va da Tan­geri alla Cina. Più di altri saggi che stanno uscendo in que­ste set­ti­mane (Dome­nico Qui­rico, Il grande calif­fato, Neri Pozza, e Mau­ri­zio Moli­nari, Il Califfo del ter­rore, Riz­zoli), Coc­k­burn insi­ste sull’implicazione di fat­tori micro e macro nel «sor­pren­dente» suc­cesso del Califfo.

Se l’Isis si nutre di una con­ce­zione medie­vale dell’Islam (peral­tro iden­tica a quella dei sau­diti) ed è capace di ammi­ni­strare bene, come sostiene Moli­nari, cioè di imporre l’ordine asso­luto nel ter­ri­tori con­qui­stati, è anche vero che le armi e i denari neces­sari alla con­qui­sta pro­ven­gono dalla Tur­chia, dal Qatar e dall’Arabia Sau­dita (e indi­ret­ta­mente dall’occidente). Non c’è alcuna mera­vi­glia nel fatto che ira­cheni e siriani, stre­mati da guerre civili inter­mi­na­bili, pre­fe­ri­scano alla morte quo­ti­diana l’ordine cupo ma sta­bile del Califfo. Lo stesso era suc­cesso in Afgha­ni­stan con i tale­bani prima dell’11 set­tem­bre 2001. Ma quello che conta è che il petro­lio ira­cheno e siriano, e i tank e gli Hum­vee desti­nati all’esercito di Bagh­dad, fini­scono nelle mani del Califfo.

 

Coreo­gra­fia del terrore

Un altro aspetto deci­sivo dell’analisi di Coc­k­burn è sfa­tare la leg­genda del «pri­mi­ti­vi­smo» dell’Isis. Il fana­ti­smo, le ese­cu­zioni dei pri­gio­nieri, le deca­pi­ta­zioni degli ostaggi, l’applicazione sel­vag­gia della sha­ria sono del tutto com­pa­ti­bili con un uso sapiente dei mezzi di comu­ni­ca­zione, dei video e soprat­tutto dei social net­work. Se i video rac­ca­pric­cianti, imme­dia­ta­mente dif­fusi in tutto il mondo, hanno l’effetto di ter­ro­riz­zare e demo­ti­vare i sol­dati gover­na­tivi e nemici, ira­cheni, siriani e oggi libici, Twit­ter e Face­book sono piat­ta­forme ideali per la pro­pa­ganda e il reclu­ta­mento. I mes­saggi che spin­gono ceceni, tuni­sini, libici e sun­niti di ogni ori­gine (ma anche fran­cesi, inglesi, ame­ri­cani) ad arruo­larsi nell’Isis saranno sem­pli­ci­stici (il sacri­fi­cio di sé in nome di Dio, l’odio per la cor­ru­zione occi­den­tale e per l’erotismo e così via), ma potenti e soprat­tutto effi­caci. Così, con un para­dosso appa­rente, l’occidente offre ai suoi nemici l’impiego della stessa tec­no­lo­gia e degli stessi mezzi di comu­ni­ca­zione. E que­sto vale anche per l’estetica e la coreografia.

Le file di uomini in nero, masche­rati e ano­nimi, che con­du­cono al macello le vit­time a capo chino vestite d’arancione, o le ban­diere nere che gar­ri­scono in cima a una col­lina o sul tetto degli edi­fici, sono uno straor­di­na­rio richiamo per chiun­que cer­chi un’esperienza limite, la trance dell’uccidere e dell’essere uccisi, sia che com­batta nella steppe siriane e ira­chene, sia che s’illuda di farlo nelle strade di una metro­poli europea.

