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ilsimplicissimus

Partito unico, sindacato unico, faccia tosta unica

Anna Lombroso

Magari c’è chi si è stupito della sortita del caudillo di Rignano, di quel suo auspicio di un sindacato unico, non unitario, proprio unico, possibilmente la Cisl, con il quale “dialogare” nell’unico modo che conosce, facendosi dare sempre ragione, non come i matti, ma come i despoti piccoli e grandi. Io non mi sono meravigliata: abbiamo fatto ormai l’abitudine al travaso delle idee più mediocri, banali e corrive da uno scompartimento ferroviario, da un tavolino del bar sport, da una cena di un Lyons di provincia alla poltrona di premier conquistata senza merito e senza elezioni.

E c’è purtroppo da prenderlo sul serio: l’uomo non è nuovo alla demolizione dell’edificio democratico delle rappresentanze e dei corpi intermedi, quanto invece  è intento a costruire un sistema, suggerito in alto e altrove, che esalti valori aziendali e commerciali, quelli della fidelizzazione, dell’appartenenza,  del prezzo, del marketing, della competizione e della sopraffazione padronale, ambedue oggi condizionate da produzioni caratterizzate da un basso valore aggiunto e quindi attive solo sul fronte del costo del lavoro vicino a concorrere solo con i quello di altri “terzi mondi”.

È per quello che, oltre ogni  considerazione di buonsenso, i sindacati rappresentano per lui un’arena di “ostili”, benché ormai degenerati e interpretati come un ceto chiuso, detentore di privilegi e rendite di posizione, poco sensibile alle aspettative di lavoratori sempre più soli, poco avvertiti dei bisogni dei precari, che per loro stessa natura vivono una diaspora di interessi e una condizione di isolamento.

Non a caso l’esternazione è datata proprio in concomitanza con il risveglio del mondo della scuola, che, sebbene critico con le organizzazioni sindacali, rischia di limare l’unanimismo plebiscitario a sostegno del bullo che non ha mai lavorato e della cricca del suo manager di riferimento, rievocando quel clima di conflittualità sociale caposaldo dell’aspirazione alla giustizia sociale, criminalizzato da   e sostituito dal “consociativismo”, dalla ripartizione di diritti, doveri e responsabilità in modo che sulla stessa barca, la facciano pendere  pericolosamente e sempre dalla parte dei destinati ad essere sommersi.

Eh si, non gli bastano gli attacchi ai contratti nazionali di lavoro, non gli basta il Jobs Act, non gli basta aver concluso il percorso che ha portato alla morte per mano degli infedeli di un partito che si riferiva all’idea di classe e alla vocazione di difendere i lavoratori dallo sfruttamento.

E non gli basta neppure aver seppellito per legge, garanzie e diritti, di aver definitivamente cancellato la possibilità di salire nella piramide sociale, di godere di sicurezze e beni materiali e immateriali, di poter decidere del proprio destino, inteso come la possibilità di accedere a istruzione, cultura, risorse, opportunità.  E non gli basta, a lui e agli imperialisti finanziari, l’attacco dei governi conservatori dagli anni ’70,  gli effetti della contrazione dei settori manifatturiero e minerario, tradizionali roccaforti, la perdita di iscritti. E nemmeno l’eccedenza della forza lavoro rispetto al suo impiego. E neppure il disimpegno sociale delle organizzazioni più strutturate, rispetto alle condizioni salariali, alla necessità di pensare ed agire globalmente di fronte a difesa dei “nuovi salariati” sia dei paesi in via di industrializzazione che in quelli “industrializzati”, degli immigrati, degli espulsi senza speranza, delle vittime del lavoro flessibili in società rigide.

Non gli basta perché deve compiere quel disegno  secondo il quale l’efficienza non deve riguardare più organizzazione del lavoro, ma quella del mercato, in modo che sia sempre più facile licenziare, sostituire, spostare de localizzare, togliendo di mezzo gli ostacoli, di legge, di civiltà, di rappresentanza,  di democrazia. il suo proposito è quello di imporre, magari per via di riforma – che l’Ue ce lo chiede, anche a nome di Mario Draghi: «la disoccupazione viene com­bat­tuta meglio dalla nego­zia­zione azien­dale che da quella nazio­nale» –   l’atomizzazione negoziale, la contrattazione dentro alle mura dell’impresa e condizionata dalla redditività, che se poi va male per i padroni, si può ricorrere a consultazioni farlocche e referendum truccati e viziati all’origine, come è ovvio che sia laddove vige l’egemonia del ricatto e dell’intimidazione. Nemmeno il fascismo che pretendeva di incaricarsi  di mantenere non solo l’ordine, ma anche la giustizia e la pace sociale tra le diverse classi, con le sue tre confederazioni e le sue 22 corporazioni era arrivato a tanto. E adesso  non ci resta che aspettare una Carta del Lavoro con un Poletti nelle vesti di moderno Bottai, che in nome della disciplina sociale, vieti lo sciopero e la serrata, “sbracciantizzi”, come si disse allora a proposito del lavoro agrario e manuale,  per far fuori quel che resta di leghe e sindacati, salvo quello, unico come il partito, designato per fare da cinghia di trasmissione col regime.

Non so  se i sindacati, arroccati in questi anni come sonnolenti pachidermi nelle loro sedi, negli uffici del terziario, nei palazzi del settore pubblico, sempre  più assediati da poteri economici e finanziari, sempre più criticati da ceti indifesi e offesi che rinfacciano loro la difesa dell’esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ormai invece erosi, l’inadeguatezza a tutelare il lavoro, tutto e prima di tutto quello precario, alterno, autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, sapranno reagire, se basterà la coalizione sociale di Landini a smuovere il corpaccione semiaddormentato. Ma so che la difesa della rappresentanza è una battaglia di tutti, come la scuola, come il territorio, come il reddito di cittadinanza, come la democrazia.

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