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Varoufakis, la questione democratica e un problema di leadership

di Mauro Poggi

Sul suo blog, Yanis Varoufakis commenta  il suo intervento all’ultima riunione dell’Eurogruppo (mie le enfasi e le parentesi quadre):

La riunione Eurogruppo del 27/6/2015 non sarà un evento nella storia dell’Europa di cui andare fieri. I Ministri hanno rifiutato la richiesta del Governo greco di garantire ai cittadini ellenici una settimana [di dilazione] durante la quale essi potessero esprimere il loro Sì o No alle proposte delle Istituzioni [Troika], proposte cruciali per il futuro della Grecia nell’Eurozona. 

La sola idea che che il Governo consulti i propri cittadini su un tema così critico ha suscitato incomprensione, ed è stata trattata con uno sdegno che rasentava il disprezzo.

Mi è stato persino chiesto: “Come può aspettarsi che la gente comune possa capire problemi così complessi?

Davvero non è stato un momento felice per la democrazia la riunione dell’Eurogruppo di ieri! Ma nemmeno lo è stato per le Istituzioni europee. Dopo aver rifiutato la nostra richiesta, il Presidente dell’Eurogruppo [l’olandese Jeroen Dijsselbloem] è venuto meno alla convenzione che richiede l’unanimità e rilasciato una dichiarazione [a nome dell’Eurogruppo] senza il mio consenso. Ha persino preso la dubbia decisione di convocare un successivo incontro senza il Ministro greco, ostentatamente per discutere “i prossimi passi”.

Possono coesistere democrazia e unione monetaria? O la prima dev’essere subordinata alla seconda? 

 

È questo il problema fondamentale a cui l’Eurogruppo ha deciso di rispondere, accantonando la questione democratica. Almeno per il momento, spero.

La domanda, retorica, trova già una prima risposta nell’obiezione a proposito del referendum: la gente non è in grado di capire problemi così complessi, quindi la gente non ha diritto di esprimersi – anche se la soluzione passa sulla loro pelle. La frase riportata da Varoufakis non è un infortunio verbale occorso in una situazione concitata, ma un preciso modo di pensare paternalistico che viene da lontano e ha conformato lo spirito comunitario sin dagli esordi, condizionandone tutta la costruzione fino agli esiti autoritari che conosciamo oggi.

Jean Monnet, uno dei padri fondatori, ammetteva candidamente di pensare che era un errore “consultare i cittadini europei su un sistema comunitario di cui non hanno alcuna esperienza pratica“.

L’eurocrate fondamentalista Mario Monti, il capostipite dei Primi ministri italiani non eletti ma nominati, considerava con favore e una buona dose di invidia il fatto che le istituzioni che contano in Europa fossero “al riparo dal processo elettorale“.

L’attuale presidente della Commissione europea, l’etilista Junker, spiega senza remore la tecnica usata dai nostri decisori: ”

Prima decidiamo qualcosa, poi la lanciamo nello spazio pubblico. In seguito aspettiamo un po’ e guardiamo cosa succede. Se non fa scandalo o non provoca sommosse, perché la maggior parte delle persone non si sono neanche rese conto di ciò che è stato deciso, continuiamo, passo dopo passo, fin quando non sia più possibile tornare indietro“. Più ultimamente ha dichiarato che “non si possono cambiare le regole ogni volta che cambia un governo“.

Tommaso Padoa Schioppa, l’uomo che deprecava lo stato sociale perché disabitua la gente alla “durezza del vivere“, diceva che la costruzione europea è stata una rivoluzione, operata non da cospiratori pallidi e magri ma da funzionari e banchieri. “L’Europa non nasce da un movimento democratico […ma] seguendo un metodo che potremmo definire dispotismo illuminato“.

Si potrebbe proseguire per pagine e pagine.

È la stessa sensibilità democratica che gli eurotecnocrati hanno dimostrato  conferendo a Bruxelles  con i leader dell’opposizione greca (l’ex premier Samaras di Nuova Democrazia, Gennimata del Pasok e Theodorakis di To Potami), per sondare le loro disponibilità a formare un governo di unità nazionale disposto a sottostare al memorandum di intenti stabilito dalla Troika (Cfr Paul Mason, ed Thomas Fazi).

Ho sempre avuto la convinzione che la pretesa di Syriza di riformare l’Europa dall’interno, attraverso il dialogo, fosse un tentativo velleitario destinato a fallire; ma da sempre mi auguro di avere torto e non posso fare a meno di provare una forte simpatia e tifare per l’attuale compagine del Governo greco.

Tuttavia mi dispiace che Varoufakis ponga solo ora la questione democratica.

Le sue riserve nei confronti dell’Eurozona, prima di diventare Ministro delle finanze e scontrarsi personalmente con il muro autoritario del sistema, erano limitate ai soli aspetti tecnici. Fino a qualche anno fa lamentava un insufficiente impegno della Germania, come stato egemone, nella governance europea; e la sua “modest proposal”, formulata nel 2013 con il collega Galbraith, proponeva una soluzione per superare alcune delle rigidità tecniche ma non affrontava la grave anomalia della mancanza di rappresentatività: con l’effetto – ammesso che venisse presa in considerazione, come poi non è stato – di cambiare qualcosa per non cambiare nulla. (Diversi suoi lettori, fra cui il sottoscritto, gli avevano sollevato l’obiezione, e ricordo che mentre sulle questioni tecniche aveva accettato il confronto profondendosi in spiegazioni e precisazioni, sull’aspetto politico non aveva ritenuto di ribattere – almeno per quanto mi risulta).

È la stessa sgradevole sensazione che provo ascoltando il nostro caro leader, Matteo Renzi, quando davanti alle chiusure degli altri paesi al problema dell’immigrazione, scopre che l’Europa non è né solidale né comunitaria, e prorompe in un inusuale “Se questa è la vostra idea di Europa, tenetevela!”.

Come se l’Europa, finora, non avesse dato altre eloquenti prove di sé.

Se per scoprire le insufficienze del sistema i leader hanno bisogna di sperimentarle da vicino, allora oltre a un macroscopico problema Europa i cittadini europei hanno anche un macroscopico problema di leadership.

Il che, lo ammetto, dopotutto non è affatto una novità.

 

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