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Il valore della crisi

di Davide Gallo Lassere

La crisi è un metodo di governo. Ha fatto emergere un autoritarismo dell’urgenza che ha impietosamente svuotato la forma e la sostanza delle cosiddette democrazie “capital-parlamentari”, per riprendere l’espressione di Badiou. Il laboratorio greco lo ha ampiamente mostrato: scavalcamento dell’esecutivo e impoverimento di massa. Come scrisse già a suo tempo Milton Friedman – scimmiottato innumerevoli volte dai tecnocrati europei – soltanto una grande crisi offre l’occasione per diffondere in modo quasi-automatico delle trasformazioni radicali: è grazie alle crisi che, fortunatamente, “il politicamente impossibile diviene il politicamente inevitabile”. Si tratta della dimensione costituente della crisi, ossia della rottura definitiva con gli ultimi residui sopravvissuti alla precedente svolta storica inaugurata nel quinquennio ‘68-‘73, la quale si configura, al contempo, come rilancio della valorizzazione capitalistica e come comando sulla nuova composizione di classe. A partire da questi spunti di riflessione teorica e politica, lo scorso 29-30 novembre si è tenuto al CS Cantiere e allo Spazio di Mutuo Soccorso di Milano un seminario congiunto Commonware/Effimera, i cui contributi sono ora liberamente disponibili in ebook.

Due gli snodi tematici principali sui cui si focalizza il confronto – zeppo di rimandi reciproci tra i diversi interventi: gli scenari economico-politici della governance imperiale e la ricerca di una ricomposizione politica difficile da costruire. Partiamo dal primo. Se Guareschi individua negli smottamenti in corso “una sorta di motore di irreversibilità, una singolarità che apre a un campo guerreggiato in cui si definiscono nuovi equilibri ed emergono nuovi attori istituzionali”, Fumagalli, scandagliando le quattro diverse fasi della crisi scoppiata nel 2008, mette in luce il suo carattere poliedrico ed eterogeneo relativo alle specificità dei diversi capitalismi regionali e al loro posizionamento gerarchico all’interno dell’imperialismo globale. Tale prospettiva complessa consente di intrecciare le differenti traiettorie della crisi al ridispiegamento delle varie dinamiche di accumulazione e alle rispettive conflittualità sulle quali esse sfociano di volta in volta, tanto sul piano nazionale che internazionale. A farla da padrone i processi di finanziarizzazione, col loro seguito di alleanze inedite sullo scacchiere mondiale (la recente creazione da parte dei BRICS di una banca di investimenti indipendente dai forzieri occidentali) e di espropriazione violenta dei frutti prodotti dal lavoro vivo come della ricchezza sociale già esistente (il comune del capitale). In questo quadro congiunturale, come ricorda Sciortino, gli Usa proseguono imperterriti il loro prelievo “sulle catene del valore globale”. Malgrado le difficoltà crescenti del loro regime d’accumulazione, gli Stati Uniti costituiscono infatti il “perno del sistema di riciclo della liquidità internazionale e dei surplus commerciali”: una posizione di rendita poggiante su un apparato finanziario e cognitivo che permane ancora, nonostante tutto, sostanzialmente ineguagliato. È all’orizzonte di questo caos sistemico attraversato da giganteschi “sconquassi geopolitici” che si stagliano la “guerra diffusa” analizzata con finezza da Marazzi, l’“Europa degli HungerGames” cui si riferisce Costantini, o, ancora, il “Reverse enginering” della Cina afflitta dalla “trappola del reddito medio” (Battaglia), così come “le impasse del divenire-sud della politica” che attanagliano il Brasile in seguito alle imponenti mobilitazioni del 2013 (Cocco), le quali hanno di fatto segnato la morte del precedente ciclo progressista: “la misteriosa curva della retta lulista”, per dirlo con Cava.

A fungere da cerniera tra questa vasta carrellata di diagnosi e le ulteriori interrogazioni gli interventi di Vercellone e Cominu: il primo, pregevole per trasparenza, volto a chiarire l’arsenale concettuale forgiato per comprendere il passaggio al “capitalismo cognitivo”; il secondo impegnato a sottoporre con estrema lucidità a vaglio critico questo stesso armamentario, soffermandosi in particolare sulle categorie di “capitale estrattivo” e di “lavoro cognitivo”. A partire da questo quadro analitico che ridiscute le acquisizioni teoriche degli anni passati alla luce degli accadimenti recenti, i contributi successivi tentano di esplorare le problematicità inerenti ai processi di soggettivazione autonoma in un contesto di aspettative di vita decrescenti, fatto di precarietà forzata e di carenze di reddito. Se Morini insiste, sulla scorta del femminismo materialista, sulla crucialità della riproduzione e del valore d’uso per scardinare i dispositivi di organizzazione e disciplinamento del capitale, gli interventi del CS Cantiere, di Sisto (ascoltabile su commonradio) e di Vignola pongono in risalto la quotidianità dell’abitare nella crisi, l’immediatezza dei bisogni concreti e l’importanza della creazione di forme discorsive riconoscibili per costruire percorsi di auto-organizzazione capaci di migliorare fin da subito le condizioni di vita e di materializzare desideri, istanze e passioni che aprono su nuovi orizzonti di lotta e di aggregazione. Gli ultimi due tasselli di questo ricco mosaico sono infine forniti da due pezzi dal sapore diverso: quello di Pezzulli, sulle “non lotte” nei call center, e quello di Curcio, sulla pluralità delle linee di frattura operate dalle lotte della logistica, le quali evidenziano la centralità dell’antirazzismo radicale.

In breve, “La crisi messa a valore” rappresenta uno sforzo importante al fine di ridisegnare una mappa teorica e politica all’altezza delle sfide del presente. O meglio: mette a disposizione una bussola preziosa, indispensabile non solo per combattere l’analfabetismo di ritorno, fatto – come ricordano i compagni e le compagne del CS Cantiere – di incapacità ad articolare un giudizio critico e di disorientamento informazionale, ma anche e soprattutto per provare a risolvere “il rompicapo della composizione di classe”.

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