Print Friendly, PDF & Email
aldogiannuli

Fisco: il nodo della doppia tassazione

di Aldo Giannuli

Consentendo a chiunque di spostare i suoi capitali in giro per il mondo, è subito nato il grosso problema della doppia tassazione: il signor Smith è cittadino americano, ma ha investito in azioni di una società indiana,  che ha depositato presso una banca svizzera, dove ha anche un cospicuo conto in denaro liquido, a chi deve pagare le tasse?

Ovviamente sia l’India che la Svizzera hanno propri ordinamenti sulla tassazione delle rendite azionarie, ma gli Usa ritengono che il signor Smith, in quanto cittadino americano, debba versare le tasse al suo paese. Non ci sono convenzioni internazionali (al massimo qualche accordo bilaterale) che regolino la questione e ciascuno fa da sè: ogni stato ha le sue aliquote, le sue norme che tassano più un certo tipo di rendite piuttosto che altre, modalità e tempi di pagamento, esenzioni, facilitazioni e così via. Per cui, alcuni Stati ritengono che il proprio cittadino debba versare per intero le tasse, come se il suo capitale fosse in patria, ma, in questo modo, il cittadino pagherebbe due volte e tasse: al suo paese ed a quello ospitante (e questo ha già dato luogo ad un contenzioso assai fitto).

Altri paesi ritengono che il cittadino possa detrarre per intero la quota di tasse pagate al paese ospitante e, per il resto, debba pagare quello che la normativa nazionale stabilisce, altri paesi riconoscono solo una detraibilità parziale. D’altra parte, non sempre le voci fiscali sono simili o equipollenti, per cui talvolta singole voci non sono riconosciute come detraibili. E non parliamo delle società che magari sono di diritto lussemburghese o delle Isole del Canale o di Vattelappesca,  ma che sono fatte da cittadini e società di diritto di altri paesi.

Ed anche questo alimenta un contenzioso da Giudizio Universale.

Qui non proveremo nemmeno a descrivere il ginepraio inestricabile delle normative nazionali, e gli eventuali accordi bilaterali, ci basta darne una sommaria panoramica. Il problema è ulteriormente aggrovigliato dall’intreccio fiscale fra singoli e società. Come si sa, le società sono soggetti di diritto del paese in cui vengono costituite, per cui se sette portoghesi, tre italiani, due greci ed un lussemburghese costituiscono una società in Lussemburgo, quella è una società di diritto lussemburghese anche se in Lussemburgo non fa alcuna operazione reale ed è solo una società di comodo. Da ragazzino mi aggiravo per il porto della mia città stupendomi per il gran numero di navi grandi e piccole che battevano bandiera panamense e mi chiedevo come mai un paese così piccolo avesse una flotta così imponente, ma soprattutto come mai tanti marinai panamensi parlassero così bene il barese. Dopo qualche tempo scoprii che Panama era soltanto un paese nel quale conveniva immatricolare un’imbarcazione, perchè le tasse costavano molto meno che altrove. Bene: oggi siamo di fronte alle società di comodo che “battono bandiera panamense” (o meglio: lussemburghese, sanmarinese, monegasca o del Liechtenstein e così via). E’ nata una sfrenata concorrenza fra stati per cui si offrono le condizioni fiscali migliori per attirare capitali e si capisce come, un piccolo stato con qualche centinaio di migliaia di abitanti, attirando una massa di capitali molte volte maggiore a quella nazionale, può permettersi il lusso di praticare una tassazione bassissima ai suoi cittadini, perchè comunque ricava molto di più da quello che gli rendono i capitali stranieri. Ma ci sono anche i casi in cui gli Stati praticano –in forme più o meno surrettizie- sgravi fiscali mirati proprio ai capitali stranieri e magari offrono condizioni giuridiche tali che consentono di ottenere il miglior rapporto fra deducibilità delle imposte e pagamento effettivo. Siamo ormai ad una forma di dunping applicato al fisco.

La normativa muta da caso a caso, per cui in un certo paese conviene costituire una società finanziaria, in un’altro è meglio una fondazione, in un terzo una Onlus dai vaghi intenti umanitari, che però opera per il tramite di società finanziarie o banche situate altrove ed in altre ancora è meglio costituire società immobiliari che però possono acquisire anche azioni di società assicurative.

Tutto questo determina un gioco di scatole cinesi dove, usando con accortezza le facilitazioni fiscali di ciascun paese, e facendo passare i capitali da una società all’altra, si riesce ad occultare la reale rendita finanziaria in primo luogo delle varie società ed, in ultima analisi, quelle personali dei soci che le compongono. Ormai, esportare capitali è perfettamente legale, anche se ogni paese stabilisce norme per cui occorre dichiararli ed in quali forme, ma, giocando in modo combinato  sulle esenzioni, gli sgravi, le detrazioni ecc. di ciascun paese si riesce ad eludere una parte significativa del dovuto. Con il gioco delle scatole cinesi o le transazioni estero su estero si riesce brillantemente ad evadere anche il resto sotto il compiacente ombrello del “segreto bancario”.

A questo punto si comprende meglio come si siano determinate quelle mostruose diseguaglianze sociali di cui abbiamo detto. Ma il peggio deve ancora venire. L’economista italiano Vito Tanzi (Fmi) sostiene già a diversi anni che la capacità impositiva degli Stati è destinata a calare per diverse ragioni (aumento degli scambi internazionali, aumento della mobilità dei lavoratori specializzati, aumento di scambi fra parti diverse della stessa multinazionale, formazione di nuovi  prodotti finanziari, crescita del commercio elettronico, formazione di sempre nuovi paradisi fiscali ecc. ) che definisce le “termiti fiscali”.

E qui torna l’alternativa:  o la finanza o gli stati. Se consentiremo ancora di spostare ulteriori quote di capitali dal fisco alla rendita finanziaria, questo non potrà che risolversi in un default generalizzato, quantomeno di molti paesi occidentali.

Add comment

Submit