A que­sta capa­cità comu­ni­ca­tiva e visio­na­ria dell’Isis cor­ri­spon­dono in occi­dente la disin­for­ma­zione e la con­fu­sione di desi­deri e realtà. Per mesi, ame­ri­cani ed euro­pei hanno igno­rato ciò che avve­niva tra Siria e Iraq (in sin­tesi, l’unificazione sotto l’Isis di una vasta zona di con­fine). E soprat­tutto hanno cre­duto a quello che desi­de­ra­vano cre­dere, e cioè l’esistenza di un’opposizione siriana laica e filo-occidentale. Que­sta è stata attiva nei primi mesi della rivolta, ma, com­po­sta com’era da intel­let­tuali e ceto medio urbano, non ha mai avuto alcun peso mili­tare. Come ha rico­no­sciuto cini­ca­mente un lea­der Usa, «in mezzo, tra Assad e l’Isis ci sono solo i bot­te­gai». La realtà è che, men­tre in occi­dente si faceva il tifo per un’opposizione che non c’era, l’Isis eli­mi­nava la con­cor­renza, come il Free Syrian Army, e fago­ci­tava al-Nusra e altri gruppi filo-qaedisti.

La sven­ta­tezza delle due coo­pe­ranti ita­liane Greta e Vanessa è ben poca cosa rispetto a quella delle can­cel­le­rie e dell’opinione pub­blica occi­den­tali. Come dice Coc­k­burn, «inten­den­dosi di pro­pa­ganda, hanno ben com­preso che con­ve­niva loro pre­sen­tare le rivolte come sol­le­va­zioni inno­cue, ‘rivo­lu­zioni di vel­luto’ gui­date da un’avanguardia di blog­ger e utenti di twit­ter, anglo­foni e bene­du­cati, per con­vin­cere i cit­ta­dini dei paesi occi­den­tali che i rivo­lu­zio­nari medio­rien­tali fos­sero per­sone in tutto e per tutto simili a loro e che quanto stava acca­dendo nel 2011 fosse un feno­meno simile alle rivolte anti­co­mu­ni­ste e filoc­ci­den­tali esplose nell’Europa orien­tale a par­tire dal 1989». Lo stesso si può dire della Libia. Nel 2011 mi è capi­tato spesso di discu­tere con col­le­ghi e cono­scenti di sini­stra che sper­giu­ra­vano sulla vit­to­ria delle rivo­lu­zio­nai arabe, senza porsi il pro­blema di chi le finan­ziava e soprat­tutto dei rap­porti di forza inter­na­zio­nali. Ho ancora in mente repor­tage di inviati improv­vi­sati ine­briati dall’avanzata dei gio­vani rivol­tosi su Tri­poli, ma che non si chie­de­vano chi avesse for­nito loro blin­dati e mitra­glia­trici pesanti.

 

L’antidoto ai vaneggiamenti

Anche la stampa main­stream ha ali­men­tato ogni tipo di leg­genda, attri­buendo alle truppe di Ghed­dafi orrori che non ave­vano com­messo e tacendo poi pudi­ca­mente sulla spa­ven­tosa fine del dit­ta­tore. Per non par­lare di chi inci­tava alla guerra sulle prime pagine dei quo­ti­diani e oggi tace non avendo alcun­ché da dire sugli svi­luppi recenti, se non ripro­porre le solite gia­cu­la­to­rie sulla rimo­zione della guerra in occi­dente. Il libro di Coc­k­burn fa giu­sti­zia della bolla di disin­for­ma­zione, pre­giu­dizi ideo­lo­gici e dilet­tan­ti­smo che ha avvolto da noi la cono­scenza delle guerre in Libia e in Siria, non­ché l’ascesa dell’Isis.

L’autore, già cor­ri­spon­dente del Finan­cial Times e poi di The Inde­pen­dent, dimo­stra che si può fare ottimo gior­na­li­smo senza ricor­rere al facile colore del san­gue e del maca­bro, che pure abbon­dano in que­sta vicenda, e senza con­for­marsi all’opinione domi­nante. La let­tura del suo libro è un anti­doto alle scioc­chezze che si sono lette in que­sti ultimi anni. Invece di vaneg­giare su guerre da com­bat­tere in Libia, i nostri mini­stri fareb­bero bene a dar­gli un’occhiata.

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