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avvenire

Democrazia, più tensione ideale

di Remo Bodei

Rispetto al passato, in cosa differisce l’attuale bisogno degli individui di contare di più? Perché questo legittimo desiderio si manifesta spesso nell’ossessiva esigenza di venire illuminati di luce riflessa dalle persone cui si tributa omaggio o contro cui si protesta? Che cosa spinge, per prendere un esempio minore, le persone, durante i funerali, ad applaudire al passaggio della bara, invece di rimanere in rispettoso silenzio? In società democratiche frammentate - nelle quali, come diceva Tocqueville, «l’uguaglianza pone gli uomini fianco a fianco, senza un legame comune che li unisca» - gli individui sono indotti a puntellare la propria fragile identità appoggiandosi a personaggi ed eventi per sentire di esistere ed essere riconosciuti?

Il tramonto dei tradizionali fattori d’identificazione e l’assenza di modelli maggiormente vincolanti acuiscono indubbiamente il desiderio diffuso di costruire se stessi per interposta persona. Atteggiamenti analoghi non rappresentano una novità, ma diverso è oggi è il quadro esistenziale, politico e istituzionale in cui si situano.

Le società tradizionali possedevano, infatti, strumenti abbastanza efficaci sia per compensare gli uomini degli svantaggi della loro condizione, sia per giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva religiosa di una ricompensa in cielo e nelle ideologie dominanti che agivano in modo da dissuadere i più sfavoriti dall’aspirare agli alti gradini della scala sociale.

Le società democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla in questo dispositivo d’inibizione delle aspettative, collaudato da millenni, e hanno fatto balenare in molti le possibilità una vita diversa, almeno sul piano del fantasticare.

È stata così legittimata l’ambizione di ciascuno a superare la propria condizione di partenza per scalare i vertici della piramide sociale e giungere al potere, alla ricchezza, alle cariche, al prestigio, alla notorietà. L’orizzonte delle vite promesse si è allargato e, fin da bambini, è diventato lecito e frequente sia immaginare esistenze lontane dagli ambienti socio-economici di partenza, sia coltivare propositi di successo e di celebrità.

Di fronte al presagibile fallimento di quanti non riusciranno mai a far collimare le vite sognate con la realtà, sono state elaborate o si sono formate in maniera quasi automatica, per prove ed errori, anche molteplici strategie per gestire le inevitabili frustrazioni.

In maniera apparentemente paradossale, il culto delle celebrità svolge un ruolo importante proprio all’interno di queste società che si considerano egualitarie. La fama temporaneamente assegnata anche a chi non ha alcun merito specifico si accompagna, infatti, all’indebolimento delle gerarchie e al desiderio di svettare, in gare incruente, al di sopra della mediocrità. All’interno delle società democratiche si costituiscono così gerarchie informali, dai confini mobili e incerti.

In questa prospettiva, il fascino suscitato dalle celebrità deriva dal loro essere uscite dall’anonimato, dal venire ammirate per il denaro, la nobiltà, il glamour, la giovinezza, la bellezza, l’abilità nello sport o nello spettacolo e - per una sorta di feed back positivo - per il loro stesso comparire spesso sulla scena pubblica e sui mezzi di comunicazione di massa. Perché la gente si occupa, spesso con intensa partecipazione emotiva, di persone senza qualità che saranno forse dimenticate tra qualche lustro, come Paris Hilton? Perché la morte e i funerali di Lady Diane hanno commosso e fatto piangere milioni di persone? Non si manifesta in questi casi anche il riconoscimento e l’accettazione implicita della propria irrilevanza, della propria inconsapevole voglia di esistere per procura attraverso la vita degli altri?

Oggi si assiste alla "smobilitazione" delle masse e al parallelo rafforzamento di potenti élite economiche e politiche transnazionali che, al di fuori del consenso popolare dei singoli Stati, tolgono importanza ai singoli e rischiano di trasformare la democrazia in un suo mutante, nel dispotismo mite. Sotto questo profilo, il bisogno di esserci, di contare si rivela un surrogato di una spontanea esigenza extra-politica di socialità che deve essere interpretata.

È trascorso un quarto di secolo da quando, con effetto domino, sono crollati, uno dopo l’altro, tutti i regimi comunisti europei. Nell’euforia di questa svolta è stata messa la sordina alle bobbiane "promesse non mantenute" della democrazia, da allora mostrata, spesso e volentieri, con il corpo anemico e nelle vesti dimesse di regime più consono alle debolezze e alla generale pochezza degli esseri umani che non al loro miglioramento, un compito che viene in gran parte lasciato alla religione, alla famiglia o all’iniziativa personale. Anche per esorcizzare l’utopico progetto totalitario di fondare lo Stato etico o di costruire l’"uomo nuovo", la democrazia è stata tacitamente privata di ogni reale aspirazione e i suoi ideali sono per lo più diventati il trampolino di esercitazioni retoriche.

La democrazia ha perciò oscillato tra la rassegnazione nei confronti del "legno storto dell’umanità" e la fede nella sua perfettibilità. Ha vissuto della tensione tra la modestia delle sue pretese, che la porta ad accettare gli individui come sono - nella loro ignoranza, passività ed egoismo - e la volontà di cambiarli. Tra le debolezze delle attuali democrazie spicca quella della mancata educazione alla cittadinanza. Educando, con la buona politica, i cittadini a porsi attivamente obiettivi più ambiziosi di crescita, il bisogno di contare brillando di luce riflessa diventerà un innocuo motivo di svago.

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