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Vivere nell’irreversibile. Heroes

di Francesco Paolella

È facile riconoscere che siamo caduti nell’irreversibile, pensando alla nostra vita quotidiana, alla nostra vita in società, al nostro lavoro e, via via, fino all’orizzonte più ampio di ciò che resta della “politica”, ai simulacri della partecipazione e della solidarietà.

Caos e solitudine, depressione ed eccitazione, selezione e competizione, produttività e accumulazione: sono questi gli ingredienti del nostro suicidio di massa (che è anche inevitabilmente un omicidio di massa). 

È più semplice perdere l’illusione di poter ancora resistere: questa illusione è stato l’errore capitale delle ultime generazioni della sinistra occidentale: purtroppo, non c’è più niente da salvare o da predicare. Il collettivo è morto, il turbocapitalismo ha sconfitto il lavoro e siamo costretti a sopravvivere in un perenne stato di panico, continuamente produttivi e competitivi, ma pur sempre precari. Non ci si può liberare dal dominio della connessione feroce e totalitaria.

La nostra è una disperazione per certi versi inedita: sappiamo che il nostro “sistema” sta distruggendo le nostre esistente, vediamo peggiorare la nostra vita e scomparire reali prospettive di progresso. Questa è una disperazione pulita, sfamata, elettronica, liscia e luminosa come uno schermo e, a tratti, persino “divertente” – come possono essere divertenti la vecchia televisione o Facebook o l’intrattenimento autoprodotto di youtube.

È necessario – questa la nostra prospettiva più realistica – convivere con la disperazione e molti di noi riescono piuttosto bene: immersi nell’incantamento digitale e nella retorica dell’efficienza competitiva, apprendiamo (ma con sempre meno stupore) che, ogni tanto, qualcuno “crolla” e decide di vendicarsi, esaltandosi in uno spettacolo visibile da tutti, uccidendo i compagni di scuola o gli spettatori di un cinema o facendo precipitare un aereo sulle Alpi. Sono solo “pazzi criminali”, come si diceva una volta? Si potrebbero dire tante cose sugli effetti del virtuale (dei videogiochi ad esempio) sulla anestetizzazione morale e sulla scomparsa di ogni empatia, specie fra le generazioni più giovani. Ma non sarebbe ancora sufficiente.

Come scrive Franco Berardi qui in Heroes, il suicido (e omicidio di massa) rappresenta oggi in un certo senso un atto anche politico, una risposta nichilista al nichilismo vittorioso. La via d’uscita suicidaria è una via di fuga che riesce a tradurre la rabbia solitaria, la frustrazione e il dolore dell’isolamento, il senso di sconfitta di chi si sente abbandonato o incapace di competere, a tradurre tutto ciò in gesti criminali e paradossalmente vincenti. Non sono sempre necessarie costruzioni ideologiche o motivazioni politiche (come nel caso di Andres Breivik, omicida di massa fra i giovani laburisti sull’isola di Utoyya, in Novergia). Sentirsi sconfitti irrimediabilmente, senza possibilità di consolazione o riscatto: tanto basta, per fortuna in casi estremi, per prendere la vita della violenza gratuita. Ma non crediamo che si tratti, appunto, solo di eccezioni: tutto il nostro sistema di vita è criminogeno e per questo, appunto, disperante.

L’immersione in stimoli continui (al possesso di corpi animati e inanimati) e l’assenza contemporanea di desideri; il rifugio nella virtualità e l’alienazione totale che ne può derivare; lo sfruttamento sempre più efficace delle nostre energie nervose e il furto, persino, di ore del nostro sonno – dormiamo parecchie ore in meno ogni notte rispetto ai nostri nonni; l’impoverimento emozionale e l’ansia generata dai ricatti sociali, che rendono ogni legame soltanto funzionale al proprio guadagno o alla propria “salvezza” – pensiamo soltanto ai debiti contratti per la casa o per studiare; tutto queste sciagure sono degli assalti continui e irresistibili alle nostre menti e alle nostre scarse capacità di “resilienza”. Ecco che ci illudiamo di trovare rifugio nell’aggressività, nella identità, nella religione o nella “memoria”: ma questi sono soltanto segni di impotenza.

E, dunque, che fare?

Non è nemmeno possibile immaginare quante generazioni occorreranno e quali sconvolgimenti saranno necessari, perché sia soltanto possibile ipotizzare un cambiamento reale. Dedicarsi ad azioni simboliche e distruttive è l’unica possibile forma di opposizione? A tutta prima, e la lettura del bel libro di Berardi sembra confermarlo, non resta che la sottrazione: abbandonare velleitarie lotte di retroguardia per coalizioni sociali e beni comuni. Piuttosto rendersi indisponibili, o il meno che sia possibile, coltivando angoli di libertà povera, di silenzio e, magari, di gratuità e solidarietà. Ma si tratta di medicine che non riescono comunque ad aggredire la malattia.

Il nostro contesto così ostile – e quanto descritto da Berardi mi ha fatto tornare in meno almeno il titolo del magnifico libro di Peter Handke, Infelicità senza desideri – non permette neppure di appoggiarsi alla nostalgia (nostalgia che pure anche qui Berardi sembra di non aver abbandonato per qual passato – il ’77, le “belle bandiere” rosse a ogni latitudine – in cui ancora ci si poteva illudere.

Ad ogni modo, il pessimismo e uno sguardo disincantato e distopico non hanno alcuna virtù e non servono a molto.

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