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Elezioni regionali: la posta in gioco

di Leonardo Mazzei

In un certo senso Renzi avrebbe anche ragione nel voler delimitare la portata politica delle elezioni del 31 maggio. 

Quelle di domenica prossima sono regionali dimezzate rispetto alle precedenti del 2010. Voteranno infatti 7 regioni anziché 13. A differenza di 5 anni fa non andranno alle urne il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia Romagna, il Lazio, la Basilicata e la Calabria.

Dunque, come elezioni di "medio termine", il loro peso parrebbe almeno in parte svilito. Ma c'è un piccolo particolare che le rende invece importanti, e quel piccolo particolare si chiama proprio Matteo Renzi, con il suo progetto autoritario, la sua politica antipopolare, la sua voglia di costruirsi un regime a sua immagine e somiglianza. Nel bene come nel male il voto di domenica avrà quindi una chiara valenza politica, rafforzando od indebolendo il disegno del ducetto fiorentino.

Questa è la vera posta in gioco, ben al di là del governo delle Regioni, che giustamente non appassiona praticamente nessuno. Anzi, la supina accettazione delle politiche austeritarie da parte di tutti i governi regionali, con effetti gravissimi ad esempio nel settore sanitario, ha creato una vera e propria ripulsa popolare verso la stessa esistenza dell'Ente Regione. Aggiungiamo poi gli scandali ed il gioco è fatto. Basti pensare che i Consigli delle Regioni dove si è andati al voto anticipato in questi anni, sono stati sempre sciolti a causa delle varie ruberie che hanno riempito le cronache dei giornali, mai per un vero scontro politico sulle scelte da compiere.

Le Regioni sono dunque un'entità ormai squalificata. Da qui il diffuso disinteresse al voto di domenica. Un disinteresse accentuato anche dal fallimento del "federalismo all'amatriciana" che ha caratterizzato la seconda repubblica.

Non siamo certo i soli a cogliere questi elementi. Da una diversa prospettiva politica ecco quel che ha scritto Antonio Polito sul Corriere della Sera sabato scorso:
«Queste sono le prime elezioni regionali in cui non contano né le Regioni né i partiti. Di Regioni ormai non parla più nessuno perché il federalismo è uscito sconfitto dalla grande sbornia dell’ultimo ventennio, e se oggi s’avanza qualcosa è piuttosto un nuovo centralismo, sorretto dal decisionismo del governo Renzi. Il potere è a Roma, in periferia sono rimaste solo le addizionali Irpef».

In questo quadro non è certo difficile immaginare un'impennata dell'astensionismo, già a livelli stratosferici (37,7% di votanti) nelle elezioni in Emilia Romagna tenutesi nello scorso novembre.

Ma - lo abbiamo già detto - la posta in gioco è un'altra. In gioco è la forza e il futuro del progetto renziano che tende alla costruzione di un autentico regime. Un regime i cui tasselli decisivi sono rappresentati dall'Italicum e dalla controriforma costituzionale. Una controriforma che dovrà tornare, per la seconda lettura, prima al Senato e poi alla Camera. E che poi dovrà comunque passare dal referendum confermativo, che prevedibilmente si svolgerà nella primavera del 2016 (per approfondire la questione leggi QUI ).

Chiunque può facilmente comprendere come il voto regionale influirà su questi passaggi, così pure come sull'approvazione definitiva della controriforma della scuola al Senato.

Un Renzi rafforzato dal voto avrebbe facilmente via libera su tutte queste decisive partite. Un Renzi azzoppato dalle urne sarebbe inevitabilmente più fragile. Dunque non possiamo snobbare l'appuntamento di domenica.

Renzi sta giocando a fare il furbo. Ma lo sta facendo in maniera un po' troppo sfacciata. Il suo abbassare l'asticella, per cui un 4 a 3 sarebbe una vittoria, è la mossa del venditore di pentole che si appresta a festeggiare per un 5 a 2, o ad esultare per un 6 a 1, quando un mese fa l'obiettivo dichiarato era semplicemente il 7 a zero.

In realtà qui non conterà solo il numero di regioni conquistate (e teniamo conto che in Liguria è anche possibile il pareggio), conterà anche il totale dei voti ottenuti. Anzi, sarà soprattutto quel dato a dirci di quanto si è sgonfiato il famoso 40,8% delle europee.

Abbiamo spiegato tante volte le ragioni per cui il PD renziano è oggi il nemico principale. Apprezziamo quindi quanto ha scritto Giorgio Cremaschi sul fatto che la prima cosa da fare è «non votare in ogni caso ed in ogni situazione per il PD ed i suoi alleati». Questa affermazione è condivisibile, ma essa non è sufficiente.

Ovvio che si debba colpire il PD, ma qual è il voto che può fare più male a Renzi? Questa è la domanda alla quale bisogna rispondere. Bene, noi non abbiamo risparmiato critiche agli amici del Movimento Cinque Stelle, ma solo un'affermazione di M5S darebbe il senso della crescita di un'opposizione al renzismo nella società.

Non solo perché quella di M5S è stata l'opposizione parlamentare più conseguente, non solo perché M5S ha sempre rifiutato ogni alleanza con il PD, ma anche perché il M5S è ormai una forza dichiaratamente anti-euro.

 


Certo, noi vorremmo di più, vorremmo ben altra consapevolezza, vorremmo un'altra lungimiranza, vorremmo una capacità di legare le battaglie democratiche alla lotta sociale. Ma, almeno sul terreno elettorale, questo è quel che passa oggi il convento.

D'altronde, queste elezioni ci diranno anche chi andrà a collocarsi in pole position come alternativa politico-elettorale al PD ed al famelico gruppo di potere che si raccoglie attorno al capo del governo. Ed i casi sono due: o questa posizione sarà di M5S o verrà conquistata dalla Lega, con le sue posizioni reazionarie, liberiste e fascistoidi. Motivo più che sufficiente per dare il voto al Movimento Cinque Stelle. Un voto che non va inteso come una delega, ma come uno strumento di lotta contro il costituendo regime renziano.

 

 

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