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dinamopress

L’emergenza strategica del comune

di Pierre Dardot, Christian Laval

In anteprima un estratto del nuovo libro di Dardot e Laval "Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo" [...] in uscita il 22 aprile con DeriveApprodi. Il volume è stato presentato il 18 aprile, alle ore 17,30 presso Esc Atelier.

9494a7f7 dede 44d1 c173 0d1df324b478La rivendicazione del comune è stata in un primo tempo portata a esistenza dalle lotte sociali e culturali contro l’ordine capitalista e lo Stato-impresa. Termine centrale dell’alternativa al neoliberismo, il «comune» è divenuto il principio effettivo delle battaglie e dei movimenti che, da vent’anni, hanno resistito alla dinamica del capitale e hanno dato vita a forme d’azione e di discorso originali. Lungi dall’essere una pura invenzione concettuale, il comune è la formula dei movimenti e delle correnti di pensiero che intendono opporsi alla tendenza dominante della nostra epoca: l’estensione dell’appropriazione privata a tutte le sfere della società, della cultura e della vita. In tal senso, il termine indica non la risorgenza di un’atemporale Idea comunista, ma l’emergenza di un modo nuovo di contestare il capitalismo, se non persino di concepirne il superamento. È anche un modo di voltare definitivamente le spalle al comunismo statale. Lo Stato, una volta divenuto proprietario di tutti i mezzi di produzione e di amministrazione, ha sistematicamente annientato il socialismo, «che è sempre stato concepito come un’intensificazione della democrazia politica e non come il suo rifiuto». Si è dunque trattato, per coloro che non si accontentavano della «libertà» neoliberista, di aprirsi un nuovo cammino. È questo contesto che dà conto della maniera in cui il tema del comune è comparso negli anni Novanta, emergendo contemporaneamente nelle lotte locali più concrete e nelle mobilitazioni politiche di grande respiro.

Le rivendicazioni sorte attorno all’idea di comune hanno fatto la loro comparsa nei movimenti globali ed ecologisti. Esse hanno preso a riferimento l’antico termine di commons, cercando di opporsi a quella che veniva percepita come una «seconda ondata di recinzioni». Questa espressione rimanda al plurisecolare processo di appropriazione delle terre collettive («comunali») e di soppressione dei diritti consuetudinari nelle campagne europee, a seguito della «recinzione» (enclosure) dei campi e dei pascoli. Lo spirito generale del movimento è ben riassunto dalle parole dei protagonisti della «lotta per l’acqua» di Cochabamba: «Siamo stati vittime di un furto enorme pur non essendo proprietari di nulla». Questi commons sono stati contemporaneamente oggetto di un’intensa riflessione teorica. Numerosi lavori di ricerca sul campo – tra cui quelli portati avanti da Elinor Ostrom – si sono concentrati sulle forme istituzionali, sulle regole di funzionamento, sugli strumenti giuridici che permettono a collettività di gestire «in comune» risorse condivise al di fuori del mercato e dello Stato, che si tratti di risorse naturali o di «beni comuni della conoscenza». La folgorante espansione di Internet negli ultimi due o tre decenni ha messo in luce tanto le nuove possibilità della cooperazione intellettuale e della reciprocità degli scambi in rete che i rischi che gravano sulla libertà a causa della concentrazione del capitalismo informatico e del controllo poliziesco esercitato dagli Stati. Filosofi, giuristi ed economisti hanno da allora moltiplicato i lavori sull’argomento, andando così lentamente a creare il campo sempre più ricco dei commons studies. Michael Hardt e Antonio Negri, da parte loro, hanno fornito la prima teoria del comune, il che come minimo ha avuto il merito storico di far passare la riflessione dal piano delle esperienze concrete dei commons (al plurale) a una concezione più astratta e politicamente più ambiziosa del comune (al singolare). Insomma, «comune» è diventato il nome di un regime di pratiche, di lotte, d’istituzioni e di ricerche che aprono su un avvenire non capitalista.

Lo scopo di questo libro è precisamente quello di rifondare il concetto di comune in modo rigoroso, e ciò riarticolando le pratiche che in tale concetto trovano oggi il loro senso a un certo numero di categorie e istituzioni (talvolta molto antiche) che nella storia occidentale hanno fatto del comune un termine insieme valorizzato e maledetto. Valorizzato e persino sacralizzato, perché il comune intrattiene una forte affinità con ciò che eccede il «commercio profano»; maledetto, perché è il termine che ogni volta minaccia il godimento privato della proprietà individuale o statale. Le ricerche che qui presentiamo mirano dunque ad andare al «fondo delle cose», alla radice del diritto e dell’economia politica, indagando su cosa si intenda per «ricchezza», «valore», «bene», «cosa». Esse mettono in questione le fondamenta filosofiche, giuridiche ed economiche del capitalismo e puntano a portare alla luce del giorno ciò che questo edificio politico ha rimosso, ciò che ha impedito di pensare e di istituire. L’istituzione della proprietà privata individuale, che dà padronanza e godimento esclusivo della cosa, secondo l’antica figura romana del dominium, è la pietra di volta dell’edificio, e ciò a dispetto del suo relativo smembramento e della crisi dottrinale che ha conosciuto a partire dalla fine del XIX secolo.

