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Riforma della scuola e ideologia

di Carlo Galli*

Il disegno di legge sulla riforma della scuola non disegna una riforma. Da questo punto di vista è anzi lacunoso e carente (ci sono ancora molte deleghe, infatti, che non hanno molte probabilità di produrre un coerente apparato normativo). I suoi effetti pratici saranno limitati, in pratica, alla formazione dell’organico funzionale della scuola e alla regolarizzazione del rapporto di lavoro di un gran numero di precari storici. Uno stock variegato e composito di persone, cresciuto a dismisura negli anni, sul quale si interviene con criteri almeno opinabili (in un contesto reso tanto ingarbugliato dalle politiche del passato che è difficile non commettere ingiustizie, comunque oggi ci si muova).

La stabilizzazione dei precari – idonei nei concorsi, o in vari modi abilitati, o di lungo servizio scolastico – con provvedimenti opelegis, o con sanatorie, o con concorsi riservati, è un classico della storia repubblicana. Lo ha fatto la Dc, senza menarne vanto. Lo ha fatto Berlusconi. Lo fa anche il provvedimento in questione, e forse non si può fare altrimenti: semmai, si può discutere il mix dei diversi strumenti previsti, ovvero la composizione dello stock di docenti da stabilizzare, oltre che la sua estensione complessiva – certo, da ampliare per evidenti ragioni di equità -.

Ma a fronte di questa luce – modesta ma non inesistente, e in ogni caso in una logica più di sistemazione dell’esistente che realmente innovativa – vi sono ombre, piuttosto fitte. L’essenza del disegno di legge, infatti, non è tecnica: è ideologica. Sta nella narrazione legittimante che lo informa, e che viene offerta all’intera nazione come un importante tassello – insieme al jobsact e alle riforme costituzionali ed elettorali – della “nuova politica” di Renzi. Per comprenderne la qualità, basta partire dalla constatazione che all’art. 1 tra le finalità educative non è elencato lo sviluppo della “capacità critico-cognitiva” del giovane, sostituita dalla “auto-imprenditorialità” (termine tecnico per indicare l’autonomia individuale, che è un concetto parecchio più semplice).

Il momento centrale dell’ideologia implicita nel provvedimento è l’interpretazione dell’autonomia scolastica come disuguaglianza fra le scuole pubbliche: un’ideologia che ha ricadute organizzative reali la prima delle quali è la tendenziale privatizzazione della scuola implicita nella clausola del 5 per mille – qui vale il principio in sé, più che l’entità del gettito o le eventuali correzioni previste dalla legge; il principio, cioè, per cui una parte non aggiuntiva ma strutturale della spesa statale per la scuola pubblica è deciso direttamente da alcuni privati interessati (così che si configura un finanziamento privato della scuola pubblica statale oltre che di quella paritaria) -. Lo stralcio di questo articolo (il 17), avvenuto in extremis (ma l’articolo è destinato a essere riproposto in altra sede), è una chiara vittoria della sinistra del Pd e delle opposizioni. È grave, semmai, che il governo abbia tentato di fare approvare queste norme, che hanno resistito anche al buon lavoro fatto in commissione sul testo originario. Lo sgravio fiscale anche per le scuole paritarie invece resta, inserito in una logica che peraltro trae origine dalla legge Berlinguer del 2000.

La disuguaglianza viene in ogni caso perseguita anche con altri strumenti, oltre alla privatizzazione. Centrale appare la verticalizzazione del ruolo del preside, o dirigente scolastico. La cui figura, quale esce dall’art. 9, anche dato che non sono stati accolti da governo e maggioranza alcuni emendamenti migliorativi, presenta – soprattutto nell’istituto della chiamata diretta – caratteri verticistici e gerarchici, leaderistici e aziendalistici, non esenti da elementi di discrezionalità e di arbitrarietà più che di autentica promozione del merito. Il preside non sarà uno “sceriffo” ma certo chiama a insegnare nella “sua” scuola i “suoi” docenti (anche a prescindere dalla loro abilitazione), con la responsabilità in ultima istanza monocratica, più che collegiale, di un dirigente come è disegnato dalla legge Bassanini per la pubblica amministrazione – rispetto alla quale, evidentemente, la scuola non gode di alcuna specificità -. È evidente che per questa via si potranno formare scuole “omogenee”, monoculturali, al limite monoconfessionali.

