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effimera

Ma è proprio lo scoppio della bolla cinese?

di Gabriele Battaglia

“Ma tu credi ancora ai giornali occidentali?”

Così mi ha risposto un’amica cinese quando le ho chiesto come se la passassero le sue azioni, dato che qualche tempo fa mi aveva confessato di giocare in borsa da circa vent’anni. Lei è una “gnoma”, una di quei 90 milioni di piccoli azionisti (due milioni in più degli iscritti al Partito comunista) che movimentano quotidianamente le borse di Shanghai e Shenzhen. Se vi aggiungiamo anche Hong Kong, è con 14mila miliardi di dollari il secondo mercato azionario più grande del mondo in termini di volume di scambi annuo (dopo gli Usa).

 

Volatilità o scoppio?

Non che una persona faccia testo, ma è forte l’impressione che ciò che dalle nostre parti è stato scambiato per avvisaglia dello scoppio della bolla cinese, sia stato in realtà semplice volatilità. Accentuata, ma pur sempre volatilità.

A confermare questa impressione, ci sono anche le chiacchiere scambiate con due “esperti”: il responsabile del centro ricerche per la Cina di un grande istituto di credito europeo e il chief economist di una istituzione finanziaria sovranazionale asiatica (scusate la vaghezza, ma questi tipi chiedono quasi sempre garanzia di anonimato). Anche loro parlano di semplice “volatilità”, dicendosi in realtà molto più preoccupati del progetto bicefalo di nuova “Via della Seta”: la prima grande proposta geopolitica che la Cina fa al mondo almeno dai tempi della dinastia Ming ma, secondo loro, qualcosa di cui non si vede la razionalità economica. Un’idea che forse non esiste neppure, se non negli slogan. Ma è un altro discorso. Torniamo in borsa.

È vulgata comune, tra gli “gnomi” di Shanghai e Shenzhen, che per capire come investire si debba capire il messaggio politico che viene dalla leadership politica. Piuttosto ovvio, in un mercato come quello cinese. La fase di drastico aggiustamento al ribasso delle borse di Shanghai e Shenzhen (A-shares) successivo al 12 agosto era stata in realtà preceduta da un vero e proprio boom nell’ultimo anno favorito proprio dalla spinta del governo, interessato a spostare gli “gnomi” dalla bolla immobiliare e dal “credito ombra” – il settore finanziario informale – al mercato azionario. Il tentativo va inserito nella più generale transizione della Cina verso un'”economia evoluta”.

Socialmente e politicamente, il tentativo di trasformare la piccola borghesia cinese nata dalla proprietà immobiliare in un magma più diversificato, dove gioca un ruolo sempre maggiore la finanza, può essere visto come un’operazione messa in atto dal Partito per rinnovare il patto sociale che tiene insieme il Paese da dopo Tian’anmen: voi arricchitevi, noi governiamo.

Così, negli ultimi dodici mesi le autorità economiche cinesi hanno da un lato lasciato intendere che la febbre del mattone deve finire, limitando per esempio l’accesso ai mutui per le seconde, terze, quarte (ma – non è uno scherzo – anche 21esime) case. Dall’altro lato, hanno incentivato la partecipazione degli investitori locali al mercato azionario cinese grazie allo Stock Connect (sportello unico) tra le borse di Shanghai e Hong Kong – che ha dato accesso agli investitori cinesi al mercato delle H-share dell’ex colonia britannica – sia dalle operazioni di margin financing, cioè l’indebitamento per l’acquisto di titoli a leva. Questo punto è fondamentale: i cinesi prendono denaro a credito non solo per comprarsi la casa o l’auto, ma anche per investire in borsa al di là delle proprie disponibilità patrimoniali. Da maggio 2014 a maggio 2015, il margin credit è passato da 400 miliardi di RMB (3,1 per cento della capitalizzazione di mercato di Shanghai) a 2.100 miliardi (6,7 per cento di capitalizzazione).

Investitori retail poco informati che prendono soldi a prestito per investire. E qui già si sente odore di bolla. Si aggiunga poi che, secondo la pratica diffusa, i brokers che forniscono prestiti margine agli gnomi hanno in garanzia lo stesso pacchetto azionario del cliente: quando il calo dei valori azionari mette il rimborso del prestito a rischio, loro hanno di solito facoltà di sequestrare e vendere questa garanzia. Tali vendite d’emergenza possono amplificare il crollo del mercato, così come gli acquisti a credito hanno amplificato il boom.