Questa istituzione, il cui principio consiste nel sottrarre le cose all’uso comune, nega quella cooperazione senza la quale niente sarebbe prodotto, ignora quel comune tesoro accumulato nel quale ogni nuova ricchezza ha le proprie condizioni di possibilità. La finzione proprietaria, mentre si estende oggi all’immenso dominio della cultura, delle idee, della tecnologia, della vita, mostra ogni giorno di più i propri limiti e i propri effetti. La proprietà statale, più che esserne il contrario, ne è la trasposizione e il complemento, tanto più che lo Stato, non contento di incorporare le norme del privato, si ritira spesso dal gioco di sua propria iniziativa: è lo Stato, in Brasile, ad aver abbandonato al privato i trasporti pubblici nelle grandi città; è ancora lo Stato che, a Istanbul, privatizza gli spazi urbani a vantaggio delle grandi imprese del settore immobiliare; è sempre lo Stato che, in Etiopia, concede alle multinazionali le terre di cui è unico proprietario con locazioni a novantanove anni. Il regime della proprietà privata è stato scosso nel XIX secolo dalla grande protesta socialista – tanto faceva fatica a giustificare l’accaparramento dei frutti del lavoro dei salariati – ed è oggi esposto a un altro tipo di critica, che mostra come la proprietà non sia solamente questo dispositivo pensato per trarre godimento dal lavoro collettivo altrui, ma una minaccia generale che pesa sulle condizioni di ogni vita in comune. C’è qui la possibilità di un rovesciamento politico radicale: mentre finora il comune era concepito come la grande minaccia incombente sulla proprietà, spacciata come mezzo e ragione di vita, è invece ormai questa medesima proprietà che possiamo a ragione considerare come la minaccia principale alla possibilità stessa della vita.

Questo libro intende identificare nel principio politico del comune il senso dei movimenti, delle lotte e dei discorsi che un po’ ovunque nel mondo, in questi ultimi anni, si sono opposti alla razionalità neoliberista. Le battaglie per la «democrazia reale», il«movimento delle piazze», le nuove «primavere» dei popoli, le lotte studentesche contro l’università capitalista, le mobilitazioni per il controllo popolare della distribuzione idrica non sono affatto eventi caotici e aleatori, esplosioni accidentali e passeggere, jacqueries disperse e prive di scopo. Queste lotte politiche rispondono alla razionalità politica del comune, sono ricerche collettive di nuove forme di democrazia.

Tutto ciò è espresso in maniera chiarissima dalla relazione tra la «Comune» e i commons che il movimento del Gezi Park di Istanbul, nella primavera del 2013, sulla scia della lunga serie di occupazioni di piazze e di parchi che hanno avuto luogo un po’ ovunque nel mondo a partire dal 2011, ha portato alla luce del sole: «Comune» è il nome di una forma politica, quella dell’auto-governo locale, mentre commons è, nel caso specifico, il nome di quegli spazi urbani che la politica neoliberista di Erdogan vuole confiscare a vantaggio degli interessi privati. È anche il nome di un gruppo, Our Commons, costituitosi nel febbraio 2013 per opporsi alla «perdita di ciò che è comune». Per dieci giorni, dal primo all’11 giugno, difesi da barricate sulle quali svettava la scritta «Comune di Taksim», la piazza Taksim e il Gezi Park sono diven- tati uno spazio di vita, un luogo dove si sperimentava la messa in comune di pratiche e di forme d’azione. Questa è la sostanza: trattati dal potere come «teppisti», «dei cittadini difendono i loro spazi vitali, creano comune laddove sono materialmente costretti all’isolamento, si prendono cura dello spazio collettivo e di loro stessi». È precisamente questo il motivo per il quale si è cercato da ogni parte di assegnare un’identità agli attori del movimento Occupy Gezi, come se fosse a ogni costo necessario che questa resistenza venisse da «qualcuno» di specifico, come se il suo insostituibile valore politico non derivasse proprio dal fatto che la soggettivazione collettiva lì all’opera ha fatto andare in frantumi tutte le compartimentazioni identitarie (kemalisti contro islamisti, «turchi bianchi» privilegiati contro turchi poveri originari delle province ecc.).

È all’esplorazione di questo significato politico delle lotte contemporanee contro il neoliberismo che la presente opera è dedicata.

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