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Il termidoro sessuale del neoliberalismo italiano

di Massimo Cuono

Ida Dominijanni, Il Trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, pp. 256, € 14, Ediesse, Roma 2014

Nel nuovo libro di Ida Dominijanni vi sono almeno due temi che meritano di essere riproposti nel dibattito pubblico italiano, in cui la figura di Silvio Berlusconi e il ruolo storico e politico del berlusconismo vengono sempre più spesso derubricati a questioni morali, quando non meramente penali. Il primo merito di questo volume è restituire al ventennio berlusconiano tutta la sua portata politica, spazzando via la tesi dell’anomalia italiana: altro che eccezionalismo, il berlusconismo è neoliberalismo all’italiana, coacervo autoritario di liberismo economico (l’imprenditore che si è fatto da solo) e tradizionalismo morale (il premier campione di virilità), indice che, se di neoliberalismo si può parlare, bisogna riferirsi innanzitutto a un’ideologia pervasiva e radicalmente disegualitaria, diffusa ben al di là della sola penisola italica. Come ogni ideologia che si rispetti, il neoliberalismo non è fatto di potenti cattivi che tramano nell’ombra (di cui Berlusconi sarebbe una versione folkloristica) contro vittime innocenti, ma si tratta anche, e soprattutto, di quadri mentali diffusi a livello sociale, di pratiche quotidiane consolidate di cui tutti partecipiamo, più o meno consapevolmente.

A questo proposito, l’analisi di Dominijanni riparte dal ribaltamento in epoca berlusconiana dell’idea di libertà diffusa nei decenni precedenti; vero e proprio stravolgimento che mostra quanto poco eccezionale sia il caso italiano: “la resa del primato del politico al primato dell’economico, la privatizzazione del pubblico e l’aziendalizzazione dello stato giustificate dalla demagogia antiburocratica, l’uso tattico della legislazione e l’espansione del potere giudiziario contestuali alla crisi di autorità della legge e alla delegittimazione della Costituzione, la trasformazione dei cittadini in consumatori, la rotazione populista del rapporto fra leader e masse che scavalca le istituzioni rappresentative, l’uso di una retorica che fa costantemente leva sulla sensorialità del corpo sociale e sul sensazionalismo mediatico, la narrativa di una nuova destra, pronta all’alleanza organica con la destra tradizionalista”.

In continuità con queste riflessione, il secondo tema che merita di essere approfondito – per l’acutezza critica con cui l’autrice lo affronta – è quello dell’eredità, in epoca neoliberale, del potenziale libertario e liberatorio della rivoluzione sessuale degli anni sessanta e settanta, soprattutto in epoca di interpretazioni sessantottine e post-sessantottine del berlusconismo. Pescando dall’armamentario teorico del sociologo francese Jean-François Bayart, la posizione di Dominijanni si potrebbe parafrasare affermando che siamo in pieno termidoro sessuale; una sorta di restaurazione di comportamenti e stili tradizionali, che però neutralizza, inglobandoli, i tratti fondamentali della rivoluzione sessuale. Berlusconi resta il miglior interprete del suo tempo; insieme “uomo medio”, il cui immaginario erotico è fermo alle commedie sexy anni settanta con Edwige Fenech, e “migliore fra gli uomini”, imperatore a cui tutto è concesso e della cui corte tutti vorrebbero fare parte.

Il berlusconismo diventa così l’esempio più lampante del processo di depoliticizzazione della questione di genere che non si accompagna più a una rivendicazione politica egualitaria. Come in ambito sociale il neoliberalismo trasforma l’ideale antipaternalista, antiassolutistico e antinobiliare del liberalismo classico, concentrandosi contro gli effetti egualitari (anch’essi tacciati di paternalismo) dello stato sociale, così la questione di genere si è liberata ormai della pesante eredità della critica al patriarcato, sostituendola con una lotta identitaria, e per questo antiegualitaria, in grado di neutralizzare quei conflitti che in altri momenti della storia avevano prodotto fratture nei dogmi dei costumi tradizionali, grazie alla portata eminentemente politica delle rivendicazioni. Non individui che lottano per l’elaborazio­ne di un loro proprio modello ma figli, mogli, subalterni che combattono per partecipare del modello del padre, del marito, del padrone. Le famose “quote rosa”, ad esempio, non vengono difese per il loro potenziale destabilizzante su una situazione consolidata di diseguaglianza di fatto, quanto piuttosto perché porterebbero un non meglio specificato “sguardo femminile” all’interno delle istituzioni. Insinuando forse (?) che chi – maschio di mezz’età che vive al Nord – sarebbe meglio “rappresentato” da Matteo Salvini, piuttosto che da Luciana Castellina. Il termidoro berlusconiano, del resto, ha aperto la strada all’impero renziano della “perfetta parità”, dove le ministre – in numero rigorosamente eguale a quello dei ministri – sono anche buone madri, buone mogli, spesso buone cattoliche che trascorrono le vacanze a Medjugorje, e soprattutto, per loro stessa affermazione, non mancano mai un appuntamento dall’estetista.

Da questo punto di vista, Berlusconi appare come la versione self-made man (o self-made male) brianzolo di Margareth Thatcher e, insieme, versione edonistica del tradizionalismo etico alla George W. Bush che dilaga al livello sociale, ben oltre i confini fra destra e sinistra, mostrando “quell’ideologia del decoro che copre, a sinistra, un’adesione all’etica neoliberale esentata dell’analisi dei suoi effetti nella realtà sociale, a cominciare dalla realtà del mercato sessuale”.

Nel libro, c’è ovviamente molto di più. Dalla diagnosi della discontinuità biopolitica del nostro tempo, rivisitata però nel capitolo conclusivo, alla rilettura della tesi lacaniana sull’evaporazione del padre, molti sono i temi controversi che meriterebbero di essere discussi e rimessi in discussione; il problema dell’ideologia neoliberale (letta attraverso la chiave d’accesso del caso italiano) resta però a mio parere la questione centrale di un volume, la cui acutezza dovrebbe aiutarci a ripensare il dilagare contemporaneo delle politiche dell’identità, compresa l’identità di genere, come strumento di conservazione. La visione neoliberale della società – o meglio il “there is no such thing as society” di thatcheriana memoria – non si può, infatti, ridurre alle schiere di individui “razionali” che massimizzano il proprio interesse, ma si comprende meglio se la si immagina come un insieme di “clan” di individui razionali intenti a difendere i propri interessi, banalmente identificabili a partire da differenze trattate come dati naturali. “There are individual men and women, and there are families”, chiosava la lady di ferro.

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M. Cuono è assegnista di ricerca in filosofia politica all’Università di Torino

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