Da tempo, i più avveduti analisti prevedevano che la correzione al ribasso sarebbe prima o poi arrivata. Ma nessuno sapeva prevedere quando e in quale entità. È successo a giugno, quando è iniziata una correzione di alcuni dei titoli più speculativi e con bilanci poco brillanti, che nei mesi precedenti avevano ricevuto valutazioni eccessive rispetto ai loro fondamentali.
Su questo rallentamento, si è innestata l’ondata di vendite legata alla natura stessa del margin financing, che tanto può dare in salita ma altrettanto toglie in discesa. Ed ecco la volatilità del mercato cinese.

 

Come mai in Cina ogni attività economica tende ad assumere connotati speculativi?

La spiegazione va ricercata nell’assenza di un welfare (il governo ci sta provando, ma il percorso è lungo e accidentato) e negli interessi sui depositi bancari tenuti politicamente bassi, per favorire le grandi imprese di Stato che prendono soldi a prestito. Così, i cinesi devono mettere fieno in cascina per la vecchiaia o la malattia, ma non sanno come valorizzare i propri risparmi. Di conseguenza, identificano quei settori che garantiscono margini alti e ci buttano i propri risparmi: il mattone, soprattutto, ma anche il mercato dell’arte piuttosto che il vino Bordeaux. E ora il mercato azionario.

Insomma, chilometri di villette a schiera disabitate in qualche sperduta campagna cinese e i rimbalzi delle borse si spiegano più o meno alla stessa maniera.

A questo punto, è entrato in gioco il governo cinese, navigando a vista ma con parecchie frecce nella propria faretra, secondo consolidata tradizione di “interventismo” quando gli eccessi del mercato mettono tutto il sistema a rischio.

1) Sono state temporaneamente sospese le IPO.

2) La borsa di Shanghai, la borsa di Shenzhen e China Securities Depository and Clearing Co. Ltd hanno annunciato la riduzione dei costi di negoziazione sui mercati A-share.

3) La China Securities Regulatory Commission (cioè la Consob cinese) ha stabilito che soci, amministratori o dirigenti d’azienda che detengono quote azionarie superiori al 5% non possono vendere i loro asset per i prossimi sei mesi.

4) I 21 principali broker della Cina si sono impegnati a investire almeno 120 miliardi di RMB in Exchange-traded fund (ETF, fondi d’investimento) di blue chip (cioè le azioni di società a più alta capitalizzazione). Tali broker si sono inoltre impegnati a non vendere le azioni.

5) La People’s Bank of China si è impegnata a dare liquidità alle istituzioni finanziarie che hanno sostenuto il margin financing.
Infine, al di là dell’azione del governo, ha avuto luogo la sospensione di oltre 1.400 titoli, determinata dalle stesse aziende per il timore di cali eccessivi del loro valore.

 

Il mercato si è ripreso.

Guardando alle misure messe in atto da Pechino, l’impressione è che il governo stia compiendo una sterzata per terminare la volubile e volatile fase del mercato degli gnomi e affidarlo a investitori più grandi, istituzionali e affidabili. Nel frattempo si fa carico dei costi di questa transizione.

Pare che questa strategia abbia un certo successo perché, nonostante il trambusto dell’ultimo mese, i fondi d’investimento Usa hanno continuato a pompare fondi nel mercato cinese anche durante la correzione al ribasso. L’ha osservato l’agenzia EPFR Global di Boston, secondo cui l’aumento dei valori azionari che si è verificato nell’anno precedente al 12 giugno è così grande che oltre l’80% degli Exchange-traded fund focalizzati sulla Cina chiuderà comunque l’anno in attivo.

Il mercato azionario cinese continua a fare gola agli investitori internazionali, come ghiotta occasione di diversificazione. Secondo Fidelity Worldwide Investment, un’agenzia di gestione fondi che opera in Cina, l’ottimismo sul medio-lungo periodo dipende dal fatto che “il sistema finanziario cinese continua a essere sostenuto dal governo, che dispone di più di 3.000 miliardi di dollari di asset da destinare alle aree problematiche”. Insomma, il fattore chiave è proprio l’interventismo politico.

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