Le scuole statali potranno così andare incontro a un processo di differenziazione – sancito anche dalle valutazioni (l’ideologia della valutazione, e della competizione che le inerisce, è in linea con quanto succede all’Università, dove genera molte distorsioni, in un contesto che in ogni caso non è paragonabile a quello delle scuole) -. Si segnala incidentalmente che la valutazione dei valutatori (dei dirigenti) è invece ancora incompleta. Un processo pan-valutativo in ogni caso lontanissimo dalla logica che deve governare le scuole, che è il pluralismo nell’uguaglianza, attraverso la libertà d’insegnamento. Di questa logica morale e culturale non c’è traccia nel provvedimento. Ed è questa la sua lacuna più grave, ma anche più prevedibile.

Questa, a sua volta, è a rischio. Infatti, la libertà d’insegnamento di un docente “a chiamata” non può non essere limitata. Se dispiace al suo preside rischia infatti non tanto di perdere lo stipendio (è di ruolo) quanto di non essere confermato, dopo il triennio, nell’istituto scolastico dove insegna, e di doversene cercare un altro, presumibilmente più scomodo. È un effetto, potenzialmente subalternizzante e intimidatorio, analogo a quello prodotto dall’abolizione dell’articolo 18: l’istituto della chiamata diretta toglie indipendenza e autonomia al docente – certo, per ora questo effetto è limitato poiché si verifica solo per i neoassunti e non per i docenti di ruolo vincitori di concorso già in servizio, i quali restano servitori dello Stato e non soggetti “chiamati” dal dirigente scolastico (detto anche ufficialmente, con neologismo rivelatore, “leader educativo”); ma in prospettiva remota interesserà l’intero corpo docente (quindi per tale via è minacciata oltre che la libertà anche la continuità didattica, con danno non solo dei docenti ma anche degli studenti).

L’ideologia di questo provvedimento è coerente con lo stile politico dell’attuale leader: le riforme, a scarso (ma, va detto, non nullo) investimento economico, sono un’occasione per una resa dei conti con l’assetto democratico – certo, sfilacciato e per molti versi residuale – della scuola della Prima repubblica. In questo caso, con i sindacati della scuola e con l’intero corpo docente, accusati di apatia, inerzia, conservatorismo corporativo e di refrattarietà alla valutazione, che è vista, insieme all’uomo solo al comando, come la panacea di tutti i mali e come l’essenza stessa della scuola; con grave errore, poiché quell’essenza sta nella educazione come processo culturale complessivo è continuo, di cui la valutazione è parte subordinata. La presunta ostilità del corpo docente a subire valutazione è poi associata dal premier alla vecchia cultura sessantottina del 6 politico; ottima trovata (anche in chiave elettorale) per mettere i docenti in conflitto con le famiglie, che si suppone siano interessate alla qualità dell’insegnamento.

Un giudizio sul disegno di legge deve valutare il peso rispettivo degli aspetti positivi e di quelli negativi, discutibili provvedimenti concreti e cattiva ideologia (con le sue ricadute). E deve anche valutare oltre che la valorizzazione del lavoro parlamentare anche il rapporto col mondo esterno, in particolare la profondità e la trasversalità della rottura che si è istituita tra governo (e Pd) e insegnanti. Una rottura a cui si deve assolutamente porre rimedio non con vetero-sindacalismo ma con proposte più ampie e convincenti. Nel complesso, a oggi pare si possa dire che per questa volta le riforme – il cui effetto pratico, piuttosto basso ma non nullo sia nell’immediato sia in prospettiva, va nella direzione di un’adeguazione dell’esistente alle esigenze della “nuova oggettività” neoliberista – sono state interpretate ancora come occasione di divisione e di narrazione ideologica: cioè come esercizio del potere più che come servizio alla nazione.

* Deputato del Partito democratico e professore ordinario di Storia delle Dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna

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